POLITICA

Stand-by, novecento

Secolo delle grandi narrazioni. Dei grandi sogni di mutamento sociale. Di svolte e rivoluzioni. Di eroi e di movimenti. Cioè di profezie incarnate nella politica.
Il Novecento così vicino eppure così lontano.
Mario Tronti

Dire oggi politica e profezia è come richiamare la politica a una tensione profetica e quindi, più che descrivere, chiedere, domandare qualcosa. Non ci troviamo di fronte a un fatto, bensì a un bisogno sentito ma anche contestato. La mia impressione, infatti, è che questo non sia proprio un tempo di profeti.

Solo il profeta si rivolge senza compiacenze al re e al popolo e ricorda loro l’etica.
E. Levinas
Ci troviamo di fronte avvenimenti più che eventi e non sembra di scorgere segni dei tempi, ma piuttosto segnali di momenti. Ci è stato dato di vivere una storia minore, perché la voce profetica di oggi si alza dopo quella che è stata chiamata la fine delle grandi narrazioni.
Questo cosiddetto post moderno, armato o disarmato dal pensiero debole, è un tempo fondamentalmente non solo senza profeti ma un tempo anti-profeti.
Un tempo minore, insomma, in cui anche la guerra, che sappiamo a misura di tutte le cose umane, sembra acquisire una dimensione minore: quello che scorgiamo è un’enorme, immane sproporzione tra l’apparato tecnico investito nella guerra e i mondi abbandonati e diseredati in cui la guerra si esercita.

Starnuti e mutamenti
Vorrei che ci liberassimo da questa un po’ ridicola enfasi, per cui ogni starnuto della storia si trasforma in un mutamento d’epoca. Invece, poiché non accade poi fondamentalmente nulla, il “nulla sarà come prima” viene ripetuto come una sorta di consolazione, per sopravvivere, a volte anche a livello di pensiero. Anche quando un novum irrompe, tutti gli avvenimenti assumono l’aspetto di messaggi che spesso si confondono con l’avvenimento stesso. L’evento mediatico è un avvenimento sempre al disotto della storia stessa: pensiamo all’undici settembre e ci ritorna l’immagine dell’aereo che si infila nella torre, dimenticando che la parte veramente reale – più dell’undici settembre – è quella conseguita all’episodio, il ritorno in grande della guerra, in Afghanistan, in Iraq e così via. Pensiamo alla caduta del muro di Berlino e ci ritorna l’immagine del popolo festante, dimenticando il crollo dell’Unione Sovietica che ne è conseguito.
Insomma, oggi l’immaginario produce falsa conoscenza, esattamente come una volta faceva l’ideologico. L’immaginario non è profetico ma il suo contrario, perché l’immaginario nasconde non vede. L’immaginario oggi è il politico e il politico si riduce all’immaginario, dunque anche il politico rinuncia alla profezia, non svela ma cela, non rivela ma nasconde.

Una pausa nella storia
Invece la profezia è legata all’evento vero, al passaggio di crisi reale, alla grande svolta storica, la profezia è politica incarnata nella storia; senza incarnazione nella storia non può esserci pensiero profetico. La parola e la visione possono vivere solo nel corpo dell’esistenza storica.
Sono molto sensibile al tema cosiddetto della fine della storia, serio anche se sono futili gli interpreti. A volte accade che un tema serio venga evocato da persone non serie (il mondo è pieno di falsi profeti). Parlerei di fine provvisoria della storia, un lungo passaggio di sosta, segnato dall’incertezza e da un dominio incontrastato.
Cosa si vede? Delle società divise, a volte anche a metà. Le elezioni americane sono uno specchio in cui possiamo rifletterci: lì abbiamo visto una realtà molto simile alla nostra, un consenso diviso tra due grandi racconti, non tanto tensioni, quanto proprio di sensazioni, emozioni. Da una parte un sentire di massa, borghese e reazionario, una vera e propria pulsione; dall’altra parte una pulsione altrettanto di massa, borghese e progressista. In comune la pulsione della borghesia. Messe così le cose, i giochi sembrerebbero chiusi.

