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Mezzo secolo con le proprie gambe

A metà del guado

Con la nascita della repubblica del Ghana, nel 1957, si apriva la stagione post-colonialista. La guerra fredda, prima, e il nuovo ordine mondiale, poi, hanno mantenuto il continente in uno status di dipendenza. Ma l’Africa, oggi, è decisa a rispondere alle sfide, preservando la propria autonomia.
10 settembre 2007
Giampaolo Calchi Novati
Fonte: Nigrizia
Settembre 2008

Il 6 marzo 1957, la bandiera britannica veniva ammainata in Ghana, segnando l’inizio di una nuova Africa, quella post-colonialista. Quest’anno, il paese di Kwame N’Krumah festeggia il mezzo secolo della sua indipendenza, la prima nell’Africa subsahariana. È stata una fase storica carica di attese, speranze e sogni. Ma oggi, a 50 anni da quell’importante evento, come si mostra l’Africa? Disillusa? Il processo di liberazione è fallito? O le speranze di allora si sono tradotte in successi e fatti quotidiani?

Abbiamo chiesto al professor Giampaolo Calchi Novati, tra i più lucidi analisti del mondo africano, di attraversare questo mezzo secolo, per raccontarci cos’è rimasto delle attese di 50 anni fa.

I due aspetti più vistosi della “crisi africana” sono la povertà di massa e la guerra. Anche nella rappresentazione mediatica dell’Africa prevalgono le immagini della fame e della violenza, come se il continente fosse condannato all’impotenza a confronto delle opportunità dispensate dalla globalizzazione. Lo stato post-coloniale in Africa presenta i limiti del “quasi-stato”: usando la categorizzazione introdotta da Robert Jackson, una formazione priva degli strumenti che consentono al potere pubblico di controllare il territorio e applicare la legge. La guerra fredda, prima, e il nuovo ordine mondiale, dopo, hanno mantenuto l’Africa in uno status di dipendenza e inferiorità. L’“aiuto” diventa l’unica, ipotetica via di salvezza. La comunità internazionale ha a propria disposizione solo l’“intervento” per scongiurare scontri tribali, genocidi o minacce per la “sicurezza”.

Benché da qualche anno l’Africa registri, nel suo complesso, tassi di crescita di tutto rispetto, con medie del 5% e punte che ricordano il boom dei paesi asiatici, vaste porzioni della popolazione vivono con redditi così bassi da risultare del tutto insufficienti, non solo a usufruire dei servizi minimi e a investire per lo sviluppo del singolo, della famiglia o della nazione, ma anche a garantire la sopravvivenza fisica degli individui e la riproduzione dell’insieme sociale. La debolezza delle infrastrutture fa il resto.

Gli stati in Africa sono più vulnerabili che altrove alle malattie, alle calamità naturali, al degrado ambientale. I processi di urbanizzazione sono in aumento: chi può lascia i villaggi e la campagna alla ricerca di lavoro e consumi moderni, ma nelle città mancano impieghi confacenti e si riproducono condizioni di marginalità o esclusione a cui le attività “informali” non bastano a porre rimedio. Da lì, come un corollario obbligato, lo sbocco dell’emigrazione in direzione dell’Europa, attraversando mari o deserti: un atto di disperazione, più che di riscatto o promozione. Le voci positive sono circoscritte ai profitti del petrolio o alla vendita di materie prime tradizionali, come il ferro, il rame e l’uranio, o di minerali da new age, come il coltan, che tante avide attenzioni attira sull’Rd Congo.

A cinquant’anni dall’indipendenza, la posizione dell’Africa nell’economia internazionale è sempre quella fissata dalla divisione del lavoro di origine coloniale.

L’accesso al potere

Anche alla base dei conflitti c’è la debolezza dello stato. Per come è avvenuta la decolonizzazione, in Africa non hanno preso piede istituzioni politiche efficienti e accettate da tutti per governare l’accesso al potere, il cambiamento, un’equa distribuzione delle ricchezze. L’impostazione neo-patrimoniale permette ai gruppi al vertice dello stato di disporre in proprio dei beni, che dovrebbero essere di tutti. Le risorse materiali o simboliche – come è appunto il potere – vengono trasmesse per linee verticali. Il clientelismo beneficia l’appartenenza etnica o regionale, ostacolando l’insorgere di quelle solidarietà orizzontali, di tipo occupazionale o professionale, che costituiscono la trama indispensabile della società civile.

