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Storia del soldato che disse basta

Un disertore Usa chiede asilo in Canada. E un marine rompe il silenzio

9 dicembre 2004
Ivan Bonfanti
Fonte: Liberazione (pubblicato in due puntate, il 9 e l'l1 Dicembre)

«Spesso dimentichiamo cosa in fondo è la guerra. Cosa fa a coloro che la conducono e a coloro che la soffrono. Quelli che odiano di più la guerra, ho notato tante volte, sono i veterani e i soldati, quelli che la conoscono meglio».

Chris Hedges, reporter del New York Times e autore del libro "War Is a Force That Give Us Meaning".

Il 31 dicembre dell'anno scorso la vita di Jimmy Massey era già cambiata. Eppure l'appuntamento al mattino era uno di quei momenti simbolici che tagliano un'esistenza, che danno a una scelta, a una mutazione, il senso compiuto del trapasso. Era capodanno e Jimmy Massey rientrava in caserma, ma stavolta era per non tornarci più. Dopo quasi dodici anni di esercitazioni e veglie, di «Yes Sir!» urlati a squarciagola, dopo una vita in cui il suo nome era un grado e l'indirizzo una mail box presso il corpo dei Marines, esercito degli Stati Uniti, il 31enne sergente maggiore Jimmy Massey si congedava con una corposa liquidazione e tutti gli onori. «Finalmente», sospirò il soldato Massey tornando verso affetti e ricordi sepolti tanti anni prima all'ombra delle Smoky Mountains nella sua Waynsville, North Carolina.

Jimmy non era solo un soldato. «Ero un hard-core Marine», ricorda oggi, «qualcuno direbbe un gung-ho», un entusiasta. Prima in giro per le caserme del Sud Est asiatico, poi in Germania, nei Balcani e nelle basi Usa del Golfo Persico. Massey è tanto ruvido che nel 2000 diventa addirittura il sacerdote di uno dei più devastanti rituali di indottrinamento della vita militare, istruttore in uno dei famigerati Marine boot camp, i durissimi campi di addestramento per le reclute. Ma un giorno, è il 17 gennaio 2003, inattesa arriva la chiamata: Massey deve andare in Iraq, la macchina da guerra è pronta all'ora X dell'invasione e il sergente maggiore è tra quelli che prendono parte in prima linea all'avanzata verso Baghdad. Ma la vita «non sarebbe stata più la stessa». «Ho visto, ho vissuto, ho capito» spiega Massey oggi, mentre il telefono squilla e dall'altra parte del filo c'è quasi sempre un giornalista che vuole un'intervista, ora che Jimmy ha smesso la mimetica e gira con una maglietta nera con scritto "George W", dove la W è in realtà la M di Mc Donald's rovesciata, tanto per rimarcare la vicinanza di interessi tra le grandi corporation e il presidente degli Stati Uniti.

Massey è scappato dalla guerra, Massey è cambiato. Alle spalle «il rimorso», i volti di «quelle persone», «un silenzio che mi opprime». «Ma credo che la gente abbia il diritto di sapere, che gli americani debbano essere informati». Così il soldato Jimmy ha deciso di parlare, e con le parole denunciare. L'ha fatto senza sensazionalismi, rifiutando i soldi per un'esclusiva che gli erano offerti da «una grande firma dei media Usa», con il pudore di chi vuole «solo riconciliarsi con se stesso». «Ho ucciso persone innocenti, ho sparato e ammazzato civili per ordine del governo del mio Paese» racconta l'ex Marine che ha lasciato l'Iraq nel maggio 2003 dopo una diagnosi da "stress post-traumatico".

Pochi giorni fa è andato in Canada, Massey. Un tribunale lo ha chiamato come testimone nel caso Jeremy Hinzman, un altro giovane americano fuggito oltre confine dopo aver disertato dall'esercito (è scappato da Fort Bragg quando gli è arrivata la cartolina con scritto «ridislocato in Iraq»), che per non finire in prigione ha chiesto asilo politico alle autorità canadesi insieme ad altri due cittadini Usa. I giudici della commissione rifugiati l'hanno convocato, Messey ha risposto. E' arrivato, si è seduto, ha raccontato.

Ha ricordato l'uccisione di quattro iracheni che facevano una manifestazione nei pressi di Baghdad, l'assassinio di un uomo che aveva alzato le mani per arrendersi. Ha circostanziato come e quanto i militari rovesciassero i caricatori degli M-16 sulle auto che non si fermavano ai blocchi senza verificare se fossero civili oppure no, «la morte di tante donne e bambini che uccidemmo noi: sì, ha capito bene, li uccidemmo noi». Ecco il suo racconto.

