VIOLENZA NEGLI STADI

Centomila gladiatori

Come il tifo da manifestazione virile di passione si trasforma in violenza organizzata. Nella quale non contano più né il calcio né la partita. Ma solo lo scontro. Cronaca di una degenerazione annunciata.
Eros Cosentino, Dascia Sagoni

Tra le ricerche sociologiche che hanno cercato di interpretare il tema della violenza negli stadi, un'attenzione a parte merita il lavoro di Antonio Roversi, che agli inizi degli anni novanta scrisse un saggio intitolato Calcio e violenza in Italia. La sua tesi si rivela, a distanza di anni, ancora fondata, soprattutto oggi che il calcio si è trasformato rapidamente in un vero e proprio show business.

Roba da maschi
Già nei primi anni Cinquanta, i giornali dell'epoca riportavano in cronaca numerosi episodi di violenza che avvenivano negli stadi (lanci di oggetti, invasioni di campo, risse) e che vedevano protagonisti gli spettatori inferociti per una decisione arbitrale avversa o per errori commessi dalla propria squadra. Non esistevano ancora le tifoserie organizzate; contemporaneamente nell'opinione pubblica tali episodi non venivano considerati come un problema sociale, ma semplicemente come normali accadimenti tipici dell'ambiente del calcio.
L'origine della violenza negli stadi va perciò, retrodatata di alcuni decenni. Ma chi erano i tifosi dell'epoca, e perché compivano simili gesti?
Gli spettatori appartenevano prevalentemente alle classi popolari, e solo in alcuni casi – nelle città del nord – i ceti più elevati frequentavano gli stadi, ed erano tutti uomini (le donne non vi avevano accesso) che vedevano in questo appuntamento domenicale l'unico svago del giorno libero.
La matrice culturale che anima in questi anni lo stadio e l'intero sport del calcio è la partecipazione a un esclusivo universo tutto al maschile, in cui i valori imperanti sono l'aggressività, la competizione, la forza fisica e la durezza: tifare non significa parteggiare per la propria squadra in campo, ma affermare simbolicamente la propria virilità e mascolinità.

Lo specchio del calcio
D'altronde i valori della forza fisica, della lotta, dello scontro e della sopraffazione dell'avversario considerato come nemico sono ampiamente diffusi nella società italiana di quegli anni, e nello stadio trovano la giusta valvola di sfogo. C'è da aggiungere che il rapporto tra il pubblico sugli spalti e i giocatori in campo viene comunemente identificato con il rituale dello scontro a tutti i costi e della durezza considerati come reale dimostrazione della propria forza, ma con un distinguo importante.
I giocatori in campo, protagonisti dell'agire mimetico tipico dello sport moderno, traducono la violenza in un rituale simbolico controllato attraverso le regole, mentre i tifosi mettono in atto l'esatto contrario, trasformando una decisione arbitrale avversa o un rigore dubbio in un affronto al quale reagire con violenza. A questo va aggiunto che l'incontro tra due squadre viene vissuto come lo scontro tra due realtà territoriali che si affrontano in un campanilismo esasperato in cui si deve dimostrare, attraverso la vittoria calcistica, la propria generale superiorità. Per questo i calciatori vengono considerati una diretta emanazione della città di cui portano i colori e per la vittoria dei quali devono essere disposti a “combattere”.
Si tratta di una violenza, come la definisce Roversi, emotiva, priva di elementi razionali e non finalizzata ad alterare l'andamento della partita.

Campi… di battaglia
Negli anni Sessanta e primi anni Settanta si vive una notevole spettacolarizzazione e professionalizzazione del calcio con la trasformazione delle squadre di serie A e serie B in S.p.A. Si delinea il trasferimento degli scontri maggiori all'esterno dello stadio. I dintorni dello stadio si trasformano in campi di battaglia e gli spogliatoi sono assediati da tifosi inferociti, gli scontri con la polizia si fanno all'ordine del giorno.
I primi gruppi di tifosi organizzati cominciano a essere affiancati da vere squadre di teppisti, interessati più allo scontro che allo spettacolo sportivo. L'opinione pubblica, che non ha mai considerato le violenze legate alle partite come un problema sociale, vede il fenomeno complicarsi tra gli anni Settanta e Ottanta. Scontri tra tifoserie avversarie e l'uso di petardi botti e fumogeni diventano all'ordine del giorno.

