CULTURA

Linguaggi dal disagio

Due romanzi, due storie diverse e lontane nel tempo. Ma accomunate dal mettere al centro il valore di ogni persona e il dono di comunicare.
Andrea Bigalli

Il quindicenne Christopher Boone si trova davanti a un mistero: qualcuno ha ucciso il cane della dirimpettaia e poiché Christopher ama molto i cani, si mette a indagare per risolvere il caso. Da questa decisione scaturirà una catena di eventi che lo condurranno alla fatica di mutare gli orizzonti della propria esistenza: al termine di un classico viaggio iniziatico, potrà guardare al proprio futuro con un po' più di ottimismo. Questo romanzo di Mark Haddon, “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” (Einaudi, Torino 2003, pp. 248), è il classico esempio della letteratura cosiddetta del passaggio, tesa all'analisi della crescita dell'individuo, delle dinamiche dell'ingresso nella società degli adulti. La realtà di Christopher non è diversa da quella di qualsiasi altro adolescente. C'è però per lui un elemento altro: soffre di una forma di autismo, la sindrome di Asperger. Il suo mondo, il modo di intendere il rapporto con la realtà circostante, le chiusure, la fatica di affrontare una quotidianità sempre troppo ricca di novità… tutto è descritto molto bene, in maniera assolutamente credibile, senza dimenticare i tratti della tenerezza e dell'umorismo. Ma il pregio più rilevante del romanzo sta nel ricordarci che il diversamente abile, in fondo, non sempre gestisce difficoltà poi così diverse da quelle che si trova ad affrontare qualsiasi altro individuo. L'abilità del protagonista negli studi matematici rappresenta il suo modo per provare a dare alla propria contemporaneità un ordine, una razionalità minima che dia ragione di quanto accade, di quanto può capitare di vivere. Non è poi un problema di fondo molto distante da quello che ci troviamo ad affrontare giorno per giorno...
Un'operazione narrativa di cifra non dissimile, è quella a sua tempo regalataci da Giuseppe Pontiggia nel suo “Nati due volte” (Modadori, Milano 2000, pp. 232), in cui il reale dato biografico dell'autore (un figlio che la nascita difficoltosa ha reso diversamente abile) è il pretesto narrativo per un romanzo “intorno” alla disabilità, in cui più che la storia del figlio appare significativa l'evoluzione del padre, che passa da un sentimento di rifiuto alla totale accoglienza, espressa dalla coscienza di quanto la “seconda nascita” di Paolo abbia messo quest'ultimo in condizione di diventare, a sua volta, educatore del genitore. Non si minimizzano, nel racconto di Haddon e di Pontiggia, le fatiche e il dolore nella difficoltà del comunicare e del muoversi nel mondo, né quanto costa, a queste persone e alle loro famiglie, il vivere in un contesto che sovente non fa molto per capire e per accogliere. Ma si prova a descrivere un valore, quello dell'esistenza di ogni persona, che talvolta aumenta nel valutare quanto alcuni debbano lottare per esprimere se stessi, crescendo di statura morale e consentendo di fare altrettanto a coloro che fanno parte della loro storia. Il linguaggio di tutti potrebbe molto arricchirsi dall'ascolto di questi linguaggi del limite e del disagio: la nostra società occidentale diventa particolarmente fragile quando rifiuta – in quanto collettività – di considerarsi un corpo unico, negando la relazione sociale con tutte le proprie componenti. L'esclusione limita chi la subisce, ma anche chi esclude.
Se le loro difficoltà ulteriori trovano un contesto di solidarietà, persone come Christopher e Paolo sono in grado di dare un proprio contributo alla vita sociale. Un contributo importante: quello di far conoscere a ognuno quel che si è, nella fragilità e nella capacità ad affrontare condizioni avverse. Essere più consapevoli del dolore e delle gioie di chi vive una condizione di minorità ci potrebbe indurre quantomeno a cercare linguaggi di comunicazione e di prossimità con queste persone. Per imparare, non solo per portare aiuto. Prendere coscienza, darsi una sensibilità (la si può apprendere e quindi insegnare); dilatare noi stessi attraverso la conoscenza delle persone ci consentirebbe di vivere in un mondo autentico, non virtuale, un po' più capaci di mediare tra la fragilità propria e l'altrui, per comprenderne il senso, sapersi in relazione, sapersi relazionare.

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