Palestina

Diario di un osservatore internazionale alle elezioni legislative palestinesi.

La nostra delegazione di Giuristi Democratici, composta dal sottoscritto e da Monica Bassan di Padova, entrambi avvocati, è partita il 21 Gennaio per unirsi al più numeroso gruppo di Action For Peace, composto da una quarantina di persone in tutto, per svolgere il ruolo di osservatori alle elezioni legislative palestinesi.
11 aprile 2006
Dario Rossi

DOMENICA 22 GENNAIO
Arriviamo in albergo a Gerusalemme alle 5 di mattina, e dopo poche ore, si parte per Ramallah, per prendere gli accrediti preparati dalla Commissione elettorale palestinese. Ci accompagnano due ragazzi che sono a Gerusalemme da circa un anno, con una ONG italiana. La loro vettura passa velocemente tutti i check point, grazie alle insegne della cooperazione.
A Ramallah, prima di andare alla Commissione elettorale, facciamo visita alla sede di una ONG palestinese che lavora in cooperazione con la Danimarca su progetti relativi al diritto del lavoro. Attualmente stanno lavorando sulla democratizzazione delle organizzazioni sindacali e ad un progetto volto a indicare le linee guida in materia di politica del lavoro al futuro governo. Ci spiegano che ad oggi la Palestina non ha ancora elaborato una normativa propria in materia di diritto del lavoro, mutuandolo in gran parte dalla legislazione giordana ed egiziana. Palestina: foto di Dario Rossi


