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Cittadinanza federale europea - 3° contributo

Una cittadinanza a più livelli basata sulla residenza: il carattere "inclusivo" della cittadinanza europea

Il contributo fa parte del documento, composto da 8 articoli, sulla "Cittadinanza federale" redatto collettivamente dalla Gioventù Federalista Europea e presentato in occasione del Seminario di dibattito MFE-GFE (Napoli, 16-17 ottobre 2004). Europace pubblicherà a cadenza settimanale tutti i contributi.
18 febbraio 2005
Chiara Cipolletta (Gioventù Federalista Europea)

Il Trattato sull’Unione Europea firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 ha fissato tra gli obiettivi dell’Unione quello di “rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati Membri mediante l’istituzione di una cittadinanza dell’Unione”: è cittadino europeo dunque chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro.

Conseguenza diretta di questa dizione è il fatto che, per poter usufruire della cittadinanza dell'Unione, occorre essere già in possesso della nazionalità di uno Stato membro: si tratta infatti di una cittadinanza che non compete con la cittadinanza nazionale, né tanto meno vi si sostituisce, ma che piuttosto aggiunge ad essa alcuni diritti sovranazionali legati in particolare alla libertà di circolazione e di soggiorno e alla tutela di cui ogni cittadino gode nel proprio Stato anche nel caso in cui risieda in qualsiasi altro Stato dell’Unione, all’interno del quale egli non sarà “cittadino” ma avrà comunque più diritti di uno straniero.

In particolare la cittadinanza europea comporta quattro categorie di diritti:

1) la libertà di circolazione e di soggiorno su tutto il territorio dell’Unione;

2) il diritto di votare e di essere eletto alle elezioni comunali e a quelle del Parlamento europeo nello Stato membro di residenza;

3) la tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro in un paese terzo nel quale lo Stato di cui la persona in causa ha la cittadinanza non è rappresentato;

4) il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo e ricorsi al mediatore europeo.

L’istituzione della cittadinanza europea rappresenta evidentemente un’importante innovazione: una condizione giuridica che è nata e si è sviluppata parallelamente all’affermazione dello Stato moderno, identificando l’appartenenza ad un territorio, ad una comunità e ad una cultura definite da confini nazionali, viene per la prima volta riferita ad un’entità di tipo sovranazionale.

Il concetto di cittadinanza infatti sta subendo una graduale rivisitazione alla luce dell’emergere di arene decisionali e di potere diverse da quelle strettamente nazionali e di problemi “globali” che poco si conciliano con il tradizionale sentimento di appartenenza ad una comunità politica giuridicamente e geograficamente circoscritta: il risultato è un indebolimento del vincolo di identità che ha legato lo Stato all’individuo sin dai tempi in cui l’organo statuale era effettivamente il riferimento reale di ogni comune cittadino.

La corrispondenza tra cittadinanza e nazionalità quindi è sempre più labile e la cittadinanza europea costituisce il seme del superamento di questo connubio: diritti che in passato venivano accordati in base al criterio dell’appartenenza ad uno Stato nazionale, oggi sono invece legati alla residenza.

La ragione di questa evoluzione è anche da collegarsi al diverso significato che i due termini “nazionalità” e “cittadinanza” ricoprono, sebbene siano spesso erroneamente considerati sinonimi: la prima identifica una posizione passiva rispetto all’ordinamento statuale, la cui utilità consiste nel distinguere un membro dello stato da un straniero, la seconda è invece un “fattore di coesione sociale”(1) che implica una partecipazione consapevole alla vita politica e l’adesione ad una comunità d’intenti quale è, nel nostro caso, l’esperienza europea.

Così come è stata delineata a Maastricht tuttavia la cittadinanza europea, pur costituendo un’innovazione dal punto di vista giuridico-politico, crea una discriminazione ancora più forte tra europei e cittadini di paesi terzi i quali, risiedendo anche da molti anni in uno Stato Membro, non solo godono di meno diritti rispetto ad un cittadino di quello Stato, ma sono, in quanto stranieri, nettamente svantaggiati anche rispetto ad un qualsiasi altro cittadino dell’Unione che si trovi a risiedere entro quei confini anche da un periodo di tempo nettamente minore.

