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Commento al paragrafo sulla politica estera e di pace del Programma elettorale dell’Unione

Apprezzamento per le linee di politica internazionale. Critica del modello di difesa unicamente militare.

Oggi ho scaricato il programma dell’Unione "Per il bene dell’Italia" (da http://www.romanoprodi.it), di 281 pagine e ho letto accuratamente il capitolo Noi e gli altri (pp. 95-109), sulla politica estera.

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L’apertura con la «vocazione di pace» e l’art. 11 è sicuramente convincente. Così è anche la scelta del multilateralismo, della «politica preventiva di pace» per «prosciugare i bacini dell’odio», e della «legalità internazionale».
Altri impegni sicuramente positivi, necessari anche per chiarire gravi ambiguità della politica italiana nei conflitti degli anni recenti, sono i seguenti: il richiamo dei fini dell’Onu, la volontà di rafforzare le organizzazioni internazionali per dettato costituzionale, la ripetizione della forte vocazione dell’Italia alla pace e dell’art. 11. Da ciò l’impegno alla rigorosa applicazione del ripudio della guerra, che, oltre all’ovvio principio di autodifesa, prevede e consente «l’uso della forza soltanto in quanto misura di sicurezza collettiva, come previsto dal capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, secondo criteri che distinguono la funzione di polizia internazionale dalla guerra». È bene mettere in evidenza questa distinzione essenziale, di metodi e di fini.

Il programma prevede poi l’impegno per l’attuazione dell’art. 47 (erroneamente indicato come art. 30! Ma perché un tale errore?) della Carta dell’Onu, che esige la terzietà del comando delle forze dell’Onu; per il rafforzamento dei poteri dell’Assemblea Generale e del ruolo del Tribunale Penale Internazionale; per «atti concreti di disarmo delle potenze nucleari così da esercitare una più efficace pressione su quegli Stati che hanno appena realizzato o aspirano a realizzare le loro ambizioni nucleari» (buona presa di posizione sulla crisi Usa-Iran) e per il rispetto del Trattato di non proliferazione (violato anzitutto dai vecchi stati nucleari).
È previsto un lavoro per «riequilibrare i rapporti transatlantici», nel quadro di un rafforzamento del sistema e dell’autonomia delle Nazioni Unite. L’Unione vuole «contrastare una riforma del Consiglio di Sicurezza che ne rafforzasse la natura oligarchica», e vuole ottenere un seggio comune dell’Europa nel Consiglio di Sicurezza, anticipandolo con uno stretto coordinamento dei paesi UE. Vuole «limitare e attenuare il potere di veto, nella prospettiva della sua eliminazione». Vuole stare coi paesi che intendono «contrastare quei membri permanenti che preferiscono un’organizzazione [dell’Onu] soggetta alla loro volontà».

Nella riforma dell’Onu, il programma vuole assecondare le richieste degli Stati del Sud del mondo «tendenti a rafforzare il ruolo economico-sociale del sistema delle Nazioni Unite» e per questo propone «la costituzione di un Consiglio di Sicurezza economico-sociale» che indirizzi le organizzazioni economiche internazionali e il Wto entro il sistema delle Nazioni Unite. Propone poi anche un Consiglio per i diritti umani, che garantisca il rispetto delle Convenzioni Onu in materia. Tutti questi punti del programma sembrano ottimi.

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Sulla strategia per combattere il terrorismo, il programma dell’Unione indica linee tutte decisamente alternative (come già sull’Onu e la sua riforma) ai metodi e ai fini del governo Usa, mai nominato. Sui diversi piani politico, sociale, economico, si deve prosciugare il serbatoio di adepti «dando risposte anche ai sentimenti di umiliazione e di emarginazione», pur nella ripulsa morale e politica dei metodi terroristici. Una strategia condivisa deve prevedere collaborazione nell’intelligence, «controllo sui flussi finanziari sospetti e lotta ai paradisi fiscali», tutto «nel pieno rispetto dei principi democratici e dello stato di diritto e dei diritti delle persone» (principi e diritti che, come si sa, sono oggi sacrificati all’ideologia securitaria, con riduzione e danno della democrazia).