Poiché le risorse sono scarse, il sistema è intrinsecamente instabile. In mancanza di regole certe e condivise, la soluzione corrente è l’uso della violenza, sia da parte dei poteri istituzionali, sia degli oppositori. È così che in Africa, negli anni Ottanta e Novanta, la guerra ha continuato, o sostituito in toto, la politica: uno stato di belligeranza endemica, che ha significato il collasso dello stato (Somalia, Sierra Leone, Liberia, ecc.), il caos e l’anarchia, che hanno una sembianza di “razionalità”, se possono incrementare traffici lucrativi, ma che, in certi casi, hanno sovvertito l’ordinamento politico, con esiti apparentemente virtuosi.

Dopo aver insistito sull’omogeneità, nel timore di aprire varchi pericolosi per la nazione nascente («nei riguardi del potere coloniale, siamo tutti have-nots, “non abbienti”», diceva Julius Nyerere, primo presidente tanzaniano), il pensiero politico dominante ha dovuto riconoscere la complessità e varietà della società africana.

In coincidenza con la fine del dualismo Est-Ovest, l’Africa è stata, in effetti, teatro di una “rivoluzione” negli assetti interni e nelle relazioni internazionali. Non si può spiegare tutto con le influenze esterne, che pure ci sono state: gli eventi dell’Europa dell’Est, le condizioni imposte dai donatori, il monito del presidente francese Mitterrand alla Conferenza della francofonia, a La Baule, nel 1990...

La crisi di rappresentatività dei governi in carica ha avuto origini essenzialmente interne. Prendendo atto delle divisioni, è cominciata la liberalizzazione nelle due varianti – politica ed economica – che non sono necessariamente compatibili fra loro. Le autocrazie militari e i regimi dei presidenti a vita sono stati scossi in profondità. Dopo gli esami di coscienza collettivi, sotto forma di “conferenze nazionali”, coinvolgendo una miriade di enti intermedi, il partito unico ha perso ogni ragion d’essere. In molti paesi africani sono state varate costituzioni che sancivano il passaggio al pluralismo politico e, quasi ovunque, si sono tenute elezioni con più candidati e più partiti.

Ma la “democratizzazione” si è esaurita, spesso, all’interno di un ceto politico ristretto, che si è perpetuato scindendosi, per convenienza, fra governo e finta opposizione. In Benin e Madagascar, l’ex dittatore, sconfitto nelle prime elezioni libere, è ritornato al potere sulle ali del voto popolare nelle elezioni successive. Nostalgia del passato, con la sua illusione di sicurezza? Incapacità dei governi di realizzare politiche alternative?

Le nuove guerre

Per amaro paradosso, la transizione in Africa è stata innovativa, soprattutto quando è avvenuta a seguito di una guerra. Le guerre in Africa rientrano nel novero delle “nuove guerre” studiate e tipizzate da Mary Kaldor: guerre infrastatuali, guerre civili o tribali, che non varcano i confini e che pongono l’una contro l’altra due diverse concezioni di governance. I gruppi dirigenti, che avevano gestito impunemente, a fini di autoconservazione, un potere che unificava la politica e l’economia, sono stati estromessi dagli esponenti di una classe in ascesa, che mostra di credere nei dettami in auge nel sistema globale – una certa dose di legalità, le privatizzazioni... –, accettando di integrarsi senza più remore o riserve mentali nel mercato. Per la loro stessa natura, si tratta di élites che non hanno rapporti organici con il colonialismo, l’anticolonialismo o il neocolonialismo. I loro legami di dipendenza non passano per il buon volere dell’ex potenza metropolitana. Sono libere di cercarsi nuove relazioni e nuovi protettori. Gli Stati Uniti, la sola superpotenza rimasta, sono il termine di riferimento più immediato. D’altronde, gli Usa sono stati molto più pronti della Francia – e, in genere, degli europei – a cambiare alleato, lasciando cadere i leader, come Mobutu, che avevano ormai consumato fino in fondo la loro funzione, e hanno favorito l’affermazione di forze oggettivamente più coerenti con lo sviluppo e la democrazia, che, almeno formalmente, caratterizzano l’ordine post-bipolare.

