PAROLA A RISCHIO

Le visioni di Zaccaria

I profeti minori ci insegnano a scrutare in profondità i segni di questo presente per preparare il mondo nuovo secondo il sogno di Dio
Tonio Dell'Olio

I profeti minori nella Bibbia sono dodici come le tribù di Israele, come gli apostoli del secondo testamento. Ma sono detti minori per distinguerli dalle voci tuonanti di Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele. Si tratta di libri di poche pagine che forse non molti di noi hanno letto. Ebbene, sarà per il fascino che esercita su di me tutto ciò che è minore oppure perché ritengo sia utile sempre prestare ascolto ai profeti minori, in ogni epoca, che voglio provare ad accompagnare questa annata di Mosaico di pace lasciandomi incalzare da quelle pagine scarne della Parola cominciando da Zaccaria. È un uomo di Dio al quale spetta il grave compito di leggere il tempo di un popolo che ha ancora tutte le piaghe aperte del lungo esilio in Babilonia. Ma non mostra di usare unguenti palliativi e consolatori. Al contrario vive intensamente il presente al punto che anche le otto visioni che descrive, lungi dall'essere una fuga dalla realtà, rappresentano uno sguardo altro, intento a cogliere il senso degli eventi e la loro portata.

Uno sguardo profondo, ampio e lungo
Lo sguardo profondo è carattere tipico dei profeti, ma Zaccaria che si ferma a parlare con un angelo ogni qualvolta si imbatte in una visione di cui non coglie il significato, sembra indicarci la strada della contemplazione profonda, dell'interpellare Dio in ogni tempo per aprire l'intelligenza e l'anima alle tracce della sua presenza lungo il corso della storia. Confessiamolo: oggi siamo orfani di uomini il cui coraggio si esprima Il profeta Zaccaria, Michelangelo, Cappella Sistina. innanzitutto in quella capacità di scrutare il sogno di Dio, che a volte rimane prigioniero degli eventi e che attende soltanto che qualcuno lo liberi, lo riveli, lo gridi. Anche le guerre, la miseria e l'angoscia che brucia le zolle della nostra madre terra oggi nascondono questo soffio divino. Se non c'è più nessun profeta disposto a svelarcelo, non sarà perché a tutti è consegnata oggi la possibilità di aprirsi a Dio in un amorevole colloquio capace di disvelare il suo progetto?
Ma Zaccaria ha anche sguardo ampio. Egli incoraggia il progetto della costruzione del tempio non come il riconoscimento monumentale e orgoglioso delle mani umane che osano costruire una casa a Dio. Nel tempio si riconosce l'identità di un popolo figlio del suo Dio (1, 16-17). È il segno di un rapporto rinnovato con un Dio che accetta di ritornare ad abitare in Gerusalemme e nella vita di ogni ebreo. Come vorrei che il ritorno di Dio nelle nostre città avvenisse oggi senza trionfali paludamenti, senza adunate oceaniche, senza arroganti rivendicazioni del sacro… ma umilmente accanto agli uomini e alle donne che vi abitano e che riconoscono in Dio una crescita della propria umanità e mai un'espropriazione.
Ma Zaccaria come ogni profeta annuncia un mondo nuovo. Ha uno sguardo lungo. Crede che un mondo nuovo non solo sia possibile ma addirittura necessario e lo descrive con tratti di una tenerezza in cui ogni persona ritrova serenità e realizzazione piena (8, 9-13). Infine egli preannuncia poeticamente quella convivialità delle differenze tanto cara a don Tonino Bello: “In quei giorni, dieci uomini di tutte le lingue delle genti afferreranno un Giudeo per il lembo del mantello e gli diranno: Vogliamo venire con voi, perché abbiamo compreso che Dio è con voi”. Zaccaria è architetto e operaio del cantiere della speranza e dichiara chiuso il tempo dei profeti di sventura.