Anche sull’Iraq, dopo aver dichiarato «la guerra e l’occupazione un grave errore» - ma poco oltre sono definite più gravemente «violazione della legalità internazionale» –, il programma indica linee divergenti e opposte rispetto a quelle degli Usa, sempre non nominati. La guerra ha complicato il problema della sicurezza, ha offerto al terrorismo nuove basi e nuovi pretesti, ha indebolito l’Onu e il principio di una governance multilaterale del mondo. Occorre perciò dare «un forte segnale di discontinuità» sia al popolo iracheno, sia alla comunità internazionale, restituire autorevolezza alle Nazioni Unite, internazionalizzare la gestione della crisi, con una «netta ed evidente inversione di rotta», «con la presenza di un’autorità internazionale (Onu) che superi l’attuale presenza militare». Perciò, se vinceranno le elezioni, i partiti dell’Unione dicono: «immediatamente proporremo al Parlamento italiano il conseguente rientro dei nostri soldati nei tempi tecnicamente necessari, definendone, anche in consultazione con le autorità irachene, al governo dopo le elezioni legislative del dicembre 2005, le modalità affinché le condizioni di sicurezza siano garantite». Il rientro delle truppe sarà accompagnato da una forte iniziativa politica che arrivi a «consegnare agli iracheni la piena sovranità sul loro Paese».

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Un paragrafo interessante, anche questo da giudicare sostanzialmente positivo, prospetta la centralità del Mediterraneo, da riconoscere con una politica europea sugli assi culturale, economico, politico, tale da «spianare la strada ad una vera alleanza di civiltà». L’assemblea parlamentare euro-mediterranea dovrà assumere responsabilità per un Mediterraneo area di pace e democrazia, per disarmo e denuclearizzazione, per la soluzione dei contenziosi storici nell’area. Per questi scopi, l’ Unione propone per il 2007 una Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione Mediterranea, e l’istituzione di una Banca di Sviluppo euro-mediterranea. «L’Italia dovrebbe in ogni caso dichiararsi disponibile ad una iniziativa unilaterale (…) con il supporto dei Paesi della sponda sud (…), ispirandosi alla logica di un vero partenariato paritario». Inoltre, sarà necessario sostenere il dialogo tra le culture e reti della società civile (municipalità, università, organizzazioni femminili).

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Anche il paragrafo sulla cooperazione allo sviluppo mi sembra positivo. Esso denuncia la tendenza dell’Europa, dopo gli anni ’80, a spostare risorse dall’aiuto ai paesi sottosviluppati (APS) alla sicurezza e all’emergenza, con una logica subalterna alla politica estera dei singoli paesi. Importante l’affermazione che «l’impiego delle forze armate non può essere mai identificato con l’intervento umanitario o di cooperazione, che deve essere condotto con forze civili, anche per non riproporre vecchie politiche di potenza e di intervento unilaterale, che non aiutano la causa della pace né quella dello sviluppo». L’ultima legge finanziaria ha ridotto il contributo italiano all’APS allo 0,1% del PIL, rinunciando ad una seria politica di cooperazione. Si dovrà opporsi «alle scelte unilaterali, alla privatizzazione ed all’uso non sostenibile delle risorse e di beni comuni (dall’acqua alle fonti energetiche), così come alla cancellazione di diritti fondamentali (salute, istruzione, lavoro...) essenziali per l'umanità, alla tragica realtà dei conflitti, alle nuove forme di povertà». Per uscire dalla crisi della cooperazione la politica dovrà interagire con «le tante forme di impegno che hanno fatto emergere da Seattle a Mumbay, fino a Porto Alegre e a Firenze, grandi movimenti di solidarietà e di critica alle politiche neo-liberiste». (Andranno i no-global al governo? Ohibò…)

Le politiche commerciali dovranno essere «finalizzate alla promozione della giustizia economica». La cooperazione potrà «interagire con la politica estera», anzi «la cooperazione diviene elemento di cerniera tra la politica interna e la politica estera». Ad essa dovrà provvedere un’autorità politica (oggi mancante) chiaramente definita e con piena responsabilità, per avvicinarci agli altri paesi europei raggiungendo l’obiettivo dello 0,7% del PIL.

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L’ultimo paragrafo su Le nuove politiche di difesa rappresenta una caduta di livello, in contraddizione con le aperture dei precedenti.
Pace nel mondo, unità, sovranità nazionali, sono i valori di riferimento. La prossima legislatura, su sicurezza e difesa (parole scritte con la maiuscola!) deve avere «un carattere costituente» (espressione discutibile, usata nel ’94 dalla maggioranza di destra). Essa lavorerà su difesa europea, cooperazione tra UE e Usa, riorganizzazione di un nuovo e moderno sistema di difesa.
Il contesto europeo – dice il testo - farà i più significativi passi avanti, dopo la moneta unica, nel campo della difesa. «Dobbiamo puntare ad una difesa europea autonoma, pur se sempre in rapporto con l’Alleanza Atlantica, che sta profondamente cambiando». Il nostro paese dovrà essere saldamente inserito come protagonista nelle politiche di integrazione europea «nonché come alleato leale degli Stati Uniti». Qui gli Usa sono apertamente e favorevolmente nominati. Chi stende questa parte del documento pensa bene «che non sia possibile un impegno delle Forze Armate italiane fuori dai confini nazionali senza un mandato diretto e preciso delle Nazioni Unite e della UE, e quindi nel rispetto dell’articolo XI della Costituzione italiana».

