CINEMA

Le bandiere dei nostri padri

Il bel film di Clint Eastwood racconta i giorni cruenti della battaglia per la conquista dell’isolotto di Iwo Jima quando i marines piantarono le bandiere.
Andrea Bigalli

È notte. Il soldato corre lungo un paesaggio sconvolto dai segni delle esplosioni, solo terra devastata intorno a lui, inseguito da un grido: “Infermiere!”, che lo richiama a quanto sa fare, rimettere insieme i pezzi di carne martoriata, di ferite del corpo come di quell’anima che non può non ricordare... Nel vuoto popolato di ombre, questi ricordi si sovrappongono a ricostruire la vicenda di come una foto fu capace di giocare un ruolo non indifferente in una guerra. Un figlio raccoglie gli elementi di questa storia, diventata il bestseller di James Bradley. Uno dei maggiori registi contemporanei, Clint Eastwood, ne ha tratto un film di genere bellico a suo modo atipico. 

Coprodotto da Steven Spielberg e sceneggiato da Paul Haggis, racconta di come una istantanea di un gruppo di marines, che pianta la bandiera a stelle e strisce sul monte Suribachi, divenne un’icona dell’imma ginario collettivo – non solo statunitense – riguardo alla seconda guerra mondiale, addirittura della guerra in genere. E fu forse in grado di cambiare le sorti della guerra nel Pacifico.

L’eroismo, l’amor di patria, l’etica del sacrificio: difficile non aspettarsi tutto questo in un film nordamericano, insieme a una dose – spesso insopportabile – di retorica e di esaltazione dello spirito bellico. Ma Eastwood non è certo un regista che ci ha abituati così male. Paziente demolitore del sogno americano, ha tessuto attraverso le sue opere l’idea di una sensibilità capace di leggere storie e Storia secondo il rovescio che le vittime disegnano sotto l’arazzo delle cronache ufficiali: un disegno non così definito come nelle storiografie ufficiali, ma di cui si può comunque intendere la bellezza. È curioso che un attore/ regista a suo tempo considerato un falco, un conservatore (guardando alcuni dei suoi film è impossibile non pensarlo), ha prodotto opere così attente a ribaltare molti dei presupposti dominanti della cultura a cui appartiene: l’attenzione al lato femminile (in Debito di sangue arriva a tratteggiare un poliziotto dai canoni classici ma con un cuore letteralmente femminile, dopo un trapianto), l’occhio di riguardo nei confronti dei perdenti (Mil lion dollars baby, Bird, Gli spietati), la critica ai poteri monolitici (Potere assoluto) secondo uno sguardo spesso esplicitamente politico: chi ricorda il finale di Mystic river può annotare la chiarezza con cui la logica feroce dell’eliminazione delle vittime in un preteso diritto dei più forti alla “loro” giustizia trovava il suo controcanto celebrativo nella sfilata del 4 luglio, festa dell’indipendenza americana.

La trama

Il film racconta la storia dei sei soldati che piantarono la bandiera, in particolare dei tre che sopravvissero alla battaglia e che furono riportati in patria per sfruttare a fine di propaganda – ma anche a scopo finanziario, nella raccolta di fondi per proseguire la guerra – l’ondata emotiva conseguente alla pubblicazione della foto sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo. I tre sono costretti a iniziative che rasentano il grottesco, secondo una dinamica che confonde un crescente benessere, apparente e sempre più invadente, con il dolore autentico delle famiglie dei tre caduti e con la fatica degli altri nel loro essere sopravvissuti e parte di una menzogna collettiva. Uno dei tre è un nativo nordamericano: sarà il primo a cedere (chiedendo di tornare a combattere) alla fatica delle celebrazioni, crudelmente lontane dalla verità terribile di un massacro che ha falciato vite e dignità, riprodotto nella retorica secondo il criterio di ciò che è accettabile perché “per la patria”. Una delle sequenze più belle del film vede i tre scalare una collina con la bandiera: ma giunti alla sommità si svela l’artificio di uno spettacolo all’interno di uno stadio, i tre hanno recitato a beneficio del pubblico...ma le voci che chiamano, nella memoria sconvolta e dolente, sono ben reali e sono quelle di coloro che sono morti. Fino all’ossessione ripetono che sono questi gli eroi, non chi ha avuto la fortuna di sopravvivere, ma la serialità delle affermazioni stinge la forza delle affermazioni. Al di là di ciò che si è stati educati a pensare sul valore di quanto si rappresenta in una guerra – le dinamiche dell’eroismo, l’amor di patria, le logiche che definiscono un “noi” e un “altro/nemico” – in realtà si combatte per chi ti combatte accanto, le retoriche si riducono a questa fedeltà all’umanità che si ritrova incarnata nel tuo compagno, dal momento che la tua si sta smarrendo in quanto sei costretto a fare...

Se sei qualcuno solo nel sopravvivere e nell’uccidere, capisci presto che la tua esistenza non ha più molto senso e i generali ti valutano soltanto per l’unità che rappresenti, sulla scacchiera di una guerra che resta poco comprensibile, mentre la vivi, se non vi assisti da lontano. Eastwood gira con tecnica impeccabile, dandoci un saggio magistrale dell’uso del flashback, ma soprattutto non concede niente alla retorica, con il coraggio di dirci qualcosa di significativo sul cinismo della propaganda di guerra, sulla fame malata di immagini del nostro tempo e di quanto sia facile manipolarle, su quanto costa, sul piano umano, entrare nella logica della violenza, di quanto ci si può aspettare di esserne feriti, impossibilitati a liberarsene.

Al tempo di dubbi gravi su quanto si sta facendo in Iraq, un film che esprime la labilità delle ragioni di ogni bellicismo non è parso interessare il pubblico statunitense, che ha punito il film al botteghino. Dimezzando il budget di quest’opera, Clint Eastwood ne ha girata un’altra per raccontare la stessa vicenda nell’ottica degli sconfitti Letters from Iwo Jima (in giapponese, sottotitolato... lo vedremo mai in Italia?), uscito negli USA nel dicembre 2006 e basato sulle moltissime lettere ritrovate sui soldati giapponesi caduti. Quasi prodigioso che una cinematografia come quella statunitense continui a produrre i termini per una critica così serrata alla società da cui origina, a quelle istanze culturali che ne definiscono i presupposti... Forse le Americhe sono davvero molte di più di quanto non pensiamo, le culture mai così univoche come ce le rappresentiamo.

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