Gli operatori mi chiedono anche se possiamo aiutarli dall’Italia a fare pressione su Israele per il versamento dei contributi previdenziali dei lavoratori palestinesi che lavorano in Israele, che vengono illegittimamente trattenuti anziché essere versati ai lavoratori.
Dopo avere preso i tesserini di riconoscimento ci rechiamo ad una affollata riunione presso la Commissione Elettorale, ove ci spiegano quale è il ruolo e quali sono i compiti degli osservatori internazionali. Ci sono persone provenienti da tutta Europa.
Per tornare a Gerusalemme prendiamo un minibus, e arriviamo al Check Point di Kalandia, che è stato completamente trasformato rispetto a quando venni nell’autunno del 2002. Allora vi erano una serie di reti arrugginite, presidiate da un gran numero di militari israeliani.
Ora di soldati non se ne vedono, dove c’era una strada, che consentiva comunque di transitare con l’auto, pur dopo una coda interminabile, c’è una montagna artificiale che ha stravolto il panorama.
Le borse vengono fatte passare sul metaldetector, mentre le persone devono transitare all’interno di gabbie girevoli comandate a distanza. Ogni tanto il girello viene bloccato, con un certo effetto claustrofobico rispetto a chi rimane bloccato all’interno.
Accanto al Check Point scorre il Muro; è alto otto metri, ormai cinge quasi tutta la Cisgiordania, ed è collocato molto all’interno del territorio della Cisgiordania, delimitato dalla c.d. linea verde che segna il confine ideale tra lo 0.stato israeliano ed i territori occupati nella guerra del 1967.
Vicino al muro ti senti un nano, e non riesci a vedere neppure il sole che sta tramontando in direzione di Israele.
Attraversiamo a piedi il Check Point, e prendiamo un altro mezzo pubblico che attende dall’altra parte. Dopo un paio di chilometri veniamo bloccati per un nuovo controllo da un altro Check Point volante, un giovane militare, molto pigramente, sale a bordo, controlla i documenti, e scende dalla porta posteriore.
La sera in albergo vi è una riunione tra tutti gli osservatori del nostro gruppo, vengono formati i gruppi ed assegnate le zone di competenza. Si ritiene che la zona in cui potrebbero verificarsi i maggiori problemi sia Gerusalemme, ove solo fino a pochi giorni fa Israele non voleva consentire lo svolgimento delle elezioni. La situazione si è ora sbloccata, ma è evidente la differenza tra questa città ed il resto della Cisgiordania, al di là del muro. Non esiste alcuna campagna elettorale, non c’è un manifesto di candidati, non ci sono comizi o cortei, come quelli visti a Ramallah. I palestinesi hanno anche il timore che andando a votare possano essere identificati, in quanto alle scorse elezioni amministrative fuori dai seggi c’erano i soldati israeliani che filmavano con le telecamere tutti quelli che entravano. Sono molti quelli la cui attività lavorativa dipende dalle licenze rilasciate dal governo israeliano, che le può revocare senza tanti complimenti.
Si teme inoltre che possano essere create delle difficoltà dai militari israeliani agli elettori che vivono all’interno della città per recarsi ai seggi che sono collocati oltre il muro e viceversa.
Compito degli osservatori sarà dunque, a Gerusalemme come altrove, quello di controllare anche i Check Point, oltre che il regolare andamento delle elezioni nei seggi.
Io decido di unirmi al gruppo di osservatori di Nablus, città che non avevo visitato in occasione del viaggio che avevo fatto nel 2002.
palestina: foto di Dario Rossi
LUNEDI’ 23
Visitiamo Betlemme ed Hebron.
Quest’ultima è la città che lo scorso viaggio mi aveva maggiormente colpito, per gli effetti drammatici dell’occupazione, e trovo che ora le condizioni siano un po’ migliorate. Il centro si raggiunge direttamente con la vettura, non si è più costretti a scendere e fare chilometri a piedi; i cumuli di terra che ostruivano la strada impedendo il passaggio alle vetture sono stati rimossi.
Il mercato del centro cittadino, nella parte nuova della città è affollato e rumoroso.
Il quadro cambia radicalmente nella città vecchia, ove si trova l’antico bazar da cui si accede alla Moschea ove è custodita la tomba di Abramo, capostipite delle tre religioni monoteiste.
I negozi del mercato sono ancora quasi tutti chiusi e l’impressione rimane la stessa di tre anni fa, quella di una città fantasma. La città è sempre divisa in due da una strada che la percorre longitudinalmente nella quale è precluso il traffico alle vetture.
Nel centro della città vive un gruppo di alcune centinaia di coloni, installati ai piani alti delle abitazioni da dove lanciano pietre e spazzatura sugli abitanti arabi che transitano sotto, tanto che molti vicoli sono coperti da una grata di ferro a protezione dei passanti; si vedono in più punti, sui terrazzi nelle abitazioni, soldati israeliani, che sorvegliano i passanti.
La grande moschea è oggi divisa a metà, una parte adibita a moschea ed una parte sinagoga.
Per accedervi è necessario passare ben tre check point, distanti pochi metri uno dall’altro. E’ un sistema evidentemente studiato per scoraggiare le visite, ed in effetti, piuttosto che spogliarmi, mostrare i documenti, svuotare la borsa per tre volte in 50 metri, rinuncio ad entrare.
Mi spingo dall’altro lato della moschea, quello ebraico, da cui si accede alla sinagoga che si trova sul lato sud dell’edificio. Gli israeliani la raggiungono in macchina, possono posteggiare in un ampio piazzale pieno di camionette di militari.
Proseguiamo quindi verso Betlemme, dove ci attende il sindaco che ci descrive le difficoltà create dal muro, costruito proprio a ridosso della città, che separa le abitazioni dalla gran parte dei campi che prima erano coltivati dagli abitanti della città.
Vicino alla Basilica della Natività sono stati incatenati dei tronchi di ulivo, sradicati durante la costruzione del Muro, come spiega un cartello contenente un appello disperato “Stop the wall”.
Il muro ha creato in città una condizione di segregazione ed isolamento; anche i pellegrini vengono in giornata da Gerusalemme senza trattenersi. Sull’ampio piazzale del parcheggio gli unici pullman presenti sono i nostri.
Rilevo con amarezza, pur da ateo miscredente quale sono, ma sempre affascinato dal sacro e dalle religioni, che uno dei luoghi di culto più importanti per la cristianità, ormai è meta di visita soltanto dei attivisti politici.
Ci rechiamo quindi in un centro di assistenza medica cui alcuni dei nostri contribuiscono da tempo con sovvenzioni, attrezzature e medicine.
Ci guida durante la visita un medico, laureato in Italia, e che ci dice di avere fatto un anno di prigione in Israele per reati politici. Ci mostra il centro radiologico dell’ospedale, che non può funzionare in quanto manca il generatore di corrente, che costa circa 20.000. Nel centro lavorano circa 15 medici; si prendono cura degli orfani, e sottolinea di “tutti” gli orfani, senza nessuna distinzione. Credo che con ciò voglia riferirsi anche ai figli di coloro che sono morti combattendo contro gli israeliani (qualcuno magari negli attentati suicidi). Anche se così fosse, penso che gli orfani sono sempre orfani, qualunque sia il modo in cui i loro genitori sono morti.
Questa scelta gli ha però procurato dei problemi con le autorità israeliane, che hanno bloccato anche il conto in banca dell’ospedale, costringendoli a sospendere l’attività.
Ospitali come al solito, ci offrono the’ e dolci, che sono appositamente usciti a comprare. Uno è particolarmente buono, costituito da uno strato di formaggio simile alla mozzarella, coperto da uno strato di caramello croccante. Una specie di mozzarella in carrozza araba.
All’uscita della città passiamo dal Check Point di accesso alla città, che è in pratica un varco aperto nel Muro. C’è un grosso cartello, dalla parte palestinese, che dice “welcome to Gerusalem”, nonostante che Gerusalemme si trovi a circa 20 chilometri, mentre le ultime case palestinesi di Betlemme si trovano pochi metri dietro.
È lo stesso Muro che abbiamo trovato a Kalandia il giorno prima, a nord di Gerusalemme, che si snoda verso sud, senza soluzione di continuità.
Attraversato il Check Point, nella parte israeliana (che comunque è all’interno dei territori occupati e dunque oltre la linea verde del 1967) il nostro pullman viene fermato da alcuni soldati; sale una ragazza bionda, con gli occhi azzurri, che porta un fucile più alto di lei, attraversa il bus senza chiederci nulla, ride stupidamente, e scende dalla porta posteriore.

