L'indicibile si chiama Palestina
Con il suo vero nome, lo conoscono in pochi, ma con lo pseudonimo di Yasmina Khadra, lo scrittore algerino Mohammed Moulessehoul, è noto in tutto il mondo. Nato nel Sahara algerino 51 anni fa, ha al suo attivo una decina di romanzi di successo, che indagano la realtà del mondo arabo e l'universo dell'integralismo islamico. Un punto di vista privilegiato, il suo. Ufficiale di carriera fino al 2000, è stato infatti in prima linea nel sanguinoso conflitto interno che, per sette anni, ha opposto il governo agli integralisti, provocando circa 150.000 morti. Nel 2001, a un mese dall'11 settembre, (Khadra aveva appena lasciato l'esercito per la letteratura, svelando al pubblico la sua vera identità), lo avevamo raggiunto per Aliasnella sua casa di Aix-en Provence in Francia, dove adesso vive. Torniamo a intervistarlo in occasione del Festival di Mantova, a cui lo scrittore parteciperà (domani alle 11,15 al Campo Canoa con Fabio Gambaro), per presentare il suo romanzo, L'Attentatrice, edito da Mondadori. Un romanzo duro e avvincente, che per portare il lettore nel pieno del conflitto tra Israele e Palestina ha scelto uno sguardo e una trama spiazzante. In una Tel Aviv benestante e colta, un chirurgo palestinese, naturalizzato israeliano, al culmine del successo, vive felicemente con la moglie, incurante della cortina di razzismo che lo circonda, in quanto arabo di Israele. Finché, al termine di una giornata trascorsa a soccorrere i feriti di un attentato suicida, scopre che la kamikaze è sua moglie. Cosa spinge una giovane donna agiata, serena, e non praticante a farsi esplodere in un fast food di Tel Aviv? In un vorticoso gioco di ruoli, il lettore cercherà di comprenderlo seguendo l'affranto chirurgo passare al di là del Muro.
Da dieci anni lei ambienta i suoi romanzi nei luoghi dei conflitti più brucianti. Perché?Nel mio piccolo, cerco di essere coscienza critica di una realtà che si vorrebbe ridurre a evento e non a esperienza. Concepisco la letteratura come balsamo e stimolo. Come uno spazio di libertà e di elaborazione terapeutica dei conflitti che le scelte imposte dalla storia e dalla politica portano a dover semplificare e esacerbare. Come un antidoto alla confusione interessata tra l'arroganza di chi offende e le ragioni di chi è offeso, prodotta dai grandi media. Quando eminenti scrittori israeliani giustificano la costruzione del Muro in Palestina, quando osannati filosofi francesi plaudono alla politica del cannone condotta da Israele, più che a uno scontro di civiltà penso a un cortocircuito dell'intelligenza. La guerra è la sconfitta dell'intelligenza, della politica, del buonsenso. La letteratura è stata per me il principale strumento di rivolta contro un'istituzione - quella dell'esercito - in cui non ero più un essere umano ma una matricola che agiva in base a regolamenti, organigrammi e ordini di combattimento. Senza pensare. Può un intellettuale mettersi i paraocchi e agire allo stesso modo?
Come ufficiale dell'esercito, lei ha combattuto con le armi gli integralisti algerini, perché ha scritto un romanzo su una kamikaze palestinese?Sul piano letterario, era una sfida a cui pensavo da tempo, ma non riuscivo a trovare l'idea giusta: un conflitto individuale, da maneggiare con la precauzione di un artificiere, ma fuori dal cliché della contrapposizione arabo- israeliano e dai discorsi ideologici. E infatti il protagonista si sente per metà arabo e per metà israeliano. Fin da bambino, e poi nei 36 anni di vita militare, ho sempre avuto presente la questione palestinese, che da noi è molto sentita. Ho seguito il calvario di un popolo umiliato e offeso dal colonialismo, dai regimi arabi, dai suoi stessi governanti. E proprio sul tema dell'umiliazione ho costruito il romanzo. Un ufficiale della resistenza dice infatti a un certo punto: la religione non c'entra, la dignità sì. Sul piano politico, l'uomo di pace quale io sono, come il chirurgo del romanzo, vuole curare e non distruggere; ma l'ex-soldato si chiede anche: chi è più colpevole, a parità di orrore, l'umiliato che uccide i civili in un luogo pubblico e muore con le vittime, o chi bombarda un luogo pubblico, ma rimane al riparo? I miei libri sono tradotti in ebraico e ogni anno mi invitano in Israele. Non ho inimicizia verso il popolo israeliano, vittima dell'ottusità dei suoi governanti, ma ho scelto di non andare finché non ci sarà giustizia per i palestinesi.
