Apirolio a Taranto
Quando si parla d’ambiente ed inquinamento a Taranto, è sufficiente menzionare un qualsivoglia argomento ecologicamente compatibile, per far scatenare chiunque si senta autorizzato a dare il proprio contributo tecnico, informativo, critico, ma sempre e comunque fonte di lunghe polemiche che mai hanno sortito risultati concreti e rapidi alla soluzione dei problemi.
Da anni ormai, un congruo numero d’incantatori di serpenti d’ogni colore politico, appartenenti alle più svariate associazioni più o meno ecologiste, culturali ed a sodalizi sindacali, dicono e scrivono di tutto. Dibattiti, riunioni consiliari, congressi, commissioni paritetiche, sono all’ordine del giorno. Di tutti questi personaggi, tuttavia, pochissimi conoscono la realtà industriale di Taranto per averci lavorato qualche mese in passato, la restante maggioranza parla e scrive solo per sentito dire avendo sempre svolto attività di politicante o in ogni modo non attinente all’industria.
L’ILVA è diventata da qualche anno un caso nazionale per il suo potenziale inquinante nonostante il suo portavoce Walter Scotti abbia sempre cercato di buttare acqua sul fuoco. Di vero, però, c’è che l’inquinamento prodotto dal centro siderurgico è un qualcosa che viene da lontano: dagli anni in cui era nelle mani delle partecipazioni statali. Che l’ILVA avvelenava la gente si è sempre saputo e si è sempre taciuto.
Perché tacquero i sindacalisti confederali, alcuni dei quali oggi, nelle vesti di parlamentare, fanno la voce grossa contro il Gruppo Riva, non è dato sapere.
E’ possibile ipotizzare che nell’epoca in cui il padrone era “pantalone”, si era più propensi a perseguire per se e per gli amici carriere generosamente retribuite, piuttosto che considerare le mortalità fino ad oggi avvenute.
I venti meridionali, conferiscono a Taranto e a tutto il circondario, un aspetto scuro e minaccioso causato da fumi e polveri di minerale ferroso gentilmente offerti, da decenni, dallo stabilimento siderurgico. Uno spettacolo, questo, al quale tutti i tarantini sono abituati. Tuttavia, 25 decessi per cancro in otto anni, e l’altissimo tasso di neoplasie polmonari nei residenti della provincia, inducono l’amministrazione comunale, nei primi mesi del 2001, a far chiudere con un’ordinanza sindacale, le batterie coke 3/6 richiedendo la sostituzione delle stesse con nuovi impianti meno inquinanti. (Alleg. A) Da qui, una nuova serie di polemiche e di prese di posizione pro e contro la citata disposizione.
Di tutto ciò l’azienda ILVA respinge le accuse, ma rimane emblematico e con il sapore del giallo il fatto che poche ore dopo l’ordinanza del sindaco Di Bello, il rappresentante dell’associazione “Peacelink” Alessandro Marescotti, riceva un biglietto anonimo di ringraziamenti per l’impegno profuso in favore del suddetto intervento con allegato una rara relazione d’indagine ambientale (Alleg. 1) fatta nella cokeria di Taranto nel 1995 dall’ASL di cui si erano perse le tracce.
Da questa relazione si evince tutta la reale drammaticità di quei posti di lavoro che oltre ad essere puzzolenti e fumosi, hanno come prerogativa la massiccia presenza di polveri sospese, idrocarburi policiclici aromatici (ipa), benzo-apirene 137.000 volte superiori al valore a cui potrebbe essere esposto un lavoratore. Il Gruppo Riva ha più volte tentato una forzatura ventilando gravi ripercussioni occupazionali, ma, guardacaso, proprio in quelle aree di lavorazione (AFO – COK- BAT- AGL ) persiste sempre una carenza di personale dovuta all’esodo dei ragazzi neoassunti.
Tuttavia, personalmente, ritengo che se le mamme di quei giovani lavoratori potessero vedere, magari attraverso una visita guidata, il posto di lavoro dei loro pargoli, cresciuti per anni a carezze, coccole, nutella e merendine, ben pochi tornerebbero al lavoro il giorno successivo facendo chiudere, così, per mancanza di personale le batterie coke senza alcuna ordinanza sindacale.
In realtà, una visita con relativa permanenza forzata in quei luoghi, la farei fare anche a tutta quella schiera d’anatre in grisaglia che da anni starnazzano a vanvera sul problema.
Ad ogni modo, c’è da dire che per produrre l’acciaio non occorre solo il coke, ma intervengono nella catena produttiva altri reparti ugualmente fetentissimi come le acciaierie, gli altiforni i parchi minerale ecc. che rientrano in un discorso diverso. Ma c’è di meglio.