La sera in albergo incontriamo Michele Giorgio, giornalista del Manifesto, che vive a Gerusalemme da anni, e che ci descrive un panorama della situazione che sembra essere senza via d’uscita.
Secondo lui i partiti palestinesi non sono in grado di esprimere un vero e proprio leader; in caso di vittoria di Hamas probabilmente i paesi occidentali non riconoscerebbero il nuovo governo, e probabilmente verrebbero tagliati tutti i finanziamenti internazionali alla Palestina, il cui apparato statale è retto per la metà da finanziamenti internazionali.
Gli israeliani stanno completando l’annessione definitiva di Gerusalemme, grazie al muro che la esclude dal resto dei territori palestinesi.
In Israele non si vedono segnali di risveglio politico, la quasi totalità della popolazione israeliana è più che contenta della costruzione del muro.
I Refusnik (che sono i soldati israeliani che si rifiutano di eseguire missioni militari nei territori palestinesi), ed i pacifisti non sono riusciti a crescere di numero e rimangono gruppi di poche centinaia di persone, le stesse di alcuni anni fa. La politica e l’opinione pubblica europea è assente, e tollera, se non condivide, la costruzione del muro.
Palestina: foto di Dario Rossi


MARTEDì 24
La mattina riesco a fare un giro per Gerusalemme, e noto una presenza di militari è molto ridotta, rispetto al mio precedente viaggio. Trovo tuttavia alcune conferme; è sempre al suo posto il negozio in cui è esposto il plastico del progetto per la costruzione di una sinagoga sul monte del Tempio, dove adesso si trova la Moschea, il secondo luogo sacro dell’Islam, dopo la Mecca. Fortunatamente è rimasto un progetto, e sembra destinato a restare tale ancora per un po’, la Moschea è sempre al suo posto, ed anche il giovane rabbino che fa la guardia al progetto è sempre lo stesso e dice sempre le solite cose. Mi spiega che non si tratta di un progetto pubblico, ma di un’idea sponsorizzata da privati.
Il piazzale antistante il muro del pianto pullula di militari, così come i tetti del mercato, esattamente nella stessa posizione di tre anni fa.
Il pomeriggio parto per Nablus, con un gruppo di ragazzi che cooperano con delle ONG europee, che hanno vissuto in Palestina ed Israele per diversi anni, collaborando a diversi progetti. Sono dunque una buona fonte di informazioni, ed una compagnia gradevole.
Durante il viaggio discuto animatamente con Gianluca, che sostiene che gli ebrei sono sempre stati un popolo senza terra, concetto che non mi convince affatto, perché non riesco a capire il motivo per cui per professare una religione ci sia bisogno di un legame con un qualche territorio, ritengo che per questo vada bene una terra qualsiasi.
Identificare un popolo, inteso come comunità di persone legata ad un determinato territorio, in base alla religione di appartenenza, non può che essere fonte di grandi conflitti con tutti quelli che non appartengono a quella religione ma che si trovano per loro disgrazia legati per motivi storici a quel territorio.
Veniamo accolti a Nablus da un sindacalista palestinese, che ci accompagna in albergo e ci offre la cena, a base di pollo con riso, yogurt, insalata di cetrioli; non avanza nulla.
Ci prepariamo quindi per il giorno dopo dividendoci in gruppi per monitorare i i seggi per le operazioni elettorali, ed i Check Point per la circolazione dei votanti.
In albergo incontriamo Giulietto Chiesa, come osservatore per il parlamento europeo; fa parte di un più folto gruppo di parlamentari, tra cui Lilli Gruber e Luisa Morgantini che si sono dirette a Gaza. Gli offriamo un po’ di birra e di liquore a base di anice, che consumiamo nella nostra stanza, essendo poco opportuno mostrare in pubblico alcolici.