Il lembo del mantello
Caro Zaccaria,
permettimi oggi di avvicinarmi a te per afferrare il lembo del tuo mantello. Voglio che mi conduci a conoscere il Dio mite (non violento) e umile (non potente) che unisce i popoli e non li mette l'uno contro l'altro. Egli opera per la pace perché non fa differenza di persone e vuole il bene. Egli pone “un seme di pace: la vite produrrà il suo frutto, la terra darà i suoi prodotti, i cieli daranno la rugiada (...)” (8,12).
Abbiamo tutti una sete infinita di questi segni di pace che riconcilia non solo con i popoli lontani e diversi, ma anche con la terra e i suoi frutti, col cielo e la sua rugiada. L'esilio nel quale viviamo è un allontanamento dalla nostra stessa umanità, tant'è che ci sorprendiamo amaramente ogni giorno nel degrado della bestialità, della tortura dei nostri simili, della violenza di ogni genere, della menzogna che inganna i poveri, della sete di potere e di guadagno che li condanna alla miseria.
Sappilo, caro Zaccaria, siamo andati in esilio dalla nostra umanità tant'è che a volte facciamo persino fatica a riconoscerci nello specchio dei giornali. La nostra immagine ne risulta mostruosamente deformata come negli specchi di un tragico Luna Park.
Ma nello stesso tempo siamo andati in esilio da Dio, dalle sue benedizioni e dalla sua benevolenza. E non perché Lui abbia negato di mostrarci ancora il suo volto o perché le sue viscere non si commuovono più. Al contrario: siamo noi che non ne raccogliamo gli effetti, l'elargizione feconda, la prodigalità e la clemenza. Parliamo un'altra lingua, guardiamo in un'altra direzione, abbiamo blindato tutte le porte della nostra vita, abbiamo alzato muri e fortezze al punto da essere impenetrabili. Siamo andato in esilio da Dio e non lo riconosciamo più. Qualcuno ci prova a colmare quella sete con surrogati colorati ed è new age. Altri con sostanze anabolizzanti ed è fondamentalismo fanatico che parla arabo sulle labbra di Osama e inglese su quelle di Bush che religiosamente si definisce born again (nato due volte).
Se solo afferrassero anche loro il lembo del tuo mantello per riconoscersi in Gerusalemme, figli dello stesso Dio invocato con nomi e lingue differenti; se solo anche loro sciogliessero “l'asina e un puledro d'asina” per cavalcarli al posto delle armi di distruzione di massa che progettano e usano per seminare distruzione e morte!
Il tuo Dio, Zaccaria, è “acceso di grande gelosia per Sion” simbolo di ogni città della terra e di ogni donna e uomo del pianeta. Egli risiede lungo il muro della vergogna in Cisgiordania, a Falluja, nei villaggi dimenticati del Darfur in Sudan, nelle poblaciones della Colombia, nei quartieri sventrati della Cecenia, nella scuola di Beslan. In quei luoghi,moderne stazioni di una Via Crucis che sembra interminabile, attendi che si costruisca un tempio nuovo in cui possa trovare dimora il tuo nome e dignità la tua immagine che è l'uomo vivente.

Caro Zaccaria,
se le tue poche pagine sono ancora oggetto di meditazione è soltanto perché, sia pure da profeta minore, ti riconosciamo nel popolo dei nostri “fratelli maggiori”. Alla scuola della parola di Dio di cui sei eco e fuoco, annuncio e vita, vorremmo che qualcuno giungesse anche oggi, ancora oggi, ad afferrarci il lembo del mantello. A Dio piace da commozione sentirsi invocare in lingue diverse, con ritmi, musiche e suoni che dicono di tradizioni e di sapienza, con colori e profumi che raccontano l'arcobaleno, con liturgie creative che sappiano unirsi al tuo sogno e farci ritornare da questo esilio opprimente. Se non cantiamo più è perché “ai salici di quella terra d'esilio in Babilonia” abbiamo appeso le nostre cetre. Se non si trova alcuno che venga ad afferrarci il lembo del mantello potrebbe anche essere che l'abbiamo nascosto sotto una divisa militare o mimetizzato con un piviale damascato. Aiutaci – profeta innamorato del Dio vivente – a rispondergli con la testimonianza viva di comunità di donne e di uomini miti e umili che, scalzi nella loro umanità, mendichino da te il dono della pace e, accanto agli altri resti, costruiscano il futuro nuovo.
“Se questo sembra impossibile agli occhi del resto di questo popolo in quei giorni, sarà forse impossibile anche ai miei occhi?” – dice il Signore (8,6).

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