Questa contraddizione è emersa nel corso degli anni successivi al Trattato istitutivo dell’Unione Europea, tanto che a Tampere nel 1999 il Consiglio Europeo ha inteso “ravvicinare lo status giuridico degli individui originari di paesi terzi a quello degli Stati Membri mediante l’attribuzione di diritti quanto più possibile simili a quelli di cui godono i cittadini dell’UE”.
Tuttavia lo “status di soggiornante di lungo periodo” istituito dalla Direttiva 109/2003 del Consiglio, pur garantendo, tra gli altri, il diritto alla residenza, all'istruzione, al lavoro autonomo o subordinato e alla non discriminazione rispetto ai cittadini dello Stato ospitante, si concreta spesso in un titolo di soggiorno permanente o di validità illimitata o in un permesso di stabilimento, segnando in ogni caso una netta distinzione con chi possiede la cittadinanza. In particolare il diritto elettorale attivo e passivo per le elezioni municipali ed europee è riservato esclusivamente ai cittadini dell’UE.

C’è quindi da chiedersi per quale motivo la residenza di lungo periodo in un paese europeo da parte di uno straniero, la sua conoscenza della lingua, la sua integrazione sociale e culturale non debbano costituire un beneficio per la “famiglia europea”, arricchita da contributi tanto diversi e tanto importanti, al punto da concedere la partecipazione alle decisioni politiche, vale a dire il nucleo del concetto di cittadinanza.

Nel testo della proposta della Direttiva sopracitata (elaborata nel 2001) si legge come la Commissione abbia approvato l'obiettivo di offrire ai cittadini di paesi terzi che soggiornano regolarmente e stabilmente nell'Unione l'opportunità di ottenere la cittadinanza dello Stato membro in cui risiedono e di conseguenza la cittadinanza europea.
Questa apertura non è stata accolta nel testo finale della Direttiva mostrando ancora una volta come non sia ancora comunemente accettata l’idea dell’adozione della residenza quale criterio di attribuzione della cittadinanza allo stesso titolo della nazionalità.

Il Forum Europeo di Parigi ha rilanciato lo scorso anno il tema dell’attribuzione della cittadinanza in base alla residenza mediante una petizione europea con riferimento all’articolo 46 del Progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa(2).
Se questa iniziativa avesse successo le implicazioni sarebbero rivoluzionarie: il concetto di cittadinanza europea non costituirebbe più un semplice vezzo terminologico atto ad indicare un ristretto numero di diritti sovranazionali, ma si evolverebbe in uno status giuridico completamente innovativo, un modello di cittadinanza che andrebbe ad esprimere in maniera completa il profondo legame di sentimento e di ragione tra l’individuo e l’Unione dando vita ad un vero e proprio popolo europeo e costituendo quindi un indiscutibile elemento di slancio per la costruzione di una futura Federazione.
Tuttavia tali affermazioni di principio, nell’ottica di una coscienza critica quale è quella della militanza federalista, che non solo pone i problemi ma si adopera per risolverli, devono servire da base per un ragionamento più pratico che metta in luce le difficoltà che si oppongono all’attribuzione della cittadinanza in base alla residenza e che costituisca un tentativo di dar loro una soluzione.

Innanzitutto una considerazione: se la nazionalità di uno Stato attribuisce la cittadinanza di quello Stato, perché non può essere l’Europa ad attribuire la propria cittadinanza?

A questo proposito può essere d’aiuto l’attuale nozione di cittadinanza europea la quale, pur riconoscendo alcuni diritti realmente sovranazionali (libera circolazione, voto alle elezioni europee, diritto di petizione, tutela consolare all’estero) prevede anche, nel paese di residenza, il diritto di votare alle elezioni municipali nonché diritti connessi all’assistenza sociale, vale a dire competenze nazionali che una cittadinanza europea attribuita dalla stessa Unione non avrebbe il potere di concedere.