«Ero il capo di un plotone di mitragliatori e lanciamissili, il nostro lavoro era la messa in sicurezza di alcune aree specifiche intorno alle autostrade. Un giorno, anzi il giorno in cui la mia coscienza si è ribellata, avevamo messo in piedi un posto di blocco fuori Baghdad, che nel frattempo era sotto i bombardamenti dei nostri aerei». «Ricordo che ci arrivavano continuamente i report dell'intelligence sul pericolo di attentati suicidi, la tensione era al massimo. Una macchina si avvicinò, sparammo qualche colpo in aria; quelli non si fermarono subito e in un istante facemmo fuoco con tutta la potenza». La macchina si fermò, infine, mentre i vetri saltavano, ma anziché la grande esplosione che i Marines si aspettavano (l'automobile doveva essere esplosiva), dalla macchina ormai a brandelli saltavano solo vetri e metallo. «Non c'era nulla, nessuna dannata bomba. Erano civili, solo civili. Uno di loro incredibilmente uscì completamente incolume. Venne verso di me lentamente, con le mani alzate, mi guardò e mi disse: "Non avevamo fatto niente di male, perché avete ucciso mio fratello? ". Fu come essere colpito da un mattone sulla testa».

Secondo la testimonianza di Massey l'episodio occorse «proprio mentre era in corso il bombardamento su Baghdad». Quindi in un momento in cui decine di migliaia di civili cercavano di fuggire? «Sì, avevamo lanciato sulla capitale centinaia di migliaia di pamphlets, volantini propagandistici che dicevano "Non vi sarà fatto alcun male, tenete solo le mani alzate e gettate ogni arma". I civili in quella macchina avevano fatto proprio quello, non erano in uniforme né ostili, ma prima di sapere che intenzioni avessero gli abbiamo sparato addosso. Lo facemo sempre: sparare prima di tutto. No, in quel caso non abbiamo trovato alcuna arma». Negli altri casi? «Nemmeno. Sono stato coinvolto in cinque "incidenti" nei check point. Un'altra volta accadde nei pressi di Rekha. Un ragazzo guidava un furgone da lavoro, non si era fermato al primo stop, centrammo in pieno il furgone e il giovane, morto all'istante. Poi abbiamo ispezionato il veicolo». Ami? «No, non abbiamo trovato armi o bombe. In realtà nelle cinque volte in cui sono stato coinvolto in questo tipo di incidenti non abbiamo mai trovato armi o bombe. Sissignore, ha capito bene. Neanche un a volta».

«Ricordare mi aiuta. Rivivere quei momenti, quelle sensazioni dolorose, è come una terapia. In parte avevo rimosso, in parte represso tanto tempo fa. Ho provato a schiacciarli, ma senza successo. Non posso liberarmi dei ricordi dell'Iraq. E ora non lo voglio neanche». Voleva dimenticare tutto, l'ex Marine Jimmy Massey. Dopo il periodo passato in guerra, in Iraq, «me ne stetti dei mesi a casa, dedicando la mia vita a cose semplici, il giardino, gli affetti. Ma non riuscivo a togliermi il peso, il groppo sullo stomaco. Solo ora, parlandone, riesco perlomeno a metabolizzare, a guardare in faccia il trauma. Non mi fa sentire bene, ma mi aiuta». E' così che Jimmy Massey, ex istruttore delle reclute e comandante di plotone dei Marine che ha ammesso l'uccisione di diversi civili iracheni, ha accettato di andare addirittura a testimoniare in un processo. Massey è andato in Canada, accettando la richiesta dell'avvocato di un disertore americano, Jeremy Hinman, che dopo essere scappato dall'esercito per non finire in Iraq ha chiesto asilo ai giudici canadesi. Quello che segue è una sintesi delle testimonianze rilasciate da Jimmy Massey ai giudici e ad alcuni giornali americani.

Gli episodi che Massey racconta riguardano soprattutto il periodo iniziale dell'invasione, nel marzo 2003, un solo lasso di tempo di 48 ore nel quale Massey e il suo plotone uccisero «almeno 30 civili». Accadde in quelle ore. «E' un fatto che sparammo contro una protesta solo perché avevamo sentito un colpo di fucile. Eravamo in un sobborgo di Bagdad, vicino ad una nostra caserma. C'era un sacco di gente per la strada, perlopiù giovani, non mi sembra ci fossero armi. Quando siamo arrivati sul posto c'era già un tank dei nostri parcheggiato al lato della strada. Abbiamo notato anche che c'erano degli Rpg (Rocket-propelled granades ndr) allineati contro un muro, cosa che ci tranquillizzò perché pensammo "Wow, se avessero voluto attaccarci lo avrebbero già fatto: potevano prendersela con il tank"».