In prospettiva, si può risalire al trionfo nel 1986 di Museveni e del suo movimento nella guerra civile in Uganda. Nel 1991 furono rovesciati i governi militari in Somalia ed Etiopia. L’Eritrea trovò l’indipendenza che non era riuscita a conseguire nella pseudo-decolonizzazione dell’Africa orientale italiana. A metà degli anni Novanta, lo stesso marchio contrassegnò la conquista del potere in Ruanda da parte di un partito militarizzato, formato dalla minoranza tutsi, che aveva vissuto in esilio nei paesi vicini. Il cambio di regime non impedì il massacro dei tutsi residenti a opera delle milizie del governo hutu morente.

Il clou dell’intero processo doveva essere il Congo-Zaire: grazie all’assistenza delle forze armate di Uganda e Ruanda, la marcia di Laurent-Désiré Kabila si concluse vittoriosamente a Kinshasa, ma il Congo si rivelò una posta difficile da gestire. La compattezza e la stessa legittimità degli uomini nuovi, saliti al potere nella regione dei Grandi Laghi e nel Corno d’Africa, furono messe a dura prova dalla realtà. Non bastò l’accreditamento ufficiale del presidente americano Clinton durante il suo viaggio africano del 1998.

La speranza di un “rinascimento” dell’Africa, affidata a governi democratici solo di nome, che dovevano troppo alla guerra per credere nella politica, era destinata ad andare incontro a delusioni. Poco dopo, Etiopia ed Eritrea ingaggiarono una guerra per una disputa di confine. La volontà di Kabila di sottrarsi alla stretta di alleati divenuti scomodi ed esigenti scatenò una guerra con la partecipazione degli eserciti di una decina di stati.

Negli ultimi anni, tanti conflitti sono finiti con un accordo di pace, ma altri conflitti si sono dimostrati impervi a ogni soluzione. Più in generale, la violenza è praticata ancora come forma di politica. Anche la Costa d’Avorio – un paese con una lunga storia di stabilità alle spalle – ha conosciuto colpi di stato e guerra civile. Il Sudan e il Corno d’Africa sono investiti dai contraccolpi della “mediorientalizzazione” dell’Africa Centro-Orientale. Secondo i suoi ideologi, la “guerra al terrorismo”, voluta da George W. Bush, può essere vinta solo partendo dall’Africa.

Nonostante tutto, l’Africa è decisa a rispondere alle sfide interne e internazionali, preservando la propria autonomia. Il tentativo di superare le situazioni di illegalità, violazione dei diritti umani e conflitto, e di evitare, nello stesso tempo, le pressioni o, peggio, le interferenze della Grande Politica, si è tradotto nella fondazione di un’organizzazione continentale, l’Unione africana, che è di per sé un segno dei tempi nuovi. L’idea è partita da Gheddafi ed è stata attuata a Durban nel 2002. A differenza dell’Oua, che risentiva del clima particolare della decolonizzazione, l’Unione africana è dotata di poteri adeguati: sono il Sudafrica e la Nigeria, in attesa che l’Rd Congo esca dalla sua precarietà, a svolgere il ruolo che spetta alle potenze regionali.

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Viviamo in un tempo dove gli scritti e i discorsi politici sono basati sulla difesa di posizioni indifendibili. Il perdurare dell’occupazione britannica in India, l’eliminazione e la deportazione dei dissidenti russi, l’utilizzo delle bombe atomiche contro il Giappone possono essere difesi, ma solo con argomenti che sono troppo brutali per essere ammessi apertamente, e che non coincidono con i valori professati dai partiti politici. Per questo motivo il linguaggio politico è farcito di eufemismi, di frasi interrogative e di vaghezza fumosa.

George Orwell - Tratto da “La politica e la lingua inglese” (1946)

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