Una soluzione potrebbe essere ricercata nell’esperienza degli Stati Uniti dove il 14° emendamento della Costituzione recita che “tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti, e soggette alla loro giurisdizione, sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono”.
Sembrerebbe plausibile infatti immaginare, in merito ad un futuro processo di naturalizzazione nel vecchio continente, regole simili a quelle americane, in base alle quali è necessaria una residenza permanente di almeno 5 anni negli USA e di almeno 3 mesi nello Stato da cui parte la richiesta. Il candidato deve essere stato presente fisicamente negli Stati Uniti per almeno la metà del periodo di residenza (cioè due anni e mezzo), con assenze non superiori ai 6 mesi continuativi.

Si richiede poi la conoscenza elementare della lingua inglese scritta e parlata e qualche fondamento di storia ed educazione civica americana, oltre ad aver ovviamente mantenuto una buona condotta durante gli anni di residenza.
Inoltre, in merito alla posizione dei figli nati negli USA da persone legalmente residenti ma non ancora cittadini, è accettato lo ius soli (mentre vale lo ius sanguinis nel caso di figli nati all’estero da almeno un cittadino americano).
Ad un “occhio europeo” queste regole sembrano probabilmente piuttosto permissive e, per poter fare un parallelo, è necessario ovviamente tener conto di quanto le due realtà, americana ed europea, siano diverse.
Tanto per fare un esempio, perché gli Stati membri dell’UE rinuncino al binomio cittadinanza-nazionalità non sarà sufficiente un test di educazione civica europea e la residenza in uno Stato, con la conoscenza di quella lingua e di quella cultura (e non degli altri 24 Stati membri…).

L’attribuzione della cittadinanza da parte della stessa Unione Europea poi escluderebbe gli Stati dalla discrezionalità di cui godono, ad esempio, nei confronti dei soggiornanti di lungo periodo (solitamente la possibilità di adottare trattamenti più restrittivi) e, come accennato, non risolverebbe l’attribuzione di diritti di competenza nazionale.
La soluzione statunitense di attribuire sia la cittadinanza americana che quella dello Stato di residenza in questo caso mal si concilia con la realtà europea: se è difficile pensare di spezzare la corrispondenza cittadinanza-nazionalità per l’Europa, si pensi a cosa significherebbe questo al livello dei singoli Stati dove esistono sì dei processi di naturalizzazione ma con regole molto diverse tra loro e particolarmente legate alla salvaguardia delle proprie peculiarità nazionali.

Quest’ultima considerazione porta al problema principale che non è tanto il fissare quelle regole pratiche che dovrebbero sottostare ad un futuro processo di naturalizzazione nell’Unione Europea (probabilmente si tratterebbe di condizioni più rigide di quelle americane) quanto l’accettazione sia a livello politico europeo sia al livello del singolo dell’idea di attuare una cittadinanza veramente “inclusiva” dello straniero, del nuovo, nel rispetto della diversità di ognuno, senza che questo vada a minare il legame che ogni “nativo” europeo ha con il paese d’origine, lo stesso legame che un “naturalizzato” europeo manterrà con il proprio (pare, a livello intuitivo, difficilmente esportabile il “giuramento di fedeltà alla nazione” richiesto negli Stati Uniti).

Da parte dei cittadini di paesi terzi che diventino cittadini europei l’impegno richiesto dovrebbe essere altrettanto importante: l’adesione a dei principi e ad un’identità in costruzione fondata sulla partecipazione attiva alla vita politica, sociale e culturale del continente europeo e sulla presa di coscienza di un futuro comune cui tutti possono contribuire.

Note: (1) P. Oriol, For European Citizenship to Residents, “The Federalist Debate”, XVII, luglio 2004, n. 2

(2) art. 46-4: su iniziativa di almeno un milione di cittadini dell’Unione appartenenti ad un numero rilevante di Stati membri, la Commissione può essere invitata a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini dell’attuazione della Costituzione. La legge europea determina le disposizioni relative alle procedure e alle condizioni specifiche necessarie per tale iniziativa dei cittadini


Altri documenti correlati:


Cittadinanza federale europea - 2° contributo:
- Sul popolo federale europeo
http://italy.peacelink.org/europace/articles/art_9339.html

Cittadinanza federale europea - 1° contributo:
- Cittadinanza nazionale e declino della democrazia
http://italy.peacelink.org/europace/articles/art_9338.html


- Per una Cittadinanza europea di residenza
http://italy.peacelink.org/europace/articles/art_9540.html

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