E’ cosa nota, ma forse passata in secondoordine, oscurata dalle vicende cokerie, la “questione apirolio” all’interno del centro siderurgico di Taranto, che non si riesce ancora a risolvere totalmente. Questo problema venne alla luce già alla fine degli anni settanta allorquando dopo il disastro di Severo fu effettuato un censimento di tutti i trasformatori elettrici presenti in stabilimento ILVA. Il prodotto in questione, comunemente denominato apirolio, non è altro che PCB- policlorobifenile ed è massicciamente utilizzato nei trasformatori elettrici per il raffreddamento e la lubrificazione, non essendo infiammabile a differenza del suo sostituto olio minerale. Tuttavia, in presenza di forte calore (800° c.) sprigiona diossina nebulizzandosi nell’aria. L’effetto altamente cancerogeno del prodotto, è ormai provato da tempo e sempre stigmatizzato dal responsabile UILM Ambiente e Sicurezza di qualche anno orsono Francesco Calcante, che all’epoca segnalò numerose disfunzioni e incidenti a riguardo, attivando anche la commissione grandi rischi del CNR. Dal succitato censimento venne alla luce un dato impressionante: nello stabilimento ILVA erano presenti oltre 1000 grandi trasformatori contenenti PCB per un totale di 1.800 tonnellate d’Askarel (denominazione commerciale del prodotto). ( Alleg.B ) Un rischio ambientale d’enormi proporzioni, considerato che questa quantità concentrata tutta nell’ILVA è il 10% di quella circolante in Italia e lo 05% di quella presente nel mondo.
In ragione di questo fu istituita, in fabbrica, una “commissione apirolio” finalizzata alla stesura di pratiche operative di sicurezza per monitorare e manutenzionare attraverso un “gruppo sociale” di lavoratori, i trasformatori in oggetto. Successivamente tale “gruppo sociale” fu sciolto per decisione unilaterale della proprietà Ilva, a causa degli alti costi d’esercizio. Da allora non se n’è saputo più nulla. Non si conosce l’esatto numero di trasformatori in Askael ancora in esercizio. Non si conoscono i dati degli smaltimenti effettuati. Una sola certezza: molti incidenti, alcuni gravi; molte le perdite di PCB assorbite dal suolo.
Nello stesso periodo, l’assessore alla sanità dell’epoca, Mario Guadagnalo, inviò, a tutte le aziende e probabili utilizzatori d’Askarel, una circolare tesa a quantificare il PCB presente sul territorio (Alleg. 2). Tutte le ditte interpellate risposero con questo risultato:
- SIMI kg 2.040 ( Alleg. 3 – 12 )
- BELLELI SUD kg 440
- SIDERMONTAGGI kg 1.550
- CEMENTIR kg 16.950
- SIP kg 1.560
- STAB. NAVALI kg 3.853
- OSPEDALE CIV. kg 9.198
- RIVESTUBI kg 12.198
- DALMINE kg 13.700
- ARSENALE MILITARE nega il possesso d’Askarel
Il tutto per un totale di 62 tonnellate da aggiungere alle 1.800 dell’ILVA.
Molte di queste aziende non operano più sul territorio e, pertanto, non si conoscono i dati dello smaltimento. Inoltre non si è a conoscenza d’eventuali perdite e versamenti sul terreno avvenuti nel tempo per la vetustà dei trasformatori risalenti ai primi anni sessanta.
Alcune settimane orsono una “bella” notizia sui quotidiani locali: Apirolio in mar piccolo. Una vasca contenente PCB è stata rinvenuta in Arsenale Militare. La G.di.F sequestra il tutto. Indagate 16 persone. (Alleg. rassegna stampa)
Nella vasca in oggetto, erano stoccati fanghi provenienti dal dragaggio del mar piccolo. La percentuale di PCB contenuta risulta molto alta, senza contare i valori fuori scala dei metalli pesanti. Ci si chiede: com’è finito in acqua l’apirolio? L’Arsenale della Marina non aveva negato il possesso? Si può presumere, però, una perdita dai trasformatori dei cantieri navali ormai da tempo smantellati, ma qualunque fosse la fonte d’inquinamento, il danno è fatto.
Il PCB non è biodegradabile e si può presumere che sia già entrato nella catena alimentare attraverso i pesci e i mitili Doc che vengono coltivati nei due seni del mar piccolo.
Se consideriamo, però, anche tutto ciò che è stato assorbito dal terreno e che per forza di cose è penetrato in falda che finisce sempre nel mar piccolo attraverso i citri presenti nei fondali, suppongo che si possa tranquillamente continuare, con il patrocinio dell’emittente Studio 100, il “festival nazionale culinario della cozza tarantina”.
http://lists.peacelink.it/taranto/2005/04/msg00014.html
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Una beffa, prevedibile, alla luce del mutato contesto produttivo degli ultimi mesi dopo l’incidente all’#Altoforno 1 di maggio con conseguente sequestro della Procura.
https://www.monetaweb.it/impresa-e-management/per-lex-ilva-gara-al-ribasso-con-jindal/
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Repubblica