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Scendere in piazza a festeggiare per una partita di calcio è anche, a volte, uno stretto sentiero che si deve percorrere, tutti insieme, per la sopravvivenza ad un quotidiano che insegue la speranza...

La Coppa dell’identità nazionale

Anche se è collocata in Iraq, questa notizia è una notizia di pace. Una "buona nuova" e un segno che aldilà delle violenze, tra il popolo iracheno la voglia di vita "normale" esiste e si manifesta quando può.
E magari concretizzandosi grazie a una Coppa d'Asia vinta ai campionati di calcio del Medio Oriente...
2 agosto 2007
Andrea Misuri

La favola era iniziata cinque settimane prima ed ha avuto una conclusione a lieto fine, nello stadio “Gelora Bung Karno” di Giakarta, con i calciatori della nazionale irachena che alzano la Coppa d’Asia.
La stampa internazionale ha parlato di un Davide senza fionda che ha sconfitto Golia.
Atleti sciiti, sunniti, curdi e turcomanni si sono ritrovati a giocare insieme, decidendo di fare delle iniziali divisioni etniche un punto di forza dello spogliatoio.
Una squadra inferiore per tasso tecnico dei giocatori, costretta ad allenarsi ad Amman in Giordania per sfuggire alla guerra civile che va a colpire anche gli sportivi, considerati un pericolo nella società idealizzata dai fondamentalisti. Questi calciatori da tempo sono emigrati negli Emirati Arabi, in Libia, in Iran, nei Paesi dei petrodollari. Una squadra con pochi soldi. Per gli spostamenti aerei, per esempio, utilizza i voli più economici. Per le camere d’albergo prenota dopo i risultati sul campo, così che a Kuala Lumpur, dopo la vittoria sul Vietnam, si ritrova senza camere, con i giocatori costretti a bivaccare a lungo nella hall dell’hotel. Il passaporto iracheno attira l’attenzione degli agenti dell’immigrazione. Come a Bangkok, il mese scorso, con lunghe ore di attesa all’aeroporto. Eppure batte formazioni ben più affermate e ricche. Ultima in ordine di tempo, in una finale mozzafiato, quella dell’Arabia Saudita, i “figli del deserto”, cinque su sei le finali giocate in Coppa d’Asia.

Meno di due mesi prima, Jorvan Vieira, allenatore brasiliano giramondo - come tanti suoi connazionali – aveva sostituito Akram Ahmed Salman, eliminato nel gennaio scorso dalla Gulf Cup.
Vieira racconta di aver trovato giocatori divisi in gruppi, per etnie di appartenenza, demotivati. Il suo risultato più importante è stato riuscire a farli comunicare tra loro, a farli sentire protagonisti di un progetto.
La Coppa d’Asia si disputa tra Thailandia, Vietnam, Indonesia e Malesia. L’Iraq è inserito nel Girone A, che gioca a Bangkok.
Lo vince, grazie ad uno strepitoso 3-1 sulla forte Australia. Ai quarti di finale incontra il Vietnam. Nelle semifinali tocca alla Corea del Sud tornare a casa. 4-3 ai rigori, con il ventitreenne portiere Noor Sabri eroe della giornata. Due rigori parati e una bella dichiarazione dopo la partita, parlando della finale da giocare di lì a pochi giorni: ”Una cosa modesta che noi possiamo fare per il nostro popolo”.
A quel punto è esplosa la gioia degli iracheni, che hanno invaso le strade di Baghdad, fra spari di kalashnikov in aria, bandiere al vento e caroselli di auto, come i tifosi di calcio di qualsiasi altra città del mondo. Ma Baghdad è diversa dalle altre capitali. Alle 18,30 la prima autobomba è esplosa nel quartiere occidentale di al Mansour. Poco dopo, una seconda nel quartiere di Ghadeer. 55 morti e 150 feriti il prezzo pagato per un pomeriggio che doveva essere di gioia.
Per la finale, a Baghdad era stato imposto il coprifuoco. Tutto il Paese davanti alla televisione.
Sul campo, la squadra, la fascia nera al braccio in segno di lutto per i morti negli attentati, cerca con caparbietà il risultato che sembra impossibile. E’ il capitano Younis Mahmoud a segnare di testa. E’ il 71° minuto. Anche lui emigrante del pallone, in Qatar. I “leoni dei due fiumi”, così vengono chiamati i calciatori iracheni, hanno vinto una Coppa che passerà alla storia.
Ancora una volta la voglia di gioire, di dimenticare i dolori quotidiani, spinge i giovani nelle strade della capitale. Come a Erbil, Najaf, Kirkuk.
I ragazzi si sono tuffati nel Tigri e nell’Eufrate, come nelle foto in bianco e nero del giugno del 1970 si vedevano i loro coetanei romani tuffarsi nella Fontana di Trevi per festeggiare il 4-3 dell’Italia sulla Germania.
Si sono tinti le facce dei colori della nazionale, attorcigliati nella bandiera, come i tanti italiani che così salutarono un anno fa la vittoria azzurra a Berlino.
Al di là delle leggi del coprifuoco e di quelle imposte dalla paura dei fondamentalisti.
Scendere in piazza a festeggiare per una partita di calcio è anche, a volte, uno stretto sentiero che si deve percorrere, tutti insieme, per la sopravvivenza ad un quotidiano che insegue la speranza, come il miraggio che si allontana ogni volta che stiamo per raggiungerlo.

