NAZIONI UNITE

Kofi Annan: no alla dottrina Bush

Il Segretario Generale dell’Onu prende finalmente posizione sulla teoria (e la pratica) della guerra preventiva.
Ugo Villani

Nell’intervento del 23 settembre scorso, in apertura della 58 a sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Segretario Generale Kofi Annan, rompendo gli indugi e le incertezze che hanno caratterizzato il suo atteggiamento durante la guerra all’Iraq, si è espresso con chiarezza e decisione contro la dottrina statunitense della “difesa preventiva”. Tale dottrina, enunciata dal Presidente Bush il 1° giugno 2002 all’Accademia militare di West Point e inserita nel documento sulla strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti del 17 settembre 2002, rappresenta, sul piano concettuale, la reale (benché contestabile) motivazione dell’intervento anglo-americano contro l’Iraq, che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU non ha mai autorizzato.
Sebbene i governi degli Stati Uniti e del Regno Unito abbiano tentato di giustificare tale intervento con le più disparate considerazioni, esso appare concreta applicazione di tale dottrina. Com’è noto, infatti, Bush e Blair hanno costantemente affermato (c) www.un.org che il regime iracheno rappresentava una minaccia intollerabile a causa del possesso di armi di distruzione di massa (nucleari, chimiche e biologiche), trasferibili, per di più, a gruppi terroristici, salvo a… ripiegare sulla necessità di abbattere un regime dittatoriale quando di tali armi non si è trovata traccia (sicché resta ancora un mistero il contenuto della provetta agitata da Colin Powell nella seduta del Consiglio di Sicurezza del 5 febbraio scorso!).

Una sfida all ’Onu
La c.d. dottrina Bush sulla difesa preventiva prevede che, di fronte alle nuove minacce derivanti dagli “Stati canaglia” e da gruppi terroristici e all’alta probabilità che essi usino armi di distruzione di massa contro gli Stati Uniti, questi possano agire con la forza armata in via preventiva per eliminare tali minacce, prima che gli Stati canaglia e i loro “clienti” terroristi siano in grado di minacciare o usare dette armi contro gli Stati Uniti e i loro alleati o amici. Va sottolineato che, secondo tale dottrina, la possibilità di ricorrere alla forza non è affatto subordinata al verificarsi di un attacco contro gli Stati Uniti, e neppure alla chiara e sicura previsione di un tale attacco. Nel documento in questione si dichiara espressamente che più grave è la minaccia, più grave è il rischio di inazione e più stringente la necessità di prendere misure preventive per difendere gli Stati Uniti dall’attacco nemico.
Il documento del Presidente Bush sostiene che la difesa preventiva troverebbe fondamento in un tradizionale diritto riconosciuto agli Stati di ricorrere alla forza dinanzi a un’imminente minaccia di attacco, testimoniata da mobilitazione di eserciti, navi e forze aeree. Il concetto di minaccia imminente, peraltro, andrebbe adattato alle caratteristiche delle nuove capacità di attacco, consistenti in atti terroristici e uso di armi di distruzione di massa, la cui preparazione non è solitamente visibile in maniera esterna, come per le minacce tradizionali.
Come ha ricordato Kofi Annan, questa teoria non è conforme alla Carta delle Nazioni Unite e “rappresenta una sfida fondamentale ai principi sui quali, per quanto in maniera imperfetta, si sono fondate la pace e la stabilità mondiale negli ultimi 58 anni”.
L’ONU, l’organizzazione pressoché universale che esprime l’intera comunità mondiale, si basa, infatti, sull’obbligo degli Stati di astenersi dall’uso o dalla minaccia della forza nelle relazioni internazionali e sulla responsabilità del Consiglio di Sicurezza di mantenere la pace e la sicurezza internazionale, adottando, se necessario, misure di vario genere (diplomatiche, economiche, commerciali ecc.), che possono culminare in azioni militari contro uno Stato che abbia minacciato o violato la pace o commesso un atto di aggressione.
Nella prassi il Consiglio di Sicurezza, non disponendo di proprie forze armate, è solito autorizzare Stati, alleanze o organizzazioni regionali all’uso della forza, nella misura necessaria per mantenere o ristabilire la pace o reprimere un atto di aggressione. Al di là di questa ipotesi, l’unico caso in cui la Carta dell’ONU consente agli Stati di ricorrere alla forza armata è quello della legittima difesa (art. 51), qualora abbia luogo un attacco armato contro uno Stato e finché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. La condizione dell’attacco armato comporta che l’uso della forza sia lecito solo nel caso in cui l’attacco sia effettivamente in atto e al solo scopo di respingerlo. Nell’ipotesi di semplice pericolo di attacco lo Stato interessato è tenuto a rivolgersi al Consiglio di Sicurezza, al quale spetta accertare la reale esistenza di una minaccia alla pace e adottare le eventuali misure per rimuovere tale minaccia.
Nella giurisprudenza internazionale e nella prassi delle Nazioni Unite manca qualsiasi riconoscimento di un preteso diritto di legittima difesa preventiva. In passato, al contrario, il Consiglio di Sicurezza, con la risoluzione n. 487 del 19 giugno 1981 (adottata con il voto favorevole degli Stati Uniti), condannò severamente il bombarda mento effettuato da Israele contro un impianto nucleare in costruzione in Iraq, al fine di eliminare una minaccia contro il proprio territorio. Analoghe condanne furono espresse dall’Assemblea Generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e dall’Assemblea Generale dell’ONU.

