INFORMAZIONE

La foto più grande

Si è svolto a Mosca il Congresso del sindacato internazionale dei giornalisti, per ricordare Anna Politkovskaya, per denunciare i silenzi delle indagini, per informare il mondo delle morti taciute degli altri 200 giornalisti. Non solo russi.
Roberto Natale (Giunta FNSI – Federazione Nazionale della Stampa Italiana)

La sua foto era la più grande, all’apertura del Congresso del sindacato internazionale dei giornalisti (Ifj) tenuto a fine maggio a Mosca. Abbiamo imparato a riconoscerla tutti, in questi mesi, la figura minuta e ferrea di Anna Politkovskaya: am mazzata davanti all’ascensore di casa sua, nell’ottobre scorso, do po che per anni era riuscita a passare in den ne attraverso tante tragedie dell’ex Unione So vietica, e in particolare tra i drammi della guerra cecena.
Per il suo assassinio non c’è ancora giustizia. Ma i suoi colleghi della Novaja Gazeta non si rassegnano, e anzi ipotizzano nuove piste per arrivare alla verità. Potrebbe entrarci persino il ruolo che la giornalista ebbe nei giorni neri dell’attentato al teatro Dubrovka di Mosca, cinque anni fa: il sequestro, ad opera di un commando di terroristi ceceni, delle centinaia di spettatori di un musical.
Finì con un blitz delle “teste di cuoio” russe, e con un bagno di sangue: il gas uccise quasi tutti i sequestratori, ma anche 129 ostaggi. Anna potrebbe essere morta – questa la nuova ipotesi – perché qualcuno le avrebbe fatto arrivare le prove che l’azione terroristica sarebbe stata organizzata anche grazie alla “benevolenza” dei servizi segreti russi.

Una commissione d’inchiesta
La sua foto era la più grande, ma non l’unica davanti alla quale i delegati di tutto il mondo hanno sfilato posando un garofano rosso. Più piccole e più inattese della sua, a tappezzare per intero le pareti, altre duecento foto. Duecento: una marea. Donne e uomini, giornalisti di penna e di telecamera, fotoreporter, tecnici, producer televisivi. Uccisi, oppure morti in circostanze più che dubbie, oppure “suicidati”, oppure semplicemente spariti nel nulla.
A Mosca non meno che nelle province sperdute dell’ex Impero. Sfilare è stato commovente, e più ancora imbarazzante.
Perché questa strage continua è avvenuta, dal 1994 a oggi, senza che da questa parte del mondo avessimo nemmeno una pallida idea del le sue di mensioni. Siamo giornalisti, presumiamo di essere informati e talvolta persino di essere sensibili ai diritti calpestati: eppure non ne sapevamo nulla, fino a pochi mesi fa.
C’è voluto il lavoro paziente del sindacato russo, delle diverse organizzazioni sociali a tutela dell’informazione e della trasparenza, della federazione internazionale dei giornalisti, di alcuni analisti, per mettere anzitutto in fila i dati dispersi e costruire su di essi un dossier impressionante.
E poi per far partire una commissione internazionale d’inchiesta, che da qualche mese sta monitorando alcuni casi-chiave, per indurre le autorità politiche e la magistratura a dare risposte: perchè finora soltanto in 14 hanno avuto giustizia postuma.
Finalmente la lunga serie di omicidi di colleghi russi non è più considerata routine”, ha commentato Jim Boumelha, il nuovo Presidente della Ifj, inglese di origine marocchina. “Sta emergendo in tutta la sua rilevanza che in Russia sono morti in questi anni più giornalisti che in Iraq. Eppure qui non c’è una guerra dichiarata”.
La scelta di tenere il Congresso mondiale a Mosca ha voluto essere un’altra testimonianza di solidarietà ai colleghi russi. Si sapeva che non sarebbe stato facile, nel cuore di un Paese che le libertà civili le rispetta poco. L’incontro dei giornalisti è co minciato il giorno dopo che i reparti speciali della polizia avevano stroncato in piazza la manifestazione per i diritti degli omosessuali alla quale avevano partecipato anche parlamentari italiani.
E la pressione si è sentita parecchio anche dentro e intorno al Congresso, ammette Boumehla: “I lavori sono stati completamente ignorati dalla stampa russa e alcuni dei partecipanti sui quali contavamo si sono sfilati all’ultimo momento. Questo clima si è avvertito anche nell’atteggiamento dei giornalisti del sindacato russo.
Avevamo ipotizzato una manifestazione di protesta da tenere all’aperto, in piazza Puskin: non necessariamente doveva essere contro le autorità russe; poteva avere al centro la questione dell’impunità per gli omicidi di giornalisti in tutto il mondo. Ma abbiamo percepito forte la preoccupazione dei colleghi russi, che temevano provocazioni. La manifestazione non è stata formalmente vietata: sono loro che hanno scelto di non farla. A congresso finito voi ripartirete, ci hanno detto; ma noi dobbiamo continuare la nostra azione qui
”.

