A proposito di beni culturali

22 dicembre 2003 - Giancarla Codrignani

L'ultima trovata è stata la vertenza – che oggi sembra avviata a qualche modifica –circa la BIENNALE di Venezia: il ministro titolare del dicastero dei Beni culturali, Giuliano Urbani, ha emanato un decreto – che, per fortuna (anche se non sappiamo quanta), è stato contestato dalle autorità locali di tutte le parti politiche – che "modifica" la natura della celebre manifestazione cinematografica veneziana. Callisto Cosulich, noto critico cinematografico, ha sostenuto che era migliore lo statuto fascista del conte Volpi di Misurata. Ma il governo non può non cercare di impadronirsi anche del cinema.
O della musica. Nonostante non si veda mai un rappresentante di governo a una manifestazione culturale o a un concerto, tutto fa potere e mercato per il Polo delle (cosiddette) libertà. Dice l'AGIS, a proposito del sostegno ai teatri lirici e alle attività musicali: "Non esiste più una politica culturale da parte del governo e del ministero". Si può dire che "con i soldi dello Stato neanche sopravviviamo; il finanziamento previsto per le Fondazioni del 2004 non copre il costo del personale". Per giunta, oltre a prosciugare ogni possibilità di iniziativa musicale, non mancano occupazioni di posti e favori interessati a favorire parenti e amici degli amici. Interessante l'esempio – uno fra molti – dell'opera The wings of Dedalus che ha debuttato al Ventidio Basso di Ascoli e ha ricevuto dal ministero 468.390 euro, oltre un miliardo di vecchie lire; interessante anche l'autore: Maurizio Squillante, figlio del più celebre – perché condannato con Previti – giudice Renato.
Se a "governare"il festival di Sanremo viene indicato tale Tony Renis, sul quale dovrebbe dare il benestare l'antimafia, potremmo sentirci poco coinvolti. Il guaio è che alla presidenza dell'ENEA il governo ha bocciato la candidatura di Carlo Rubbia, premio Nobel. Tuttavia, con l'espressione "beni culturali" si intende soprattutto il patrimonio artistico, architettonico e naturale del Paese. Quando i
giornali chiamano "vandali" i responsabili di quei beni, qualche preoccupazione è bene averla e cercare di prevenire mali peggiori. Due sono gli strumenti-capestro che si è inventato il governo, per fare cassa anche con il patrimonio identitario più forte del nostro Paese: i condoni e il "silenzio assenso". I condoni rappresentano l'attentato micidiale in un Paese in cui verrà premiato chi ha edificato selvaggiamente per pura speculazione e assenza di senso civico: coste, colli e paesaggi sono a rischio e, per l'iniquo guadagno di qualche migliaio di euro perderemo in futuro un bene prezioso (e un guadagno turistico non indifferente).
Ma non è soltanto il terrore di veder rinascere il mostro Fuenti che dà i brividi. Le cartolarizzazioni sono un incubo ancora peggiore da quando il ministro Urbani ha decretato che un bene diventa alienabile in novanta giorni, se non verrà prodotto entro tale termine il parere della Sovrintendenza. La parola del ministro non rassicura: come ha detto Urbani a un convegno dell'università di Pisa sulla conservazione, "ciò che vale sarà tutelato da noi al meglio, mentre ciò che non ha valore sarà dimesso e prima lo facciamo meglio è perché il nostro demanio ha un patrimonio immobiliare degno di uno stato socialista sovietico e perché potremmo realizzare soldi e liberare risorse da destinare alla tutela di tutto ciò che ha valore artistico e richiede fondi".
Quando "Il sole 24ore" denuncia con forza queste ipotesi di lavoro del governo e ne sottolinea l'incongruità con il senso dello Stato e la Costituzione (art. 9: " la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione"), è abbastanza evidente che il livello di guardia della melmosa corrente mercantile che contraddistingue Forza Italia e alleati sta salendo e può fare danni destinati a colpire tutti, perché i beni culturali sono nostri ed è nostro diritto che vengano conservati e protetti. Salvatore Settis ha ricordato, appunto sulle pagine domenicali del "Sole", che Carlo III di Borbone, quando lasciò Napoli per andare a prendere la corona di Spagna, si tolse l'anello che aveva acquisito dagli scavi di Pompei e lo consegnò pubblicamente al figlio, suo erede al trono napoletano, perché quel tipo di anello era proprio "solo" di un re di Napoli. Le leggi riguardanti i beni culturali all'epoca stavano diventando molto importanti e avanzate nei diversi stati italiani. Ma, in un tempo in cui non è imprevedibile, prima o poi, un assetto comune europeo, in Italia siamo - in altro, non meno doloroso senso – come ai tempi del Petrarca: "A poco a poco non solo i monumenti, ma le stesse rovine se ne vanno e voi tacete di fronte a pochi ladruncoli e lasciaste che si facesse strazio delle membra della Madre comune". La citazione di Settis sarà un po' retorica, ma è azzeccata, soprattutto nel monito: anche se non conosceva la Repubblica italiana, Francesco Petrarca conosceva gli italiani.

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