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Wangari Maathai, oggi il Nobel va all'altra Africa

«Un colpo preventivo per la pace». Oggi a Oslo viene assegnato il premio Nobel per la Pace alla fondatrice del Green Belt Movement del Kenya, un movimento popolare per difendere le foreste. «Abbiamo lavorato per anni per collegare ambiente, pace e democrazia. Ma sul piano culturale è una novità straordinaria», ci ha detto
13 dicembre 2004
Nicoletta Dentico
Fonte: Il Manifesto

Assediati come siamo dai rimbombi del pandemonio iracheno, a molti è sfuggito il senso e la portata del Nobel per la Pace assegnato per la prima volta alla africana Wangari Maathai, fondatrice del Green Belt Movement, l'organizzazione che dal 1977 lotta contro la desertificazione e per la tutela dell'ambiente in Africa. Africana, donna, ambientalista, piantatrice di alberi e seminatrice di partecipazione e democrazia, visionaria globale ed attivista locale, Wangari Maathai è simbolo poliedrico di una tecnologia tutta africana che fonde tradizione e creatività, intreccia coraggio e buon senso, combina lotta per la sopravvivenza e protagonismo popolare. I primi sette alberi piantati nel giardino di casa sono diventati l'idea e lo strumento attraverso i quali lei, e il Green Belt Movement, hanno piantato i semi della democrazia, dei diritti umani, della risoluzione dei conflitti: prima in Kenya, poi in moltissimi altri paesi del continente, in un'ottica panafricana che ha fatto scuola nella politica istituzionale solo molto più tardi.

Grazie al Premio Nobel per la Pace assegnatole scopriamo così l'altra Africa, quella che l'opinione pubblica non vede e non conosce, perché di essa non esiste narrativa ufficiale. L'Africa delle vittime del sistema. Quella della «massa critica che non accetta il verdetto che il mondo gli impone come un coltello alla gola», con le parole della stessa Wangari, e che nei sotterranei della cronaca internazionale, da tempo, prova a re-inventare il proprio destino produttivo e distributivo. Gli occhi non più puntati al cielo degli aiuti, ma rivolti finalmente verso la propria terra da trasformare.

Di questo sforzo quotidianamente eroico, le donne in Africa sono le principali protagoniste. E il Nobel per la pace a Wangari Maathai è il primo, tardivo riconoscimento a questo immenso e titanico mondo femminile che sorregge il continente africano. Arriva in un momento pesante, quanto a clima culturale e politico internazionale, in progressiva desertificazione, e per questo è più significativo.

Abbiamo intervistato Wangari Maathai a Nairobi nei giorni scorsi, alla vigilia della partenza per Olso, in occasione di un suo incontro informale con altre due combattive donne Nobel per la Pace - l'americana Jody Williams della Campagna Internazionale per la Messa al Bando delle Mine (premiata nel 1997) e l'iraniana Shirin Ebadi (2003). Tre storie e personalità diverse, ma determinate a porre insieme le fondamenta di un'agenda comune per la human security nei prossimi anni. La sicurezza umana, il vero nome della pace.

Professoressa Maathai, si aspettava questo riconoscimento internazionale?

No, questo Nobel è arrivato come un fulmine a ciel sereno, ed è stata una sorpresa dirompente. Bellissima. Soprattutto per il suo significato. La motivazione del Nobel segna un passaggio storico nello sforzo che da diversi anni il Comitato tenta di compiere per declinare ed estendere il significato della parola pace. Quest'anno, come recita la motivazione, la nuova dimensione aggiunta al concetto di pace passa per la difesa dell'ambiente: «La pace sulla terra dipende dalla nostra capacità di assicurare l'ambiente oggi in vita». Questo collegamento tra ambiente, pace e democrazia è stato per anni lo spirito con cui abbiamo disegnato e condotto le nostre attività, ma sul piano culturale si tratta di una novità straordinaria, soprattutto con l'aria che tira.

Un premio dedicato a lei ed al Green Belt Movement, ma forse anche all'Africa.

Sì, e i cittadini del mio paese hanno colto questa implicazione. Sono felicissimi del premio, mi fermano per la strada e le donne, soprattutto quelle giovani, mi abbracciano con le lacrime agli occhi. Provo una grande emozione di soddisfazione. Il premio del resto non va mai a una persona sola, per questo mi piace che la gente del mio paese lo abbia fatto proprio. Così deve essere. Nel contempo sento anche un' enorme responsabilità . Nel passato ho avuto l'opportunità di organizzare molte donne qui in Africa, la cui dura lotta quotidiana è stata per me fonte prima di ispirazione. Questo riconoscimento va a loro. Ognuna di noi che sale alla ribalta incoraggia tutte le altre, e promuove il ruolo delle donne nella società. Con la zappa in mano e gli alberi da piantare, molte di noi hanno scelto di innescare cambiamenti fondamentali nella vita di intere comunità. La situazione delle donne è ancora indicibilmente dura, ma di certo si aprono spazi che un tempo non esistevano. Spazi che, sia chiaro, non sono privilegi: sono diritti.

