Birmania, il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ancora agli arresti domiciliari
Aung San Suu Kyi resterà agli arresti domiciliari per altri sei mesi. Il governo della giunta militare della Birmania (o Myanmar) ha confermato che la «Pasionaria della Birmania», leader dell'opposizione della Lega Nazionale per la Democrazia e premio Nobel per la pace nel 1991, non tornerà in libertà almeno per altri sei mesi. «Solo sei mesi, non un anno», ha detto il ministro dell'Informazione Kyaw Hsan. In totale, Suu Kyi, 60 anni, premio Nobel per la pace, è stata privata della libertà - in prigione o agli arresti domiciliari - dieci degli ultimi sedici anni. Il suo ultimo arresto risale al 30 maggio 2003.
Suu Kyi e il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia, hanno ottenuto l’82 per cento dei seggi alle elezioni del 1990 (392 seggi su 485) ma i generali al potere si rifiutano di rispettare la volontà della nazione e continuano a governare la Birmania con repressioni e violenze. Da allora, Aung San Suu Kyi e i militanti della sua Ldn (costretti all’esilio) non hanno smesso di lottare, né di essere repressi e perseguitati dalla dittatura.
A tutt’oggi nel paese del Sud Est asiatico ci sono 1300 prigionieri politici e più bambini soldato di qualsiasi altro paese sulla terra, la spesa sanitaria è la più bassa al mondo e gli stupri sono usati come arma di guerra. In Birmani inoltre i lavori forzati vengono usati sistematicamente e l’organizzazione internazionale del lavoro (Oil) li ha più volte denunciati come «un crimine contro l’umanità».
Ma dalla Birmania non arrivano solo cattive notizie. La prima riguarda il Consiglio di Sicurezza dell’Onu che per la prima volta affronterà, in qualche modo, la questione birmana. Nei giorni scorsi infatti gli Stati Uniti hanno ottenuto un briefing a porte chiuse proprio in sede di Consiglio di Sicurezza. Da tempo gli esuli politici birmani (sostenuti da organizzazioni per i diritti umani come Amnesty international, da sindacati come la Cisl, da Ong e rappresentanti dei movimenti e della società civile) chiedono che il Consiglio di sicurezza approvi una risoluzione che obblighi il regime militare a lavorare con il Segretariato Generale dell’Onu per la messa a punto di un piano nazionale di riconciliazione, per far sì che gli aiuti umanitari possano liberamente e senza condizioni ed infine per ottenere la liberazione immediata di Aung San Suu Kyi.
La seconda notizia positiva riguarda invece il gruppo petrolifero francese Total (che ha numerosi stabilimenti in Birmania) e che è stato più volte accusato di utilizzare nel paese il lavoro forzato (come denunciato anche in un rapporto della Confédération Internationale des Syndicats Libres che raggruppa i sindacati dei lavoratori di tutto il mondo) in particolare nel cantiere per la costruzione di un gasdotto a Yadana. La Total ha deciso di costituire un fondo di 5,2 milioni di euro per gli indennizzi. Un piccolo passo certo anche perché l’azienda petrolifera in realtà non ha fatto un vero e proprio mea culpa ma spera semplicemente di mettere un termine all'azione legale intentagli in Francia dall'associazione Sherpa che rappresenta un gruppo di birmani che affermano di essere stati sequestrati all'esercito per lavorare per Total senza remunerazione. I primi ad essere indennizzati saranno 8 persone a cui verranno dati 10.000 euro ciascuno.
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