La guerra riabilitata
L'approvazione da parte del Senato e l'arrivo alla Camera del progetto governativo di riforma delle leggi penali e della giurisdizione penale militare merita un commento fortemente critico, anzitutto in termini strettamente giuridici. Si tratta infatti di un tentativo di riscrivere i codici militari di pace e di guerra e di introdurre ampie modifiche nell'ordinamento giudiziario militare. L'obiettivo è quello di attenuare sempre di più la differenza fra tempo di pace e tempo di guerra in modo da poter applicare estesamente, anche in tempo di pace, la legge marziale ai cittadini italiani. Questo vale in modo particolare per la sottoposizione alla giurisdizione penale militare, come si esprime il progetto governativo elaborato dai ministri Martino e Castelli, di chiunque, anche in tempo di pace, commetta un reato contro le leggi e gli usi di guerra. Identica è la condizione di coloro che commettano una infrazione militare in territorio estero «sottoposto al controllo delle forze armate italiane nell'ambito di una operazione militare armata». Siamo in presenza di una esplicita controtendenza normativa rispetto ai valori civili della non violenza e della pace e in particolare rispetto alla Costituzione italiana, che ripudia esplicitamente il ricorso all'uso della forza che non abbia finalità strettamente difensive. Di fatto il progetto di legge non solo intende equiparare un'occupazione militare illegale, come in Afghanistan e in Iraq, ad una guerra difensiva - e perciò giuridicamente lecita -, ma estende la giurisdizione militare a qualsiasi soggetto che si trovi nel territorio occupato dalla truppe italiane, si tratti anche di operatori umanitari o di giornalisti. E' un attacco grave contro la società civile, contro lo Stato di diritto, contro il diritto all'informazione. E' l'ennesima operazione di normalizzazione della guerra all'insegna della ideologia della guerra preventiva e della «lotta globale» al terrorismo.
A metà del secolo scorso la Carta dell'Onu aveva definito la guerra come un «flagello» che aveva procurato «indicibili sofferenze all'umanità». Occorreva, per le future generazioni, che la forza delle armi venisse usata dall'Onu solo nell'«interesse comune» dei popoli. In questa linea, la Costituzione italiana, che alla Carta dell'Onu si era direttamente ispirata, aveva impegnato lo Stato italiano a «ripudiare» la guerra come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo per la soluzione delle controversie internazionali.
Ora tutto questo sta per essere cancellato dal governo italiano - da Mussolini a Berlusconi e ritorno, si potrebbe dire - nella scia del processo di riabilitazione della guerra avviato in Occidente, non solo da destra, a partire dall'ultimo decennio del secolo scorso.
La guerra è oggi pienamente «normalizzata» dalle maggiori potenze occidentali. L'industria della morte collettiva è più che mai fiorente e il traffico delle armi - nucleari comprese - è fuori dal controllo della «comunità internazionale». E l'uso delle armi dipende sempre più dalla «decisione di uccidere» che le grandi potenze prendono ad libitum , e sempre più di frequente, secondo le proprie convenienze strategiche. Una sentenza di morte collettiva emessa, nella più assoluta impunità, contro (centinaia, migliaia di) persone non responsabili di alcun illecito penale, né di alcuna colpa morale. Di questo passo la guerra verrà guardata come l'espressione suprema del progresso occidentale. «L'uccidere collettivo in nome del potere pubblico - ha scritto amaramente Ingrao - tornerà ad essere compito nobile ed ambito, sotto l'aspetto delle retribuzioni, del rango sociale e del riconoscimento pubblico».
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