Si riferisce al suo ruolo quale membro del Parlamento keniano?

Ho trascorso molto tempo sul campo, a piantare alberi nelle numerose comunità del Green Belt Movement, e dopo trenta anni mi ritrovo in Parlamento - in nome di quello stesso impegno - a fare leggi. Oggi, in Kenya, al governo ci siamo noi della vecchia opposizione. Abbiamo sconfitto il dittatore che ha devastato il paese per oltre vent'anni: una battaglia non facile, ma la gente ha capito ed è stata dalla nostra parte, perché l'abbiamo coinvolta come non accadeva da decenni. Adesso non abbiamo più scuse, e dobbiamo attuare quanto promesso negli anni passati. Abbiamo creato aspettative che non possiamo deludere. Per me, questo riconoscimento del Nobel è anche una sfida alla leadership africana. Una sfida a inaugurare un altro stile, a guardare le cose nella loro complessità, per produrre il reale cambiamento. Non si può pensare di combinare l'obiettivo dello sviluppo con un governo che non offre spazi democratici. E non si può neppure guardare sempre «fuori da noi» per cercare soluzioni. Le soluzioni stanno dentro di noi, dobbiamo crederci, scegliere di essere pazienti e lavorare sodo. Come gli africani sanno fare.

E qual è, nel contesto della guerra preventiva, la ricetta africana per combinare ambiente e pace?

Dal mio punto di osservazione, nel sud del mondo, vedo impossibile la pace fintantoché una piccolissima fetta dell'umanità, in nome del potere, esercita avidamente il controllo sulle risorse del pianeta e una grandissima parte dell'umanità si prodiga in tutti i modi per la sopravvivenza, anche a costo di farsi la guerra per conquistarsi quel poco che resta. Finché permane questa aberrante asimmetria del controllo, avremo sempre situazioni di conflitti. Se le guerre del presente - sotto le mentite spoglie della lotta al terrorismo - servono ad assicurarsi le fonti energetiche, e le guerre del futuro saranno legate a doppio filo al controllo delle risorse naturali come la terra e l'acqua, la difesa dell'ambiente assume inevitabilmente i contorni preventivi dello sviluppo sostenibile, della promozione economica e sociale, della responsabilizzazione ed occupazione di intere comunità. Del loro progresso umano, nel segno della pace e della democrazia. Insomma, dovremo capire prima o poi che non possiamo vivere senza le altre specie viventi. Siamo in guerra contro la natura, abbiamo scelto di combatterla per controllare le risorse, ma questa scelta è un ineluttabile suicidio. Ci sono abbastanza risorse sulla terra per i bisogni di ciascuno, diceva Gandhi, non per la avidità di ciascuno. Dobbiamo prima di tutto riconoscere che questo ricorso alla violenza non è naturale. La violenza contro l'ambiente, contro le risorse del pianeta, la violenza contro l'Iraq o contro la popolazione dei territori occupati è una scelta precisa. Ma non l'unica scelta.

La zappa in mano si è trasformata nella più efficace forma di sfida al regime del dittatore Arap Moi in Kenya, quando la democrazia non era moda corrente per le strade di Nairobi.

La zappa è stata per noi lo strumento con cui aprire, nel piccolo, spazi di democrazia. E con quella zappa non abbiamo fatto sconti a nessuno, neppure a noi stessi. Abbiamo scoperto che partecipare significava mettersi in gioco, inaugurare nuovi stili e nuove speranze, lottare contro la corruzione e per i diritti umani a partire delle nostre piccole storie di villaggio, in una società dove le donne sono cittadine di seconda classe. Arrivare ad Arap Moi e al suo governo autocratico è stato quasi inevitabile.

Al ritorno da Olso, come vede la sua nuova vita di Premio Nobel?

Avrò un bel po' di lavoro in più da fare, e spero di cavarmela. Per il resto, dovrò dividermi tra il mio impegno fra le comunità, cui non voglio rinunciare, e quello politico, in veste di assistente del Ministro dell'Ambiente e parlamentare. Stiamo lavorando a una nuova legge in materia ambientale, le mie priorità sono la protezione delle foreste e della biodiversità, soprattutto per la appropriata gestione delle acque nel mio paese. Dopo anni di devastazione e privatizzazione dell'ambiente, occorre una diversa responsabilità su questa materia. Dovremo impegnarci a fondo. Infine, userò la nuova visibilità dovuta al Nobel per spiegare il legame profondo tra ambiente e pace. Non mi sembra che lo abbiano capito in molti, nei salotti buoni della politica internazionale.

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