Una guerra permanente?
Va rilevato ancora che, alla stregua del diritto internazionale generale, l’uso della forza in legittima difesa deve rispettare i limiti della necessità e della proporzionalità. Di fronte al timore di un possibile attacco è dubbio che non esistano alternative alla forza armata, la quale, pertanto, può non apparire necessaria. Inoltre il limite della proporzionalità, da intendere nel senso che la forza impiegata deve essere commisurata all’attacco armato che si intende respingere (o, nel caso della c.d. difesa preventiva, prevenire), verrebbe certamente superato qualora, per eliminare il pericolo, si facesse ricorso a una vera guerra. Ma esattamente ciò è accaduto nella guerra contro l’Iraq, condotta con estrema violenza e frequenti violazioni del diritto umanitario, preordinata non già a eliminare fabbriche o siti di armi di distruzione di massa (ove esistenti), ma alla completa sconfitta del nemico, al rovesciamento del suo governo, all’occupazione militare del suo territorio e, naturalmente, dei suoi pozzi e impianti petroliferi!
Si deve aggiungere che la dottrina Bush rappresenta un notevole ampliamento rispetto alla teoria, già in passato sostenuta e richiamata dallo stesso documento statunitense (come corrispondente a una convinzione generale, ma in realtà non del tutto pacifica), secondo la quale il ricorso alla forza sarebbe eccezionalmente consentito anche per difendersi da un pericolo, reale e imminente, di attacco armato, suscettibile di pregiudicare l’esistenza stessa di uno Stato. Il caso classico sarebbe rappresentato dalla guerra dei sei giorni del 1967, iniziata da Israele di fronte a una evidente mobilitazione dei Paesi arabi e a dichiarazioni dei loro governi che potevano far temere per la sopravvivenza dello Stato di Israele. Quale che sia la valutazione giuridica di questa forma di legittima difesa, è evidente la sua differenza rispetto alla difesa preventiva della dottrina Bush: mentre, nel primo caso, sussiste una minaccia precisa e localizzata di un attacco armato comportante il rischio di distruzione di uno Stato, tale da essere verificabile in termini oggettivi, nella dottrina Bush il pericolo può essere vago e indeterminato, risultare da semplici intenzioni di uno Stato e, principalmente, il suo accertamento è lasciato alla valutazione del tutto soggettiva e incontrollabile dello Stato che si sente minacciato. Il caso della guerra all’Iraq, motivato dal possesso di armi di distruzione di massa, è eloquente: a tutt’oggi (fine ottobre 2003) neppure gli ispettori della CIA sono riusciti a trovare tali armi, ma il semplice sospetto del loro possesso è stato ritenuto sufficiente dagli Stati Uniti e dal Regno Unito per scatenare una guerra contro l’Iraq.
L’illiceità di una difesa armata preventiva è confermata dalla considerazione che essa finirebbe per giustificare ogni intervento militare, scatenando una situazione di guerra permanente e vanificando i progressi realizzati dalla comunità internazionale con la creazione delle Nazioni Unite, mediante la messa al bando della forza armata nelle relazioni internazionali e il suo “monopolio” nelle mani del Consiglio di Sicurezza. Ancora un volta la guerra all’Iraq dimostra come la dottrina della difesa preventiva finisca per scardinare il sistema delle Nazioni Unite e la sua autorità: basti ricordare che la guerra ha bruscamente interrotto le ispezioni decise dall’ONU, che procedevano in maniera adeguata e che avrebbero dovuto proseguire, se gli ispettori non avessero dovuto abbandonare il territorio iracheno per evitare di finire sotto i bombardamenti anglo-americani.
La dottrina della difesa preventiva, per quanto si è osservato, non ha alcun fondamento nella Carta delle Nazioni Unite e nel diritto internazionale vigente, ma sembra piuttosto diretta a modificarlo, ammettendo, pericolosamente, un diritto degli Stati a ricorrere alla guerra dinanzi a qualsiasi minaccia, reale o presunta. Sotto questo profilo è ben giustificato (anche se, francamente, alquanto tardivo) l’allarme del Segretario Generale dell’ONU, il quale ha dichiarato che la tesi della difesa preventiva darebbe vita a dei precedenti che si risolverebbero in una proliferazione dell’uso unilaterale della forza, con o senza giustificazione. Ma, a nostro parere, la dottrina Bush non può considerarsi neppure quale tentativo di affermare una nuova “norma” internazionale, se per norma si intende una regola generale, applicabile a tutti gli Stati, nelle condizioni da essa previste. In realtà la dottrina Bush afferma il diritto degli Stati Uniti di agire preventivamente contro i c.d. Stati canaglia, individuati dagli stessi Stati Uniti e caratterizzati, principalmente, per il fatto che essi “hate the United States and everything for which it stands”; non è certo riconosciuto analogo diritto ai Paesi che sono costantemente minacciati dagli Stati Uniti (eventualmente con l’appoggio di altri Stati forti o compiacenti). Tale dottrina, pertanto, si rivela come la più vecchia e brutale “legge”, quella del più forte, basata sull’arroganza e sulla violenza, palese negazione di ogni regola di diritto. Contro di essa occorre quindi che la comunità internazionale e l’opinione pubblica mondiale reagiscano con la massima fermezza. Per altro verso, di fronte alle nuove e molteplici minacce alla pace, è necessario – come pure ha sostenuto Kofi Annan – procedere finalmente a una riforma delle Nazioni Unite, che realizzi adeguati livelli di efficienza e di rappresentatività e che assicuri all’Organizzazione quell’autorevolezza che i recenti eventi hanno fortemente appannato.

Note

Ordinario di Diritto dell’Unione Europea all’Università di Roma “la Sapienza” e docente di Diritto internazionale alla LUISS “G. Carli” di Roma.


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    Ordinario di Diritto dell’Unione Europea all’Università di Roma “la Sapienza” e docente di Diritto internazionale alla LUISS “G. Carli” di Roma.


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