MERCOLEDI’ 25 GENNAIO
La mattina dopo ci rechiamo in tempo per l’apertura in un seggio ove ci accolgono con grande cordialità, ci offrono in continuazione focaccette, tartine dolci e salate, the.
Le votazioni si eseguono con grande regolarità ed ordine. Non esistono certificati elettorali, e gli elettori, per evitare duplicazioni di voto, sono obbligati ad immergere l’indice della mano sinistra in una boccetta di inchiostro indelebile.
Il nostro compito è quello di segnalare eventuali anomalie che riscontrate nelle operazioni di voto su un modulo che ci è stato fornito dalla Commissione elettorale, che dovrà essere consegnato alla stessa al termine delle operazioni.
Fuori dai seggi la propaganda politica continua indisturbata e chiassosa per tutto il giorno, nonostante un divieto puramente teorico (che si estende alle 24 ore prima delle elezioni).
Si improvvisano cortei davanti ai seggi, vengono distribuiti volantini e santini di ogni genere. Uno dei candidati del Fronte Popolare è ritratto vestito da guerrigliero con un fucile in mano, in piedi su una tomba sui cui è raffigurata la stella di David. All’ingresso dei seggi vi sono cordoni di persone, divisi per fazioni politiche, e tentano di convincere anche me, che non somiglio proprio ad un palestinese, ed ho la fascia da osservatore al braccio.
Una fila di donne con il velo bianco ed il vestito verde, ordinate e composte distribuiscono pro Hamas. Si rifiutano di darmene uno, mostrando il giusto riserbo che può avere una donna islamica verso uno sconosciuto ed invadente italiano.
Il tutto viene accompagnato da una musica araba ad alto volume, proveniente dagli altoparlanti installati nelle strade e sulle auto.
Sembra una festa di paese, e non c’è alcuna tensione tra gli opposti schieramenti, che si mescolano davanti alle scuole.
Ci dirigiamo quindi verso il Check Point di Bet Iba, sulla strada che esce dalla città in direzione nord, dove i soldati non lasciano passare un ragazzo che deve andare a Tulkarem per votare; al nostro arrivo la situazione si sblocca.
I soldati del C.P. sono molto giovani, e fa piuttosto pena vederli passare la giornata lì armati fino ai denti e pensare che potrebbero passare il loro tempo in un modo più appropriato alla loro età. Hanno una gran voglia di scambiare qualche parola con noi europei, visto che con i ragazzi palestinesi devono rispettare il loro severo ruolo di controllori.
Torniamo quindi ai seggi dove mi trattengo a parlare con un ragazzo, studente di ingegneria, che mi dice che tutte le notti i soldati israeliani entrano in città, per arrestare, sparare, e spesso uccidere. Una delle vittime è stato suo zio, padre di cinque figli, l’ultimo dei quali nato dopo la sua morte.
Alcuni soldati palestinesi presiedono i seggi, armati con vecchi fucili arrugginiti, il calcio in legno.
La sera siamo di nuovo ai seggi per le operazioni di scrutinio. I membri del seggio sono tutti molto scrupolosi, ordinati, parlano a bassa voce.
Tutti i componenti del seggio, quattro donne e due uomini, sono dotati di tesserino di riconoscimento, come gli otto rappresentanti di lista.
Tutti gli osservatori seguono nel massimo silenzio le operazioni elettorali, senza disturbare in alcun modo le operazioni di scrutinio. Il presidente apre le schede ad una ad una, mostrando ogni scheda al pubblico, che segue attento. I voti vengono annotati sui registri e su una lavagna lunghissima, sulla quale le preferenze date ai due maggiori partiti si inseguono in un testa a testa.
Ogni tanto viene fatta una pausa durante la quale vengono distribuiti dolci, focacce, acqua.

GIOVEDI’ 26 GENNAIO
Il successo di Hamas è confermato, 76 seggi contro i 42 di Al Fatah.
Ci rechiamo a Ramallah, dove consegnamo agli uffici della Commissione elettorale il nostro rapporto nel quale non posso fare altro che dare atto della regolarità delle operazioni.
Visito la sede di una associazione Al Hac, che si occupa della tutela dei diritti umani palestinesi.
Mi chiedono se è possibile promuovere in Italia azioni volte ad incriminare i responsabili di crimini contro l’umanità, analogamente a quanto accaduto alcuni anni or sono nei confronti di Sharon in Belgio per i massacri dei campi profughi di Sabra e Shatila. Li scoraggio, in quanto non mi risulta che in Italia esista una giurisdizione universale come accade in Belgio, che consenta di incriminare delle persone indipendentemente dal luogo ove i crimini sono commessi e dalla nazionalità degli indagati.
Gli spiego che sto lavorando su un diverso tipo di azione legale, volta ad inibire il commercio dei prodotti fabbricati nelle colonie israeliane all’interno della Cisgiordania, vendute con il marchio “made in Israel”. A mio avviso, è una vera e propria frode in commercio che potrebbe anche essere accertata da una corte del nostro paese, relativamente ai prodotti che vengono qui smerciati.