Lei ha sostenuto il colpo di stato militare che ha impedito al Fis vincitore alle urne nel '91, di governare il paese. Come valuta la vittoria di Hamas in Palestina e il ruolo di Hezbollah in Libano?Su un piano generale, l'Algeria è stata teatro e laboratorio di un triplice scacco: il fallimento di una via autonoma dalla logica dei due blocchi; quello di un processo di industrializzazione che, dagli anni '70, ha finito per ingrassare solo una burocrazia dirigente parassitaria, sempre più interessata ai proventi finanziari della vendita del petrolio all'Occidente; i disastri di una classe politica che ha avuto il merito di condurci all'indipendenza, ma che sapeva fare solo la guerra, e che ha continuato a farla al proprio interno anche dopo. In questo vuoto, come per l'Afghanistan allora socialista, gli Stati uniti hanno soffiato sul fuoco degli integralismi, la cui deriva è sempre stata latente nel mondo arabo, ma che il nasserismo prima e una forte politicità d'impronta socialista, poi avevano confinato a un ruolo ininfluente nella maggior parte delle regioni. Per noi, allora, si è trattato di difendere la costituzione per cui erano morti i nostri genitori, e quelle libertà di cui gli integralisti volevano privarci a suon di massacri. Eravamo un paese ricco, alle porte dell'Africa e dell'Europa. Se non avessimo messo un argine, sarebbe stata la catastrofe in tutto il circondario. Piaccia o meno, Hamas e Hezbollah, invece, sono partiti di massa. Vincono non perché sono antioccidentali, ma perché riempiono il vuoto lasciato da altre rappresentanze popolari, e in una normale dialettica parlamentare, e in contesti diversi dal nostro. In Algeria non c'era uno sfruttamento coloniale. E poi, al punto in cui sono stati ridotti i palestinesi, e disgustati da una dirigenza corrotta e inconcludente, avrebbero votato anche il diavolo.
Il suo ultimo romanzo, «Les sirènes de Bagdad», da poco in libreria in Francia e già molto apprezzato dalla critica internazionale, è ambientato in un villaggio iracheno e sembra aver anticipato gli eventi che hanno portato all'ultima invasione del Libano da parte di Israele. Visionarietà letteraria o intuito politico?
Ero certo che Israele avrebbe attaccato il Libano e che Beirut stava correndo verso la malasorte, come dice uno dei personaggi. Da ex soldato, so che per vincere una guerra, di solito è necessaria la superiorità aerea. Quando la Siria ha abbandonato il Libano, lasciando vacante questo compito, per me era evidente che Hezbollah avrebbe dovuto in qualche modo supplire alla copertura aerea e che Israele avrebbe provato a rioccupare il Libano. Negli stati maggiori israeliani se ne parlava dal 2000, e il rapimento dei soldati è stato solo un pretesto. Questa guerra che è durata un mese aveva un solo obiettivo: l'offensiva di terra, e così per 30 giorni Tsahal ha bombardato e massacrato i civili. Era evidente che un'operazione simile sarebbe costata ben più dei 100 morti messi in conto dagli israeliani. I generali hanno mentito fin dall'inizio. E per di più non sono riusciti a portare a termine neanche la prima fase della missione, sconfitti dalla resistenza di Hezbollah. Perché la verità è che gli ufficiali ormai abituati a doversela vedere solo con donne e bambini dei territori occupati, non hanno più la tempra di ieri. Inoltre, anche gli israeliani sono stanchi di vivere in guerra. In televisione, ho visto un ufficiale riservista, una donna, dire che alla fine della guerra sarebbe tornata in Australia, suo paese d'origine. Il sogno della Terra promessa, per lei, si era rivelato un incubo.
Molti commentatori israeliani dicono, però, che le domande per entrare nell'esercito sono aumentate.
Può anche essere, per moda o condizionamento, ma in nessuna parte del mondo ai giovani piace morire a vent'anni.Israele ha compiuto la sua azione più maldestra e stupida e il paese se n'è accorto a proprie spese. Olmert e Peretz hanno creduto ai militari, convinti di entrare nella storia costruendosi un monumento sul cimitero degli altri, ma hanno sbagliato. E hanno allontanato la pace. Gli israeliani dovrebbero cacciarli.
Da ex militare, pensa che Israele abbia fatto uso di armi non convenzionali?