Tempo di profeti minori
I tempi della rottura in genere sono tempi brevi, quelli che la profezia spesso evoca sono attimi storici, mentre i tempi della continuità sono sempre lunghi, caratterizzati spesso dall’eterno ritorno. La voce profetica in genere non va d’accordo con i processi di restaurazione, e proprio perché ci troviamo in un enorme processo di restaurazione, appare non la figura del profeta inascoltato ma del profeta muto.
La rivoluzione conservatrice non è un evento casuale e provvisorio, che arriva una volta per tutte, come è sembrato accadere nel Novecento, ma c’è un rapporto organico con la modernità capitalistica. Su questa consapevolezza la voce profetica potrebbe dire qualcosa e, invece, non possiamo usare oggi la voce dei grandi profeti, dei profeti canonici della Bibbia ebraica, perché c’è una sproporzione tra il grido di Isaia, le lamentazioni di Geremia, il messianismo coperto di Ezechiele, l’apocalittica di Daniele e il contesto storico nel quale ci troviamo. Più adeguati sono i profeti minori. Quello che preferisco è Amos, il pecoraio di Tekoa ai confini del deserto di Giuda, che passa dall’invettiva contro le ingiustizie dei potenti – saranno colpiti dalla folgore divina “coloro che hanno venduto il giusto per denaro e il povero per

Pensiero forte
Profezia non è pre-dire, non è nemmeno pre-vedere. Il profeta non vede il futuro, vede il presente. Vede nel presente quello che gli altri non vedono, e dice del presente quello che gli altri non vogliono ascoltare. La profezia è pensiero forte. Il profeta si espone e si arrischia in un faccia a faccia con la storia del suo tempo. Profezia è discorso di libertà. Dal proprio tempo e da chi lo comanda.
Mario Tronti
un paio di sandali; essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri” (Am 2,6-7), “Demolirò la loro casa di inverno insieme con la casa d’estate, andranno in rovina le case d’avorio e scompariranno i grandi palazzi” (Am 3, 15) – alla visione paradisiaca – “ecco, verranno giorni, dice il Signore, in cui chi ara si incontrerà con chi miete, chi pigia l’uva con chi getta il seme, dai monti stillerà il vino nuovo e colerà giù per le colline” (Am 9, 13). Questa profezia, che ritornerà, nel Nuovo Testamento, nel legame che Gesù evoca, proprio nel tempio, con Isaia, è una profezia che spesso resta inascoltata: “ma quando verrà il figlio dell’uomo sulla terra, troverà ancora sulla terra la fede?”. Giovanni il Battista, che nega di essere profeta (“io sono solo voce di uno che grida nel deserto”), ci fa dire che il deserto è diventato città, poi metropoli, Stato, impero, e poi fondamentalmente società. In ciascuno di questi passaggi la parola e la visione del profetico si affievolisce, invece che crescere di tensione, declina. Se è vero che profetare vuol dire parlare a nome di, il problema nostro adesso è: a nome di chi parliamo. È proprio questo che non sappiamo più.

Esodi senza profezie?
Si è ricominciato a parlare in nome di un Dio contrapposto a un altro Dio, proprio dopo che è stato sconfitto il grandioso tentativo di parlare a nome di una parte degli uomini, perché parlare a nome di tutti in una società e in un mondo divisi non è profezia questa è chiacchiera.
Occorrerebbe un acuto sforzo teorico di critica della secolarizzazione, perché i due processi di secolarizzazione e spolicitizzazione sono due processi neutralizzanti complementari; e questa operazione critica forse la possiamo fare solo noi, quella parte di pensiero eretico della sinistra che si è sempre posto al limite di una condizione e di un orizzonte di pensiero.
In Della cosa ultima Cacciari dedica la lettera quinta proprio al tema politica e profezia e l’autore, A, sceglie non C, il teologo cristiano, ma B, l’intellettuale scettico per parlare della morte della profezia, che sembra coincidere con la morte stessa del politico.
La fine della profezia come causa della de-politicizzazione, fa porre a Cacciari la domanda: “È concepibile la forma politica senza profezia?”. Per dirla con le sue parole: “la domanda che martella la visione moderna del politico che va da Machiavelli a Smith: come guidare, dare norme, nello stato d’eccezione, laddove l’antico novus giace a terra spezzato senza conferire un significato profetico al proprio agire, come chiedere e imporre straordinari sacrifici senza giustificarli profeticamente? Come chiedere conversioni, esodi? Come far uscire dalla casa del padre allorché la profezia tace?”