Esaurito il compito di osservatori io e Gianluca partiamo per Jenin, città a nord della Cisgiordania, divenuta tristemente famosa per la strenua resistenza opposta all’esercito israeliano durante la seconda Intifada, culminata con il massacro dell’aprile del 2002, quando i buldozer israeliani dopo un bombardamento di giorni da terra e cielo, rasero al suolo un chilometro quadrato del campo profughi, provocando circa un centinaio di morti tra i cittadini.
Partiamo dunque con il Taxi, che impiega quasi tre ore per fare un centinaio di chilometri lungo una strada tortuosa ed accidentata non potendo percorrere la strada principale a causa dei Check Point; l’unico modo per arrivare senza ostacoli è quello di costeggiare la linea di confine della Cisgiordania.
E’ l’ulteriore dimostrazione che i Check Point non hanno la funzione di garantire la sicurezza di Israele (a parte i pochi varchi nel Muro sono infatti tutti interni alla Cisgiordania), perché con qualche fatica e molta perdita di tempo si riescono ad evitare. La loro funzione evidente è quella di spezzare le linee di comunicazione interne palestinesi e a rendere impossibile i movimenti nel loro stesso territorio.
Arriviamo a Jenin verso sera, e ci rechiamo direttamente nel campo profughi dove ci aspetta una famiglia palestinese che Gianluca aveva conosciuto in una precedente occasione.
Ci fermiamo circa un’ora in una specie di scantinato polveroso del risultato delle elezioni con un gruppo di palestinesi. Sono tutti sostenitori di Al Fatah, delusi e preoccupati per la vittoria di Hamas. Qualcuno dice che non si potrà più bere neppure la birra.
La famiglia che ci ospita ha vissuto a lungo in Algeria, e sono tornati a Jenin, loro città di origine, per stare nella loro terra. Non hanno passaporto e non si possono allontanare dalla Palestina, perché altrimenti non potrebbero rientrare.
Ci offrono del pane condito con sugo e carne trita, insistendo a lungo perché le mangiamo. Loro non toccano cibo, e mi viene il dubbio che quella fosse la loro cena, di cui si sono privati per onorare gli ospiti. Sono comunque dotati di televisore a colori di discrete dimensioni.
Il loro figlio piccolo di circa tre anni ha gravi problemi di salute, con gravi malformazioni ai piedi, all’intestino (è costretto ad evacuare dalla pancia con un ano artificiale), è anche sordomuto.
Non si possono permettere le cure necessarie, né possono portarlo ad operarsi all’estero, né a Gerusalemme, non avendo passaporto, a meno di affidarlo ad altre persone. Gianluca gli consegna 500 euro raccolte tra amici, aggiungo qualcosa anch’io.
La madre ci dice che una possibile causa delle malformazioni potrebbe essere un’infezione contratta durante la gravidanza, derivante dall’inquinamento provocato dalla distruzione della rete fognaria durante il bombardamento israeliano del 2002, durante la gravidanza, quando si mescolarono le acque nere con l’acqua potabile. I genitori sono però consanguinei, e non è detto che le ragioni non si debbano cercare altrove.
Maldestro come sono, urto con il piede una tazzina di caffè che si rovescia sul tappeto. Il padre del bimbo prende il berretto del figlio ed asciuga la macchia.
Dormiamo in un giaciglio improvvisato, costituito da un materasso ed uno strato di coperte gettate per terra. La mattina successiva è tutto completamente fradicio di umidità.

VENERDI’ 27 GENNAIO
La mattina attraversiamo il campo profughi che riesco a vedere alla luce del sole. E’ stato ricostruito completamente grazie all’aiuto di un generoso sceicco, la cui immagine è rappresentata vistosamente all’ingresso del campo.
Un artista tedesco ha costruito un grande cavallo utilizzando le carcasse delle auto distrutte dal bombardamento.
Su una lamiera si legge la scritta Ambulance; era la vettura di un dottore che cercava di portare soccorso alle vittime del bombardamento, morto sotto le bombe.
Per tornare a Gerusalemme percorriamo un’altra strada, sperando sia più rapida, ma la scelta si rivela sbagliata, a causa dei numerosi Check Point che ci costringono a cambiare taxi in continuazione.
Ad ogni stop siamo costretti ad aspettare che i taxi si riempiano per viaggiare a pieno carico.
Ci arrampichiamo su tortuose strade di montagna per lunghi tratti sterrate. Il paesaggio è verde, la terra ricca, intensamente coltivata.
Arriviamo a Gerusalemme che è ormai ora di pranzo, giusto in tempo per incontrare con una giovane avvocatessa, Netta, che lavora per un ente scandinavo che promuove progetti di cooperazione.
E’ molto preparata e le chiedo un parere sulla mia idea relativa ai prodotti palestinesi commercializzati con marchio “made in Israel”. E’ ebrea di origine Yemenita, e questo è per lei già causa di discriminazioni in Israele.
Il pomeriggio partecipo con il gruppo di Action for Peace ad un incontro con un’associazione di ex combattenti israeliani e palestinesi che si associati per promuovere un confronto pacifico tra i due popoli con la deposizione definitiva delle armi. L’israeliano faceva parte di un corpo militare d’elite, è il fratello del primo pilota che si è rifiutato di compiere esecuzioni mirate di palestinesi nei territori occupati. Dopo il suo rifiuto è stato espulso dal suo corpo militare senza tanti complimenti.
Diversa è la storia dei palestinesi, uno è stato incarcerato a 14 anni, ed ha fatto 10 anni di carcere, l’altro ne ha fatti sette, anche lui in giovanissima età.
Spero che il loro progetto abbia seguito, il dialogo e la conoscenza reciproca mi pare l’unica strada percorribile.