«L'ordine di sparare arrivò dall'Alto comando. Erano arrivati report dell'intelligence e ordini scritti di stare in guardia anche con i civili perché parecchi Fedayn e unità della Guardia Repubblicana si erano liberati delle uniformi mischiandosi ai civili con l'intento di compiere azioni terroristiche contro i soldati americani. Chi esattamente decise di attaccare la manifestazione, credo, furono alti funzionari del governo, della comunità di intelligence sia militare che civile». «Sentimmo un colpo, nient'altro, ma fu sufficiente. Attaccammo il corteo usando sia gli M-16 che le browning da 50 mm (le mitragliatrici automatiche calibro 50-HB ndr), furono colpiti anche sei o sette ragazzi». Ragazzi? «Ragazzini, sì, erano dappertutto. Per uno di loro ebbi pietà. Quando siamo entrati in azione ne ho visto uno che si nascondeva dietro un pilone di cemento. L'ho guardato, lui mi ha guardato, poi ha iniziato a scappare tenendo le mani in alto. Ho ordinato a tutti "non sparate". Metà del suo piede era in parte staccata dal corpo, corse via tirandosi dietro un pezzo di piede».

«Passarono al massimo due o tre ore, poi fummo coinvolti in un altro "incidente". Sparammo su una macchina che non rallentò al nostro ordine. E' uno dei ricordi peggiori. Non so cosa ci prese, ma quello era uscito dalla macchina, ferito in modo molto serio e teneva le mani in alto. C'era grande confusione e nervosismo, parecchi dei nostri erano stati uccisi ai check point nei giorni precedenti. Non so chi sparò per primo, ma lo colpimmo ancora più volte. Poi un altro Marines venne di corsa e ci gridò: "Avete appena sparato a un ragazzo con le mani in alto". Avevo praticamente dimenticato questo episodio».

Massey guidò il plotone anche nelle operazioni all'interno di Bagdad. Avventurarsi nella capitale, per un gruppo di Marines alle prese con attacchi non convenzionali di terroristi e milizie varie, vuol dire un rischio altissimo. «Entrare a Bagdad significò prendere atto veramente di quanto stava accadendo. Ricordo che appena entrati uno dei marines del mio battaglione perse una gamba su una Icbm (una bomba a frammentazione molti uso ndr). Poi iniziarono gli incidenti con i civili, appena entrati in periferia uccidemmo una macchina di civili disarmati al nostro check point. C'era uno di quegli embedded reporter col plotone, ricordo che era sudafricano: un fottuto cagasotto. Quando entrammo in città e vide quello che stava accadendo, i civili uccisi da noi, ci disse che voleva andare a casa. Non l'ho più visto».

Il rapporto con i superiori, per Massey, è stato uno dei motivi che hanno convinto il Marine ad abbandonare una carriera spianata e il mondo dove aveva vissuto per ben dodici dei suoi 31 anni di vita. «Già dal primo giorno dentro Bagdad, quando ammazzammo i primi civili, mi resi conto che quello non sarebbe stato un giorno eccezionale ma la mia giornata tipica. Dopo l'incidente andai dal mio ufficiale superiore, mi chiese: "tutto ok? ". Gli risposti "no, oggi non è un bel giorno, abbiamo ucciso un gruppo di civili". "E' tutto ok", mi rispose, "oggi è un buon giorno". Mio Dio, pensai, in che inferno sono capitato?».

Massey inizia a parlare ai superiori degli incidenti, mostra rimorsi morali e critica i piani di battaglia dei marines all'interno delle grandi città temendo che colpiscano altri civili. «Una volta dissi al colonnello "Lo sa, penso onestamente che quello che stiamo facendo quaggiù è sbagliato. In realtà penso che stiamo commettendo un genocidio». Massey parla anche dell'uranio impoverito, del terrorismo e dell'odio anti-americano che così rischia di rafforzarsi. E il colonnello non apprezza. «Se ne andò sbattendo la porta, in quel momento realizzai che la mia carriera era finita». Da quel giorno Massey non prende parte alle missioni operative, non ha contatti con i colleghi. «Sono rimasto come agli arresti, chiuso in caserma, tutti i giorni prima del mio ritorno, quando ho deciso definitivamente di lasciare».

Guardandosi indietro, non trova solo rimorsi ma un cambiamento profondo. «Ero un ragazzo come gli altri, un soldato. Pensavo che andavamo a combattere un dittatore che minacciava il mondo libero con armi di distruzione di massa, che con queste armi avrebbe potuto colpire l'America, il Paese che amo. Quello che mi ha cambiato è stato uccidere dei civili. Oggi mi vergogno di quello che ho fatto. Mi vergogno del mio governo, del presidente Bush che ci ha raccontato delle armi di distruzione di massa. Ci ha mandato a uccidere e morire per una menzogna».

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