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A rischio 1087 siti industriali: un quarto di loro sono chimici o petrolchimici

Impianti pericolosi troppo vicini alle case

12 maggio 2007
Alessandro Farruggia

ROMA, 20 aprile 2007

Petrolchimico Gela Non tutto è stato fatto nel nostro Paese per ridurre il rischio di incidente industriale rilevante. Le leggi che recepiscono le 3 direttive europee Seveso ci sono, ma sulla loro corretta applicazione ci sono margini di incertezza, al punto che nel gennaio di due anni fa fu la Commissione europea a tirarci le orecchie e a decidere di deferire l’Italia alla Corte di giustizia europea. L’ennesima procedura di infrazione per inadempienze ambientali. «La decisione — spiegò la Commissione — è dovuta al mancato rispetto della direttiva ‘Seveso II’, il cui obiettivo è prevenire gli incidenti rilevanti e limitarne le conseguenze pericolose per la salute e per l’ambiente».

Petrolchimico Marghera «La legislazione italiana in materia — disse Bruxelles — non è sufficientemente rigorosa. La direttiva impone infatti agli Stati membri di vietare l’avvio dell’attività degli impianti nel caso in cui le misure adottate siano nettamente insufficienti, mentre la legislazione italiana lascia alle autorità competenti la facoltà di vietare o meno l’avvio dell’attività». Questa discrezionalità lascia spazio all’abuso e non garantisce che le industrie più pericolose si vedano negare il nullaosta. A ulteriore complicazione vi è poi il fatto che il sistema delle autorizzazioni e dei controlli è — come da tradizione italica — farraginoso e burocratico, con la competenza che è sì (dopo la Bassanini) affidata alle regioni, che sono però integrate da ministeri e agenzie, ai quali si aggiungono i vigili del fuoco.

Siderurgico Ilva di Taranto UNA RAGNATELA di competenze che a volte funziona bene, a volte meno. Anche così si spiegano i non pochi incidenti — basti pensare che nel decennio 1991-2000 se ne sono contati 13 con 12 morti nelle sole raffinerie — e i rilasci di sostanze in ambiente. Nulla a che vedere con Seveso, ma pur sempre immissioni che sarebbe bene evitare. Uno dei problemi chiave è che molti poli di aziende a rischio sono vicini ad aree abitate. In Italia è stato fatto di tutto, si sono costruiti impianti a ridosso delle case e non si è vigilato, di contro, affinché insediamenti spesso abusivi si situassero in immediata vicinanza degli impianti.

E COMUNQUE, anche dove gli impianti non sono fra le case, ci sono concentrazioni elevatissime. Ci sono città che hanno oltre 24 strutture a rischio: da Marghera a Ravenna a Roma, mentre città come Genova e Napoli ne hanno più di 14. Un intervento serio lo si è avuto solo con il decreto del ministero dei Lavori pubblici del 2001. Ma ormai i buoi erano già scappati e si poneva, grande come una montagna, il problema della delocalizzazione degli impianti. Il problema è: con che soldi? E siamo poi sicuri che una volta delocalizzato l’impianto — specie se con soldi privati — lo si lasci in zona o non lo si delocalizzi davvero, all’estero cioè, non solo per problemi di costo del lavoro ma anche di normative e di controlli meno rigorosi? Il problema è stato storicamente ben presente al sindacato. E così esiste presso l’Agenzia nazionale per l’ambiente una database con le industrie a rischio, aggiornate in due classi di maggiore e minore rischio.

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