Palestina

Hamas e noi

28 gennaio 2006
Enzo Mangini
Fonte: Carta


Ci sono cose che sfuggono. Le lenti che l'Europa, le sinistre europee e soprattutto quella italiana, applicano alla lettura del mondo, evidentemente, non funzionano più tanto bene. Non ci si aspettava la rielezione di Bush; si sperava (e si spera) in una grande mobilitazione per i diritti civili (pma, pacs, 194); ci si attendeva la vittoria di Fatah alle elezioni palestinesi. Magari anche tacendo su qualche broglio elettorale. Meglio, in fondo, un po' di corruzione, che l'Islam. Meglio Fatah che Hamas. C'è un comune denominatore tra questi tre vertici di inadeguatezza analitica, ed è la religione. La destra religiosa ha sostenuto Bush, la chiesa cattolica fa quello che fa e, per Hamas, l'Islam è la risposta. All'occupazione, alla corruzione, all'umiliazione.
Per chi crede ancora nei principi che ispirano questa molto contraddittoria esperienza umana che chiamiamo, semplificando troppo, Occidente, ciascuno di questi passaggi è un passo indietro. Meno liberté, meno egalité, meno fraternité. E anche se Hamas, Ratzinger e Bush, come anche il Likud, lo Shas e i movimenti dei coloni ebrei sono tra di loro avversari o apertamente nemici, i loro progetti sociali sono essenzialmente convergenti.
La vittoria elettorale di Hamas ha molte sfaccettature e bisognerà aspettare i prossimi mesi e soprattutto le elezioni israeliane, il 28 marzo, per capire se produrrà catastrofi oppure no. Per ora, bisognerebbe notare che spesso per spiegare il sostegno a Sharon e al Likud, i commentatori occidentali hanno usato espressioni aforistiche come: "Solo la destra israeliana può fare la pace" o "La pace si fa tra nemici". Considerazioni vere che sarebbe il caso di applicare anche alla Palestina, ad Hamas, cioè alla destra palestinese. Solo Hamas può fare la pace con Israele, quando e se la responsabilità del governo avrà modificato la natura guerriera, desertica, di questo movimento. Alla cui fondazione, peraltro, Israele, e in particolare Shimon Peres, ha contribuito in maniera significativa nel tentativo di contrastare Arafat. Sotto questo aspetto non si capisce perché Hamas debba essere trattato come un intoccabile, un paria della politica, mentre altre formazioni di ispirazione religiosa, in tutto il mondo, vengono considerate interlocutori legittimi, dagli stessi partiti israeliani fino alla destra hindu che ha governato, male, l'India. Gli attentati suicidi, certo, sono un ostacolo grande come un macigno. Ma Hamas sta rispettando da un anno la tregua con Israele. Il muro israeliano, i check point, i carri armati Merkava non sono ostacoli meno ingombranti. Qual è la paura? Che un governo guidato da un partito religioso possa essere più efficiente di quello della vecchia guardia laica di Al Fatah? Che l'islamismo militante possa dimostrare di non essere solo rabbia di esclusi e umiliati, ma anche forza di governo? O si rimprovera ad Hamas di aver conquistato terreno proprio sul piano sociale? Se Hamas dimostrerà di poter governare meglio di Al Fatah, sarà una buona notizia.
Il secondo punto sono le milizie. Anche Al Fatah ha le sue, confuse e solo in parte integrate con l'apparato di sicurezza dell'Anp. La smilitarizzazione della società palestinese è molto desiderabile, ma deve essere generalizzata. Quanto la smilitarizzazione della società israeliana, a partire dai coloni, che invece uscirebbero raffozati se Hamas si dimostrasse inadeguata e incapace di evolversi.
La storia di altri movimenti di resistenza islamica, come Hezbollah in Libano, lascia ben sperare per il futuro. Il Libano certo non è la Cisgiordania, ma Israele e i governi occidentali dovrebbero far tesoro dell'esperienza libanese per evitare errori costosi, soprattutto in vite umane. E il riconoscimento, su cui tutti gli editoriali post elettorali battono, non può che essere reciproco. La legittimità politica dell'islam integrale, almeno di quello che evita le scorciatoie a mano armata, dovrebbe essere ammessa tra le opzioni possibili, tra le scelte, gli esperimenti che un popolo, per ragioni sue e sue evoluzioni (o involuzioni) può compiere, e non continuare ad essere demonizzata. Questo ci porta al secondo ordine di considerazioni.
L'altro essenziale aspetto della vittoria di Hamas riguarda i palestinesi. C'è stata sicuramente e forte un'alta percentuale di voto di protesta, contro la corruzione dell'Anp (soprattutto nei quadri medi) e contro il fallimento degli accordi di pace (ancora, responsabilità israeliane, statunitensi, europee). Ma Hamas ha raccolto anche i frutti di un lungo lavorio sociale, di base, sotterraneo, probabilmente altrettanto pesante dal punto di vista del consenso e dei voti. Sono i frutti dell'islamizzazione di una delle più laiche società arabe. Non è diversa questa strategia dai risvegli dei neo-con statunitensi o dall'invadenza di Ruini e dalla strategia di ridisegnare il welfare su base caritatevole, religiosa. È solo per l'immanente pretesa di verità esclusiva che ciascuno di questi progetti ha che essi non sono alleati. La vittoria di Hamas non è la vittoria dell'Islam, è una vittoria di un movimento islamico. Uno tra i tanti. Un movimento che, rozzamente possiamo definire di destra. Come spesso accade, la vittoria della destra è da attribuire in gran parte alle debolezze delle sinistre.
Per quanto la retorica armata a volte estenda il suo fascino sanguinolento anche su alcuni pezzi della sinistra "alter", è chiaro da anni che la via d'uscita al conflitto tra israeliani e palestinesi non può essere militare. L'integrazione elettorale e democratica, se ci sarà, di Hamas, il suo "sdoganamento" è cosa che può far piacere, se servirà a disinnescare, come si spera, alcuni detonatori. È un'integrazione che è avvenuta altrove nel mondo arabo (Egitto nelle ultime elezioni con l'affermazione dei Fratelli musulmani) e musulmano (Turchia, Iran). Specialmente se a questa integrazione corrisponde dall'altra parte e verso l'altra pare (in questo caso Israele) la disponibilità a trattare, appunto, tra nemici.
La costruzione di una destra islamica palestinese "responsabile", cioè non prigioniera del mito dei martiri e dei kalashnikov, è una precondizione per la pace, tanto quanto l'esistenza di una destra israeliana staccata dal mito di T'sahal e dalle caserme. Non si tratta di rinunciare alla propria lettura dell'Islam o dell'Ebraismo, ma solo alle armi. Poi, senza nuvole di polvere da sparo, sarà tutto più chiaro. Forse è come sperare che i neo-con rinuncino ai marines o Fini alla Folgore. Per questo il senso della sfida è evidente.

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