Prima i poveri

La Teologia della Liberazione aveva lanciato lo slogan della scelta preferenziale, ma oggi i poveri sono lontani dalle premure ecclesiali.
Annachiara Valle

La povertà è la sfida del Vangelo. Non un generico impegno nel sociale, ma una condivisione di vita, un camminare con, una stella polare che segna il cammino dei credenti. Parte da questa considerazione la Dottrina sociale della Chiesa universale, la scelta preferenziale per i poveri, l’impegno per la “liberazione” che non è soltanto liberazione astratta, ma impegno per la giustizia.
Non a caso il dicastero vaticano mette insieme le parole Giustizia e Pace: quasi a voler sottolineare una volta di più che non si può essere credenti se non si cerca la pace e non la si può raggiungere senza praticare la giustizia. Perché è di questo che i poveri hanno bisogno: non l’elemosina del buon cuore, ma un organizzarsi della convivenza che ridia a ciascuno la dignità che gli spetta. E non a caso la Caritas ha scelto questa denominazione, per ricordare che “prima di tutto è la carità”.

Volontariato
L’appuntamento ecclesiale del 1976, passato alla storia come il convegno sui mali di Roma, legava strettamente l’evangelizzazione con la promozione umana.
Cominciava in quegli anni la straordinaria fioritura delle esperienze di volontariato, con l’apporto fondamentale del mondo ecclesiale (i dati della Federazione italiana del volontariato ricordano che 5 mila organizzazioni sono collegate alla Chiesa e altre 5.500 sono vicine al mondo ecclesiale), ma cominciavano già anche le prime spaccature.
Quasi dieci anni dopo a Loreto, nel 1985, all’appuntamento su Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini si radicalizzano le polarizzazioni tra una linea pastorale più “carismatica” e una più attenta all’impegno sociale e politico.
Ma è a Palermo, nel 1995, con il convegno ecclesiale “Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia” che i nodi vengono di nuovo al pettine. Nell’ambito chiamato a occuparsi di impegno sociale e politico l’analisi è spietata: la profonda crisi occupazionale, la necessità di ridefinire lo stato sociale, il diffondersi di nuove e più allargate forme di povertà, il problema della disoccupazione giovanile.
Nascono da questa analisi le priorità pastorali che vengono indicate come sintesi dei lavori: l’urgenza di ripartire da una nuova coscienza etica nell’impegno sociale e politico; la visione dell’uomo e della società ispirata ai valori del Vangelo; l’esigenza di lavorare con tutti gli uomini di buona volontà a un progetto culturale capace di coniugare valori comuni: convivenza civile, bene comune, solidarietà, pace.
Le due istanze forti che vennero dal mondo ecclesiale che si ritrovò nel capoluogo siciliano furono la scelta della carità come domanda di cambiamento culturale, di conversione di stili di vita. Conversione anche all’interno della Chiesa.
Una conversione urgente e seria: “Come l’olio e l’acqua. La Chiesa da una parte e i poveri dall’altra: certo, sono insieme, ma non si uniscono mai. E la Chiesa comunque resta a galla”, aveva detto don Piero Gabella, responsabile per Migrantes della pastorale degli zingari, intervenendo in uno dei gruppi di riflessione sulla opzione preferenziale per i poveri.
Nei dieci anni che hanno separato quell’evento dall’appuntamento a Verona molte cose sono cambiate, ma la miscela sembra portare ancora una volta i poveri lontano da noi.
Una sorta di terremoto ha attraversato la società italiana e lo stesso mondo del volontariato e del terzo settore, che pure sul terreno degli ultimi si sono spesi in abbondanza, hanno subito trasformazioni importanti.
E, nonostante le speranze diverse, si è creata una divaricazione sempre più ampia tra il progetto culturale – che è andato avanti un po’ per suo conto perdendo quella spinta profetica che avrebbe voluto per motore – e un impegno a parole per la carità che rischia di diventare sempre più retorica sterile.
Per questo nel convegno ecclesiale di Verona, i delegati hanno fatto di tutto perché il tema povertà non venisse confinato nell’ambito dedicato alla fragilità, ma fosse trasversale a tutti i lavori. E perché non uscisse l’idea che se Deus caritas est, lo sia soltanto a livello teologico e non incarnato nella vita concreta delle persone.
Persone che fanno sempre più fatica e sulle quali, a volte, pesa anche la mano non sempre accogliente della Chiesa. “Non mettere sulle spalle degli altri pesi che noi stessi facciamo fatica a portare”, ammoniva il cardinale Carlo Maria Martini nella sua lettera alla città del 2000.
Di più, aiutarsi a portare gli uni i pesi degli altri. Le nuove povertà, non solo economiche, ma di esclusione dai luoghi decisionali, dalle nuove tecnologie, dai processi produttivi si stanno allargando coinvolgendo strati sempre maggiori di popolazione.
La Caritas aveva dato l’allarme già da tempo. Con una convinzione: che migliorare la qualità della vita, migliorare l’esistenza delle persone sia un impegno evangelico.
Non si può dare il Vangelo a chi non ha pane”, si diceva un tempo. Forse meglio si potrebbe dire “dare il Vangelo significa spezzare il pane con il prossimo”.