L’informazione minacciata
La Russia è stata dunque una sede drammaticamente idonea, per un Congresso che aveva al centro proprio il tema dei rischi alla lettera mortali che sempre più corre chi fa informazione. “No all’impunità” era lo slogan dei lavori. Ma di sedi idonee avrebbero potuto essercene tante altre. Nel 2006 sono stati almeno 155, secondo i dati del sindacato internazionale, gli omicidi e le morti “non spiegate” di giornalisti e altri operatori dell’informazione: è un re cord, purtroppo.
Una strage continua, sulla quale la nostra informazione si affaccia giusto quando il coinvolgimento di giornalisti italiani render impossibile distrarsi.
Ma è anche “il segno – dice Aidan White, Segretario Generale della Ifj – che i media sono diventati più potenti e che il giornalismo si è fatto più pericoloso”. Al totale dà un suo cospicuo contributo l’Iraq, e questo non sorprende: 69 l’anno scorso le vittime dell’informazione (171 in tutto dall’invasione dell’aprile del 2003 fino a fine 2006). Altre cifre, invece, colgono impreparato il nostro senso comune.
Immaginate per un attimo di assistere a un quiz, sul tipo di quelli in voga in tv. “Quale nazione – chiede il conduttore – è stata seconda soltanto all’Iraq, nel 2006, fra le zone a rischio per i giornalisti? ”.
Avete qualche se condo per la risposta. Se sperate che il classico “aiutino” possa venirvi dalla grande informazione italiana letta o vista in questi mesi, difficilmente lo troverete.
Chi l’ha raccontato che l’anno scorso, nelle Filippine (questa è la risposta esatta) sono stati uccisi 13 giornalisti? “49 in tutto – dice White – da quando nel 2001 è al potere Gloria Arroyo; un numero superiore a quello delle vittime durante i 14 anni della dittatura di Marcos”.
Terzo posto al Messico, new entry che scalza la Colombia in testa alla classifica latino-americana: 10 i reporter assassinati, molti dei quali specializzati nel giornalismo investigativo. Gran parte di questi 155 omicidi sono stati delitti mirati con motivazioni politiche; altri sono stati opera di banditi.
Ma non c’è angolo del mondo che sia rimasto indenne: 73 in Medio Oriente, 37 in America Latina, 34 in Asia, 6 in Europa, 5 in Africa.
Sotto l’urto di queste cifre, alla fine il tema della sicurezza dei giornalisti è entrato anche nell’agenda delle istituzioni internazionali: a dicembre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una rilevante risoluzione sul diritto dei giornalisti di lavorare senza rischiare la vita. “Non ci illudiamo che basti un testo – è il realistico commento del Presidente Boumelha – però è un primo passo importante in un mondo in cui chi fa informazione è diventato obiettivo degli eserciti, delle fazioni irregolari, dei banditi, e in un panorama complicato dal giornalismo embedded”.

Libertà di informare
Chiedere sicurezza significa chiedere libertà di informare. Come è stato fatto in modo unanime per il Venezuela: una delle mozioni finali critica aspramente la chiusura di radio Caracas Television, il canale privato di opposizione a Chavez e “condanna i sistematici attacchi dell’attuale governo alla libertà di espressione”.
O anche per la Cina: oltre a reclamare l’amnistia per i giornalisti in prigione, il Congresso ha puntato il dito contro “l’attiva accondiscendenza delle imprese di new media, come Yahoo, Msn e Google, nel fornire al governo cinese informazioni che esso usa per censurare internet e in carcerare i giornalisti”.
Già, ci sono le imprese della “modernità”: quelle che ci promettono ogni meraviglia tecnologica, ma non considerano la libertà personale un valore da tutelare, nemmeno nei Paesi in cui chi viene tradito finisce a fare anni di prigione.
E poi ci sarebbero i governi. La loro capacità di indignarsi per i diritti calpestati è ancora molto più esile della propensione a far valere il “realismo” finanziario o energetico.
Basta riandare alla visita che a marzo ha compiuto Putin in Italia, e ricordare la cautela con la quale è stato sollevato di fronte a lui il tema delle libertà calpestate. Molto più forte si è sentita, da parte del governo italiano, la soddisfazione per gli accordi economici.
C’è un appuntamento mondiale imminente che varrà come buon test per misurare il grado di interesse alle libertà democratiche anche dei governi che la democrazia talvolta vogliono esportarla coi cannoni.
L’anno prossimo Pechino ospiterà i Giochi Olimpici. I giornalisti hanno chiesto a tutti i governi di sfruttare questa occasione per “sollevare i temi della libertà di espressione e dei diritti umani nelle relazioni con le autorità cinesi”. Quanti sapranno rispondere?

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