Utopia non è profezia
Sono i problemi del politico di oggi, nel tempo dell’antipolitica. Perché la politica non è solo profezia, è anche profezia, tanto più quando lo stato è d’eccezione. Poi la politica è molto altro: governo di eccezioni, direzione dei processi, organizzazione della forza, aggregazione dell’amico e conoscenza del nemico (malgrado si cerchi sempre di sfuggire a questa condizione), è critica del presente e, in ultima istanza (questa parola cara a un gergo di un antico marxismo), è produzione di futuro. In quest’ultimo senso la profezia non è utopia. L’utopia è una profezia debole che la realtà è disposta a sopportare ed è capace di integrare. L’utopia è sempre legata al pragmatismo, mentre la profezia è legata al realismo. Sono due dimensioni diverse anzi opposte dell’agire politico e umano. Tanto l’utopia è rassicurante, quanto la profezia è perturbante.
Il più incallito dei riformisti moderati, il più opportunista vi parlerà sempre bene di utopia, tanto è un non luogo. Non solo, nel più grigio rinunciatario conformista dei congressi di partito vi sentirete citare (è accaduto già), magari nella relazione del segretario, la frase di Weber: “il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”; però accuratamente si evita di citare il seguito di questa frase, la quale dice “ma colui che può accingersi a questa impresa deve essere un capo, non solo, ma anche in un senso molto sobrio della parola, un eroe e anche chi non sia né uno né l’altro deve foggiarsi quella tempra d’animo tale da poter reggere anche al crollo di tutte le speranze”.

Recuperare la figura dell’eroe
La figura dell’eroe non buttiamola subito a mare; c’è stata una forza storica, il movimento operaio, che, con un’operazione straordinaria ha reso l’eroe una forma collettiva, permettendogli così di guidare la grande trasformazione.
La politica moderna si è implicata con la profezia più della politica classica, cristiana.
Infatti in tutta la politica moderna da Machiavelli – che cos’è l’ultimo capitolo del Principe se non un’irruzione profetica dentro un discorso di grande realismo politico? – a Weber, passando per Spinoza, poi le eresie politiche del Seicento, poi il romanticismo politico e quel Marx letto dal giovane Lukas e da Benjamin, fino al Novecento, è un cerchio che si stringe con la profezia. La profezia ha bisogno della grande politica, e in quel complesso terribile e grandioso di eventi – quelli sì – del primo Novecento (rivoluzioni, crisi, guerra), c’era il terreno della profezia.

Eredi del Novecento
Secolo profetico, quindi, è stato il Novecento. Con una profezia tragica: un mondo può essere abbattuto, ma un altro non può essere costruito. Questo ci ha lasciato il secolo scorso. E non ammette risposte banali come quella secondo la quale “non è stato possibile costruire un altro mondo perché il vecchio mondo era stato abbattuto in quel modo”. Troppo facile e come tutte le risposte facili è abbastanza stupida. C’è un solo modo per abbattere un mondo, non ce ne sono tanti, ne conosco solo uno: è la rivoluzione. Questa profezia tragica, però, è il contrasto che abbiamo avvertito sulla nostra pelle, sulla nostra carne anche. Però che il Novecento mi abbia detto che è possibile abbattere un mondo, direi quasi “mi basta”.

Ecco perché il compito del profeta è quello che indicava padre Turoldo, con una bella immagine: “profeta non è uno che annuncia il futuro, profeta è colui che, in pena, denuncia il presente”. Ne sono convinto: dobbiamo attendere al compito profetico della denuncia del presente, dopo e malgrado il crollo di tutte le speranze.

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