La politica della delega
Ma su questo terreno la Chiesa mostra qualche tentennamento. Dietro l’angolo c’è sempre la paura di una deriva sociologica della pastorale, di uno “sminuire” la testimonianza evangelica in favore dell’azione concreta “non connotata”.
L’antica frattura tra presenza e mediazione, tra lavorare per e lavorare con, tra il fare dei poveri l’oggetto delle nostre azioni e non il soggetto dell’evangelizzazione non sembra sanarsi.
Intanto lo stesso volontariato – laico e cattolico – sta perdendo, negli anni, le motivazioni forti da cui era partito. L’impegno nel sociale parte dalla risposta ai bisogni concreti, ma negli ultimi anni, perdendo quasi sempre il suo carattere di gratuità, è entrato in un sistema sociale di impresa economica.
Con il rischio di diventare supplenza di servizi che lo Stato dovrebbe garantire e di utilizzare molte energie per la propria sopravvivenza.
Tanto efficienti da tentare la politica alla delega, ma non così forti da essere un vero interlocutore: il rischio del volontariato, anche ecclesiale, è quello di essere insignificante nei luoghi dove si decidono i cambiamenti, ma oberato lì dove serve la risposta concreta al bisogno.
Negli anni c’è stato un indebolimento del volontariato come forma alta di presenza e di profezia, anche a causa della confusione che si è creata tra mondi del volontariato e forme di cooperazione sociale. E si è perso il riferimento alle “tre d che hanno sempre caratterizzato il volontariato: disponibilità, disinteresse, dono.
Di questo stile di gratuità la Caritas è stata negli ultimi trenta anni un riferimento ineludibile. Grazie al suo impegno il volontariato ha trovato una sua legittimazione, e il suo contributo è stato fondamentale anche per l’elaborazione di alcune leggi.
Una storia lunga che ha uno snodo chiave nel primo quinquennio degli anni Novanta, quando la Caritas perde la sua caratteristica istituzionale di strumento dei vescovi che fa direttamente capo alla presidenza Cei e viene ricondotta a ufficio pastorale.
Si tratta di un cambio sostanziale. “Un mutamento”, aveva spiegato padre Lorenzo Prezzi, direttore de Il Regno, qualche anno fa, “che avviene per elementi esterni alla Chiesa italiana – le nuove indicazioni della Santa Sede sui poteri e le forme delle Conferenze episcopali, che enfatizzano il ruolo diretto dei vescovi – ma anche per un’esigenza di chiarificazione interna alla Cei, in ragione del nuovo rilievo che assumeva con le intese post-concordatarie”.
Questa opportunità della Cei di essere interlocutore pubblico, riconosciuto non solo dai mass media ma anche dalle istituzioni, ha favorito un ridisegno burocratico delle varie funzioni interne alla Conferenza episcopale e ha penalizzato la Caritas. Una penalizzazione di cui soltanto la base sembra rendersi conto, ma che indebolisce tutta l’azione della Chiesa.
Ma forse ha ragione don Vinicio Albanesi, della Comunità di Capodarco: “Oggi la sensibilità della Chiesa è concentrata sul versante delle scuole cattoliche e della bioetica. Il resto viene delegato al mondo religioso o alle singole iniziative locali. La carità è assente perché non è ritenuto un ambito nodale e strategico rispetto alla catechesi, alla liturgia e alla formazione. Tanto che non esiste nemmeno un segno, una benedizione per chi si impegna nel volontariato: sarebbe bello se la Chiesa desse una sorta di investitura come avviene per gli ordini minori. Ma oggi lo sguardo è volto altrove. E i poveri sono lontani”.

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