La nuova rilevanza geo-straegica è nel sud del Mediterraneo (tema già presente nel Nuovo Modello di Difesa, 1991, che vedeva nell’islàm il nuovo nemico, ostacolo al prelievo per noi privilegiato delle risorse petrolifere), perciò è necessaria una ridislocazione di enti e reparti nel meridione italiano, da dove viene la «quasi totalità del reclutamento dei volontari».
Sarà ridefinito il quadro delle servitù militari che gravano sul territorio italiano, «con particolare riferimento alle basi nucleari». La presenza di 90 bombe nucleari Usa nelle basi (Aviano e Ghedi) in territorio italiano compare solo come problema di servitù militari, non come gravissima illegalità che dovrebbe invece essere rimossa al più presto.
Quanto alle risorse umane, la riforma della leva (cioè la sua sospensione) obbliga ad investire nella formazione, addestramento, tutela della salute, previdenza, alloggi, riforma della rappresentanza con un reale potere di contrattazione. Insomma, «più responsabilità ma anche più democrazia».
«L'Unione si impegna, nell'ambito della cooperazione europea, a sostenere una politica che consenta la riduzione delle spese per armamenti».
Questa componente militare del programma di politica estera riflette in buona parte la filosofia di un intervento di Minniti (in http://www.vita.it/attach/61273.pdf), con la sola differenza di questo cenno alla riduzione delle spese, che invece Minniti propone in aumento. Egli, esperto Ds in questa materia (ministro in pectore della difesa?), afferma irrinunciabile la forza militare e apprezza il professionismo militare. Sia pure con atteggiamento moderato, non aggressivo, egli rappresenta una concezione della difesa che non esce dalla gabbia dell’identificazione tra difesa e mezzi militari, smentita anche dalla Corte Costituzionale (sent. 164/85). Questo blocco culturale indica un grave ritardo nella consapevolezza della condizione estrema del mondo. Il quale è gettato, dopo il crimine di Hiroshima e la folle amplificazione del ricatto atomico nei decenni, nella potenziale distruzione totale. Con tutta evidenza, ciò impegna il pensiero e la volontà politica ad uscire dal modello militare di difesa, dal pensiero unico del monopolio militare, che riduce le possibilità difensive di un popolo e aumenta a dismisura il pericolo. Si esce da quel modello ricuperando la memoria di casi storici significativi, occultati dal pensiero e dagli interessi dominanti, di lotte di difesa nonviolente (v. Difesa senza guerra, in http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti).

Soltanto a p. 90 del Programma dell’Unione si trova un cenno ai Corpi Civili di Pace, non qui sulla politica di difesa, che rimane interna alla angusta prospettiva armata. È proprio questa prospettiva che una politica di sinistra, di progresso umano, di valori umanistici, di diritti umani prevalenti sugli interessi, deve sapere trascendere, per salvare la propria intima coerenza e credibilità. Possono essere necessari decenni o secoli, ma una responsabile cultura politica deve sapere, volere, indicare, progettare, la liberazione dai metodi armati. Gli uomini un giorno si vergogneranno di avere fabbricato le armi, disse Ernesto Balducci. Un pensiero politico umanistico si vergogna oggi, subito. Certo, non ci sono oggi le condizioni socio-culturali e morali, purtroppo, per attuare in questa società la liberazione dall’esercito, e per limitare la presenza di armi leggere e non letali alla sola polizia, realisticamente. Ma è possibile e doveroso, se si comprende lo stato del mondo, volere e realizzare se non ancora il completo disarmo, certamente il transarmo, cioè la trasformazione degli armamenti attuali, da aggressivi e pesantemente distruttivi (e infinitamente costosi), come sono oggi strutturalmente, in armamenti strettamente difensivi, strutturalmente incapaci di aggredire.
Ciò, come sa la scienza evoluta del conflitto, riduce la minaccia sull’avversario, perciò la sua paura e di conseguenza la sua presunta necessità di fornirsi di mezzi violenti per controminacciare, col felice risultato di fare calare la minaccia e il pericolo complessivi. Ciò è un atto di saggia e realistica difesa. Un coerente e crescente transarmo è un passo possibile e responsabile sulla via del disarmo. Il quale non è un’utopia (nel senso negativo, di fuga dalla realtà) ma lucido realismo. L’utopia folle, nel mondo di oggi, è la permanenza nel mito assurdo della sicurezza riposta nelle armi, che minacciano anzitutto chi le possiede e vi si affida.

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