SABATO 28 GENNAIO.
Il giorno dopo siamo di nuovo a Nablus, con il gruppo ove incontriamo una candidata di un partito della sinistra palestinese, che non è stata eletta.
Nel pomeriggio, io ed un altro avvocato del gruppo incontriamo un importante Imam, che è inoltre direttore di una cooperativa che gestisce una centrale del latte e di un centro islamico Zacat associazione caritatevole di carattere religioso.
Mi spiega come funzionano i centri di assistenza caritatevoli islamici, ed in particolare quello di Nablus.
Mi mostra le carte da cui risultano tutti i versamenti che vengono fatti agli orfani.
I centri caritatevoli, prevalentemente islamici, hanno una grande importanza nella società palestinese, ed hanno il compito di fornire assistenza ai non abbienti, dove lo stato non arriva con le sue modeste risorse. Sono dotati di grandi disponibilità economiche probabilmente frutto della solidarietà del mondo arabo.
Non mi meraviglio più a questo punto, per quel poco che posso avere osservato nel corso di questa settimana, che il collegamento politico-ideologico tra Hamas ed i centri islamici abbia contribuito non poco alla vittoria elettorale di questo partito.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Sulle elezioni.
Dall’analisi del voto che ho sentito fare da più esponenti politici, risulta che il successo di Hamas è stato determinato da un triplice ordine di fattori: quello religioso, quello sociale, essendosi questa organizzazione adoperata molto, anche tramite i centri di carità islamica, per l’assistenza ai ceti più deboli della popolazione, ed infine quello di protesta contro un partito largamente corrotto, al potere da troppi anni ed incapace di rinnovarsi, ulteriormente indebolito dal fatto che il suo leader indiscusso Marwan Barghouti, è incarcerato nelle prigioni israeliane, dove sta scontando circa 9 ergastoli, dopo un processo farsa.
Non mi sento di esprimere un giudizio definitivo sulla vittoria di Hamas; credo che solo il tempo potrà dare indicazioni sull’evoluzione di questo partito e della sua politica. Sono peraltro fortemente convinto della sostanziale laicità della popolazione palestinese (nel senso della loro capacità di stare lontani da derive fondamentaliste) e di una certa maturità del ceto politico di Hamas, che pare forse più capace di altri partiti, di far valere il suo peso politico nei confronti della popolazione palestinese. Un giornalista israeliano, che collabora con il Manifesto, ci ha detto che Hamas è riuscita meglio di altre organizzazioni politiche nel corso dell’ultimo anno, a fare rispettare la tregua unilaterale verso Israele, frenando il suo c.d. “braccio armato”. Credo inoltre che il cambiamento politico possa favorire un radicale rinnovamento di Al Fatah e della sua classe dirigente.