Per un giorno, la vittoria dello sport, ma anche di quello spirito nazionale iracheno che i politologi occidentali danno ormai per disperso. Già ci si domanda se è davvero inevitabile il destino che attende questo Paese. La spartizione del territorio per etnie, riproponendo schemi già usati dagli esperti per i popoli della a noi vicina Jugoslavia.
Jalal Talabani ha parlato di “segnale positivo per la ricomposizione dei contrasti politici”, il Primo Ministro Al Maliki del “trionfo dell’impossibile”. Seppur lo spazio di una sera, il calcio è arrivato dove le potenze occidentali stanno fallendo.

D’altro canto va ricordato che in Iraq si gioca un campionato di calcio nazionale che, nonostante il pericolo di attentati per il solo fatto di raggruppare spettatori intorno ad un campo di calcio, e benché ridotto ad un numero esiguo di squadre, è stato seguito con grande interesse dai tifosi.
E’ terminato il 6 luglio scorso. Lo ha vinto la squadra di Erbil, capitale del Kurdistan. Nel Gruppo B, invece, all’ultimo posto si è piazzata la squadra per la quale fanno il tifo tanti miei amici, Sirwan Sulimaniya, l’altra grande città curda.

Vieira, in questi giorni, è un altro degli eroi di questa avventura: “Ho imparato che gli iracheni sono gente fantastica, animata da una forza straordinaria, una forza perfino superiore ai loro guai”. E ancora: ”Se i calciatori tornassero a Baghdad sarebbero uccisi. Tre di loro hanno perso parenti negli ultimi due mesi. Il fisioterapista è stato ammazzato da una bomba il mese scorso. Ha lasciato la moglie e quattro figli piccoli”.
Vieira non è mai stato a Baghdad, e neppure ora vi andrà. Va ad allenare la Corea del Sud, continuando la sua vita di allenatore giramondo.
Il suo voltar pagina è la metafora di questo Paese. Gli attentati sono già ripresi nelle città e sulle strade di comunicazione irachene. Nei quartieri di Baghdad come di Kirkuk è rischioso uscire dal dedalo di strade che racchiudono la popolazione appartenente alla stessa etnia. Confini invisibili eppur ben precisi obbligano la massima cautela negli spostamenti. La paura e l’odio sono sentimenti radicati, che isolano ciascuno fra mura amiche o all’inverso lo obbligano a lasciare la propria casa per trovare rifugio in un altro quartiere o in un’altra città.
Ciononostante, il dubbio che l’Iraq forse potrà sfuggire ad un futuro di etnie che si spartiscono il territorio sarà d’ora in poi più difficile a morire.

La notte del 9 luglio dell’anno scorso, quando l’Italia diventò Campione del Mondo, Nadhim mi telefonò per dirmi che a Kirkuk stavano sparando con i kalashnikov in aria, in segno di festa per la vittoria italiana sui nostri vicini transalpini. Mi fa piacere pensare di ricambiare con un simbolico brindisi di augurio non soltanto per la vittoria in Coppa d’Asia, quanto per il futuro di un popolo animato da una forza straordinaria.

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