Bollettini… di guerra
Le cronache delle partite assumono l'aspetto di bollettini di guerra e i gruppi di tifosi sembrano sfoggiare un atteggiamento sistematicamente aggressivo, cioè non legato alle dinamiche di gioco. A cambiare è il modo in cui si va allo stadio, non più accompagnati dal proprio padre, ma con il gruppo di pari all'interno del quale il vincolo di amicizia è fortissimo, cementato da una forte appartenenza politica a gruppi di estrema destra o estrema sinistra. Inoltre le partite con squadre internazionali agevolano l'incontro con tifoserie estere come gli hooligans. È così che avviene un processo di cambiamento che si rende visibile anche nelle ormai ben note coreografie delle curve e nei boati dei tamburi suonati per tutta la durata delle partite. Le curve divengono aree protette, all'interno delle quali solo gli appartenenti ai gruppi della medesima squadra sono legittimati a sedere. I capi dei gruppi trascorrono la durata dell'intera partita girati verso i tifosi, ignorando quasi del tutto le azioni della partita e incitando i loro compagni al suono dei tamburi. Come ci fa notare Roversi, ciò che conta di più è la partecipazione corale alle modalità espressive del gruppo.

Il calcio non basta più
Dall'altra parte negli anni Ottanta il calcio cessa di costituire l'unico passatempo principale o quasi esclusivo, e fanno il loro ingresso delle nuove alternative di svago. Si modifica così anche la composizione dei tifosi, si affaccia allo stadio un pubblico culturalmente differente, che non giudica più il calcio come unico divertimento delle ore libere ma come una possibilità. E di conseguenza chiede anche allo spettacolo una qualità diversa che non riduca tutto alla semplice competizione agonistica. In questi cambiamenti gioca un ruolo importante la televisione che propone una nuova spettacolarizzazione del gesto atletico.
Teatro delle violenze in questi anni sono spesso i dintorni dello stadio, prima e dopo le partite, ma a questo punto la tensione dell'opinione pubblica nei confronti dei continui tafferugli si alza e si comincia a considerare il fenomeno come un problema sociale. Molti stadi italiani vengono dotati di circuiti di monitoraggio interno, fattore che concorre a spostare gli scontri fuori dagli impianti.
L'estremismo politico continua a rappresentare un fattore di grande fascino per molto gruppi di ultras, sono gli anni delle Brigate Rosse e di Avanguardia Nazionale e non è un caso se i maggiori gruppi ultrà si fanno chiamare “Brigate”…
I disordini assumono caratteristiche sempre più violente, in modo particolare in occasione delle trasferte, dove si registrano treni distrutti, autobus con i vetri rotti e stazioni compromesse da atti vandalici.

Questa partita non s'ha da fare
Oggi, se da una parte si assiste a un aumento progressivo dei controlli delle forze dell'ordine, dall'altro il proliferare di piccoli gruppi indipendenti rende il panorama più complesso. Il nuovo fenomeno a cui si assiste oggi è l'esercizio da parte delle tifoserie storiche di potere decisionale addirittura rispetto alle sorti di una partita, come nel caso clamoroso del derby Lazio-Roma del 21 marzo 2004.
Il quella circostanza un gruppo di tifosi fece invasione di campo a causa della falsa notizia della morte di un piccolo tifoso diffusasi nello stadio, e intimò ai giocatori di interrompere la competizione. Nonostante la notizia si fosse rivelata falsa, la decisione fu di interrompere il gioco. L'azione delle tifoserie fu interpretata come un esercizio di potere, la dimostrazione che senza l'appoggio dei gruppi non si prendono decisioni legittime sui campi da gioco.

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