Occorre tuttavia che il nuovo governo, non venga pregiudizialmente osteggiato da parte dei paesi occidentali e da Israele, nel qual caso la situazione non potrà che peggiorare. E non lasciano ben sperare le prime notizie che si sono diffuse, secondo cui Israele non concederà il passaggio ai parlamentari eletti a Gaza per raggiungere il parlamento di Ramallah, e pretende la cessazione di qualsiasi forma di resistenza, prima di avviare un dialogo con il nuovo governo palestinese.
E’ ovvio che si tratta di condizioni difficilmente accettabili per un paese occupato militarmente, da parte di forze straniere che usano quotidianamente le armi contro la popolazione civile.
Così appare piuttosto ipocrita la pretesa sostenuta con forza anche dagli stati occidentali, che Hamas riconosca lo Stato Israeliano, e ratifichi i trattati internazionali sottoscritti dai precedenti governi palestinesi, trascurando colpevolmente il fatto che Israele non ha mai rispettato alcun trattato internazionale che riconoscesse dei diritti ai palestinesi, né ha mai riconosciuto la Palestina come Stato, né accettato di ritirarsi oltre la linea dei territori che continua ad occupare militarmente, nonostante le ripetute condanne degli organismi e delle corti internazionali, da oltre 40 anni.
Mi chiedo inoltre che senso abbiano i dubbi sul grado di democraticità del nuovo governo palestinese, se rimangono così limitati i margini di autonomia per svolgere una attività politica ed amministrativa di qualsiasi tipo, se i soldati israeliani quotidianamente entrano nelle città palestinesi per compere arresti, omicidi sommari, sparare sulla popolazione civile, uccidere bambini; se per accedere o per uscire dal territorio palestinese bisogna comunque sempre passare da una dogana israeliana, che ti può negare senza ragione il transito; se Israele controlla i traffici di merci palestinesi e riscuote persino gli introiti delle dogane, che può decidere in qualsiasi momento di congelare; quale differenza può fare in una situazione del genere se in parlamento prevale l’una o l’altra forza politica?
Per questo mi riempiono di amarezza, al rientro in Italia, i commenti che leggo sulla quasi totalità dei giornali, integrati perfettamente in un sistema informativo drogato e fazioso, nel quale alla gran quantità di fonti di informazione, si contrappone un pensiero unico ed acritico che permea ogni aspetto della nostra cultura.
Io stesso, stordito da questo coro uniforme, stento a conservare il ricordo di quanto ho visto e le idee che mi sono fatto, solo pochi giorni dopo il mio rientro in Italia.
Sul Corriere della Sera, che considero un po’ il baricentro del nostro sistema informativo, seguo con attenzione la campagna denigratoria che viene fatta contro Hamas, accusata oltre che di terrorismo contro Israele, anche di non rispettare neppure i diritti umani dei palestinesi (non era stato Israele ad essere condannato dalla Commissione dei Diritti Umani dell’ONU per queste violazioni? Non è Israele che è stata condannata dalla Corte dell’Aia per la costruzione del Muro in quanto viola il diritto internazionale?).
Sempre sul Corriere, leggo l’opinione di certo Paul Barman, che ignoro quali meriti abbia e perchè il suo pensiero sia citato tra virgolette e con tanto di foto sul giornale, il quale sostiene che “le elezioni non producono automaticamente la democrazia, per quanto siano libere e regolari. Prima occorre esportare le idee trasformare le persone”. Sarei pronto a scommettere che questo Berman è altrettanto convinto che le elezioni irachene siano la prova di come si può riuscire ad esportare la democrazia dopo avere trasformato le persone (molte delle quali direttamente in cadaveri).
Commenti di questo genere, ci faceva notare Michele Giorgio in occasione dell’incontro tenutosi a Gerusalemme, non si leggono neppure sui giornali israeliani, evidentemente più consapevoli della realtà e meno ideologizzati della stampa nostrana.

Sul Muro
Il Muro ti riempie di rabbia e di amarezza. Ha reso la Cisgiordania una immensa prigione a cielo aperto. E’ evidente che non serve a porre una linea netta di demarcazione tra due stati, ma che è concepito per segregare ed umiliare una popolazione di oltre tre milioni di palestinesi di cui oltre la metà minorenni.
Non può neppure sostenersi che abbia finalità meramente difensive. Non si spiegherebbero allora le evoluzioni che fa il suo percorso intorno alle città palestinesi, circondandole talvolta in modo completo, come nel drammatico caso di Qualquilya; non sarebbe stato costruito a ridosso delle case palestinesi di Gerusalemme, di Betlemme, separandole dai terreni coltivati da centinaia di anni dagli abitanti di quelle città, non taglierebbe in due il campo di calcio dell’università palestinese di Gerusalemme; non sarebbe neppure stato costruito decine di chilometri all’interno della Cisgiodania, ben al di là della linea verde che divide il territorio di Israele dai territori occupati.
Non condannare apertamente e senza tentennamenti quest’opera titanica e raggelante vuol dire esserne complici, non si può restare neutrali, né trovarvi giustificazioni di sorta. La sostanziale tolleranza, l’indulgenza mostrata con Israele, con il quale sono in essere trattati di cooperazione commerciale europei, e con il quale sono stati recentemente stipulati dal nostro paese anche trattati di cooperazione militare, è indice a mio avviso di una profonda crisi di valori che sta attraversando la nostra società e la nostra cultura. Possibile che non siamo in grado neppure di esprimere una condanna morale? Che non diamo valore neppure alle sentenze della Corte dell’Aia?

Sulla segregazione di due popoli.
La maggioranza degli israeliani, vive nella completa ignoranza delle condizioni di vita dei palestinesi. Molti non sanno neppure cosa sia un Check Point, è vietato per legge agli israeliani l’ingresso in Palestina, così come è vietato ai palestinesi di entrare in entrare in Israele. Il Muro fa il resto, ed i due popoli non hanno più alcuna occasione di contatto, salvo poche eccezioni (vedi l’associazione dei combattenti per la pace).
Mi raccontano che è tale la volontà di Israele di cancellare la percezione dell’esistenza stessa dei palestinesi, che sul lato israeliano del muro che recinge la città di Qualquilya, sono stati appoggiati dei terrapieni che nascondono il Muro e non permettono di percepire che lì dietro, là sotto, ci sono delle persone, c’è un’intera città.
Sono convinto che se gli israeliani, intesi come popolazione, avessero la minima coscienza delle condizioni in cui vivono quei tre milioni di persone, se ognuno di loro avesse la possibilità di trascorrere una sola settimana al di là del muro, come è consentito a noi occidentali, probabilmente la politica israeliana subirebbe un profondo mutamento,