Basta rifarsi alla logica. Come crede che si vendano tanti arsenali futuribili che sono sul mercato se non vengono testati? E poi, sa cosa sono le bombe a frammentazione? Bombe più efficaci dopo il conflitto che durante. Le principali vittime sono i bambini. Chi è capace di metterle in circolazione, non si fa scrupolo neanche per il resto.
Il suo romanzo non lascia sbocchi al futuro. Quali speranze vede per la Palestina?
La sola speranza è che Israele e Palestina siano entrambe governate da giovani al di sotto dei trent'anni. Quelli di prima sono troppo rivolti al passato.
Cosa pensa del tentativo di riconciliazione nazionale in Algeria? Amnesty international accusa i servizi segreti dell'esercito algerino di atrocità e torture, mentre alcune madri hanno fondato un comitato per la ricerca degli scomparsi...
Non ho motivi di affezione particolare per l'esercito. L'ho abbandonato senza rimpianti, rinunciando ai massimi gradi della carriera (e ancora oggi mia madre non me l'ha perdonato), ma non sono mai venuto a conoscenza di massacri. Il nostro esercito era composto da ragazzi di leva, come vuole che potessero massacrare i propri fratelli per far ricadere la colpa sugli integralisti? Ma certo non posso escludere che ci siano state torture durante gli interrogatori. Ma il problema è che da noi, a differenza di quanto è avvenuto in Sudafrica, si è cercato di far tutto per decreto,senza una vera e profonda discussione nel paese. Non sono gli scrutini a decidere il destino di un popolo. Non tocca al presidente perdonare, ma alle persone. Molti uomini e donne, che hanno lottato prima e dopo la rivoluzione, e oggi sono disoccupati, s'indignano nel vedere libero chi ha compiuto massacri di donne e bambini, ricevere una sovvenzione dallo stato. E se ne vanno. Il mio è un paese convalescente che non riesce a risollevarsi.
I romanzi dell'uomo umiliato
Escono in Italia, quasi in contemporanea, due romanzi di Yasmina Khadra che segnano una svolta nella scrittura dell'autore algerino, L'Attentatrice, edito in Italia da Mondadori nella collana Strade blu, e Cugina K., curato da Marie-José Hoyet e pubblicato da Edizioni Lavoro. Due romanzi dal timbro introspettivo, che hanno al centro il tema dell'umiliazione, del male e dell'impossibile conciliazione. Nell'Attentatrice si tratta dell'umiliazione di un popolo - quello palestinese -, in Cugina K. il protagonista è invece un essere maldestro e dissonante. Due romanzi battenti, una scrittura trascinante ma scandita da brevi squarci di lirismo, metafore che dipingono variamente le atmosfere. L'Attentatrice, mette di fronte a se stesso un uomo dimidiato - un medico palestinese d'Israele, la cui moglie diventa kamikaze («Un ultima parola, dottore. A furia di voler assomigliare ai tuoi fratelli adottivi, non riconosci più quelli veri»). E numerose sono le chiavi di lettura di questa vicenda implacabile e serrata e dall'epilogo spiazzante: la libertà, l'offesa, e il «sogno degli angeli scaltri», capace di spingersi oltre l'orizzonte. Cugina K. consegna invece all'abisso un uomo la cui infanzia è segnata dal tradimento e dai soprusi. E' un breve romanzo del 2003, ambientato in un luogo di fantasia, Douar Yatim, che vuol dire Villaggio orfano. Un villaggio «in cui nulla esiste, dove gli gnomi che vi abitano non fanno altro che invecchiare, non riuscendo a crescere». I giovani sono andati altrove «a correre la cavallina». Quelli che sono rimasti trascurano le mandrie magre «e i campi ingrati»; la loro anima «si è sfatta, la loro fede è una disgrazia, e non sanno più cosa amare». Un posto cupo in cui il protagonista consuma la sua follia. Nel suo passato,c'è la morte del padre, ucciso alla maniera dei traditori alla «vigilia del Grande Giorno» (la rivoluzione algerina).
Nel suo presente, c'è l'ombra di una madre altera e inaffettiva, inafferrabile quanto la cugina k. Nei suoi deliri, l'uomo rievoca questa figura mitica e persecutoria, regale e viziata quanto lui è goffo e trascurato. Implacabile con se stesso, ricorda le angherie subite dall'oggetto amato, gira e rigira ogni fotogramma come un coltello nella piaga. Un monologo «à la Camus» e dagli accenti kafkiani sull'impossibile redenzione di quegli esseri goffi e ripugnanti, «ai quali nulla riesce». Maldestri, essi «porgono la mano al prossimo e lo accecano».
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