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Ariel a Jenin

Lettera di Ariel, ebrea francese nipote di vittime dell'Olocausto, dal campo di Jenin.
19 agosto 2003
Ariel H.
Fonte: Al Ahram Hebdo - http://hebdo.ahram.org.eg/ - 13 agosto 2003

Shalom, Pace, Salam. I miei nonni sono stati deportati a Auschwitz. Sono ebrea, non religiosa, non sionista. Ho provato il bisogno di capire: sono partita per la Palestina, una settimana nel campo di Jenin. Ma non ho capito. Mi chiamo Ariel, come Ariel Sharon. Nel campo di Jenin non posso pronunciare il mio nome, fa paura ai bambini. Sono terrorizzati, i bambini di Jenin. Avevamo deciso di fare un grande quadro con loro, ma sono talmente nervosi che hanno distrutto i pennelli. E' un piccolo popolo incarcerato che non distingue molto bene con chi ha a che fare. Il loro primo riflesso consiste nel lanciare sassi e, per non farsi lapidare, bisogna avere il sostegno degli adulti oppure correre velocemente.

Al centro del campo, c'è oggi una vasta distesa vuota. 280 case sono state distrutte e sui lembi di mura ancora in piedi si può leggere una scritta, in rosso: «Give me liberty or give me death». Alcuni adolescenti sono impazziti dopo l'aprile 2002. Uno di loro, in particolare, ha perso la ragione dopo essere rimasto dieci giorni sequestrato con i cadaveri di sua madre e del suo fratellino.

In un centro culturale, è stata organizzata una mostra con alcune foto del campo. Alcune, insostenibili alla vista, sono state pudicamente ricoperte di tessuto nero, i bambini hanno disegnato dei carri armati, dei bulldozzer che demoliscono case...

La notte, i tank fanno delle «incursioni» intorno al campo. Durante il sonno, quando il silenzio è assoluto, si sente solo il rumore dei cingoli. Si ha allora l'impressione di essere in un incubo, o in un brutto film di serie Z: un mostro nella notte ulula e il suo grido è incomprensibile ma terribile.

Non è facile sentirsi a proprio agio quando si passeggia per il campo di Jenin, soprattutto se si è europei e ci si chiama Ariel, come il torturatore. Ma questo è il nome che mio padre, orfano di padre e madre gasati a Auschwitz, ha scelto per me.

Non sono antisemita, non sono revisionista, ma auspico il boicottaggio dei prodotti israeliani e il congelamento degli accordi di associazione fintanto che lo stato di Israele considererà i palestinesi come pietre su «una terra senza popolo».

Di ritorno a Gerusalemme, sono andata in giro per la Città vecchia: nel pieno centro del quartiere arabo, a Gerusalemme est, un edificio è coperto da un grande candelabro a sette braccia e la facciata è coperta da una gigantesca bandiera israeliana. Vengo a sapere che il palazzo appartiene a Ariel Sharon. Ariel Sharon da solo rappresenta un esercito di occupazione nella Città vecchia. Così come è andato a passeggiare nell'autunno 200 sulla spianata delle moschee, marca insidiosamente il territorio.

Sono andata a visitare il memoriale di Yad Vashen, museo dell'Olocausto, e ho pianto. Mi hanno detto che Yad Vashem è stato costruito laddove sorgeva un villaggio palestinese raso al suolo. Sono andata laggiù per capire e non ho capito.

Note: Al Ahram Hebdo e' una pubblicazione settimanale in lingua francese del quotidiano egiziano Al Ahram.
La lettera e' stata tradotta e pubblicata da "il manifesto".

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