DOMENICA 29 GENNAIO – all’aeroporto.
Il viaggio si chiude all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv.
Vi arrivo alle ore 2,30 della mattina; gli uomini della sicurezza hanno iniziato a farmi domande del tipo “hai chiuso tu i bagagli?” oppure “sospetti per caso che qualcuno ti abbia messo una bomba nella valigia?”oppure domande di tipo più intellettuale, tipo “quale è l’origine del tuo cognome?”. Si passa quindi alle perquisizioni personali con il metaldetector ed un rilevatore di esplosivi che viene passato su ogni parte del tuo corpo, dopo averti fatto spogliare più o meno completamente.
Una ragazza del nostro gruppo con le mestruazioni è stata lasciata con le sole mutande, ed il rivela-esplosivi le è stato fatto passare anche sotto quest’ultimo indumento. Le scarpe sono oggetto di particolare attenzione, evidentemente per la presenza del tacco, dentro il quale può celarsi qualunque cosa. Quindi le prendono, te le riportano, se le riprendono, fanno qualche altro giro e te le riportano. Dove le portino non è dato sapere.
Il tutto avviene in una atmosfera di estrema correttezza e cortesia, ad opera di giovanotti educati e vestiti elegantemente o di signorine anche piuttosto carine. Ti dicono please ogni volta che ti fanno togliere la camicia, e ti ringraziano sempre con un Thank You.
Nel frattempo i bagagli sul bancone vengono ridotti ai minimi termini, anche la mia guida De Agostini di Israele viene strofinata pagina per pagina con il rivela-esplosivi. Dopo circa un’ora e mezza arrivo al controllo passaporti, ma evidentemente sul computer, accanto al mio nome deve essersi accesa una maledetta lampadina rossa, l’impiegata mi guarda storto, prende il telefono, ed arriva immediatamente una nuova guardia che si porta via il passaporto e la carta di imbarco.
Devo aspettare per un’ora intera, seduto in sala d’attesa durante la quale non succede assolutamente nulla, finchè mi chiamano, devono sottopormi ad un nuovo check, chiedo il motivo con estrema cortesia, ritenendomi psicologicamente preparato a tutto quello che stava accadendo.
Faccio presente comunque che ero già stato perquisito per oltre un’ora e mezza, e che se non mi avevano trovato una bomba era difficile che spuntasse fuori ora. Mi rispondono, che questa sarebbe stata una perquisizione speciale. Sento il ragazzo che mi accompagna rivolgersi ad una collega, e comprendo solo le parole Hamas e Palestina rivolte verso di me, e mi sento un brivido correre lungo la schiena.
Ritorno all’inizio della Via Crucis, un po’ come al gioco dell’oca, e vengo di nuovo perquisito con il rivela – esplosivi, fanno fare un nuovo giro alle scarpe, questa volta con la cintura.
Un giovane robusto, con i capelli a spazzola, in borghese e con gli scarponi mi staziona davanti al mio spogliatoio, guardandomi fisso negli occhi attraverso le tende. Chiedo al mio controllore chi sia quell’individuo, e soprattutto perché la tenda non stia chiusa; mi dice che è uno che controlla lui mentre controlla me.
Mi fanno nuovamente sedere in una nuova stanza, sono le cinque passate e alle sei il mio aereo parte.
Ogni tanto arriva una ragazza in divisa che con tono gentile mi chiede se le posso favorire il passaporto, le faccio notare che sono due ore che il passaporto è nelle loro mani.
Alle 5,45 comincio ad innervosirmi e comunico iroso che sono un avvocato, e se pensano che sia un terrorista me lo dicano pure che ne parliamo.
Alle 5,53 arriva finalmente il bagaglio, sparpagliato in uno scatolone, la videocamera è rotta, lo faccio notare, voglio fare denuncia, mi dicono che non c’è tempo perché l’aereo parte
Alla fine compilano un modulo, scritto in ebraico che sottoscrivo. Quando entro sull’aereo, che è partito in ritardo per aspettarmi, mi accoglie un applauso liberatorio dei miei compagni di viaggio.
Ripensandoci, passata la rabbia, mi accorgo che è solo un gioco, un crudele gioco psicologico, il cui unico fine è quello di fiaccarti ed intimorirti, per indurti a non tornare più. Non si spiega altrimenti l’inutilità e la ritualità dei controlli, il fatto che non abbia neppure potuto assistere alla perquisizione dei bagagli, che non so neppure se siano stati realmente perquisiti, e che mi sono stati appositamente restituiti un attimo prima della partenza dell’aereo, che comunque volevano che io prendessi visto che lo hanno fatto aspettare.
E’ comunque evidente l’estrema efficacia di tali procedure, se io stesso, salendo sull’aereo ho giurato urlandolo alla mia guardia del corpo, che non sarei mai più tornato in Israele.
Ma ci ho già ripensato, dogana permettendo.

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