La morte contrastata

Un medico rianimatore in un reparto di terapia intensiva lì dove la vita non ha più limite e la macchina è l’ultima ancora.
Carla Pessina

Sono anestesista rianimatore e lavoro in ospedale principalmente in un reparto di Terapia Intensiva; sono uno di quei medici che nella idea comune “hanno in mano la vita e la morte delle persone”. Sicuramente in questi reparti il quotidiano si svolge su un filo sottile di differenza tra ciò che viene considerata vita e ciò che è considerata sopravvivenza. I pazienti ricoverati acutamente e in condizioni drammatiche sono aiutati nel supporto delle funzioni vitali da strumenti e farmaci, sono spesso in condizioni di compromissione dello stato di coscienza come causa della loro patologia o posti in questa situazione da necessità mediche. Il rapporto umano, l’empatia che dovrebbe crearsi tra il malato e il suo curante viene così a mancare. Il capirsi, il conoscere ciò che il paziente vorrebbe e ciò che il medico si sente in coscienza di fare scompare o viene mediato dai diversi componenti della famiglia, influenzato da aspetti di carattere relazionale e affettivo che alterano talvolta l’obiettività. L’alta tecnologia, rappresentata dalla presenza in queste aree di apparecchiature sofisticate, permette ormai di trattare condizioni di malattia sempre più estreme. Condizioni che nel passato avevano come risultato una morte accettata, adesso sono considerate condizioni nelle quali la morte può essere contrastata. Certamente questo ha permesso di dare esito positivo a tanti eventi critici, ma ha determinato anche lo spostamento del confine tra cura ed eccesso di cura; tra la possibilità di recuperare una buona qualità di vita e allungare la vita. I reparti di Terapia Intensiva offrono la possibilità di sostituire alla funzione organica deficitaria l’uso di una apparecchiatura: un ventilatore per sostituire il polmone, una dialisi per il rene, farmaci per sostenere l’attività cardiaca ecc.

Accettare il limite

Le possibilità di cura offerte dal progresso hanno però portato nel tempo alla perdita dell’accettazione del limite – di cura e di sopravvivenza – e dell’accettazione dell’evento morte come fisiologica fine di una vita. Particolarmente difficile risulta essere nei Paesi occidentali, dove l’età media di vita si è allungata in modo significativo e dove il culto dell’apparire ha un posto determinante nella scala dei valori. Nella nostra attività veniamo interpellati in tutte le condizioni che rappresentano un pericolo di vita o di sopravvivenza per il presentarsi di una malattia acuta o per l’aggravarsi di una patologia cronica. La scelta del trattamento e l’iter diagnostico sono determinati dall’evento che ha condotto il paziente in ospedale: il trauma, la malattia cardiaca, l’infezione ecc. o l’aggravarsi di una malattia nota.

La maggior parte dei pazienti che accede a questi reparti ha la possibilità di affrontare e curare con buon esito la malattia che ha determinato il suo ricovero. Ma ci sono casi il cui esito è meno favorevole o addirittura infausto. A questo punto siamo spesso chiamati a decidere come, quando e talvolta se, procedere con trattamenti invasivi, a volte dolorosi, che sicuramente mettono il paziente in condizione di dipendenza fisica da un trattamento. La dipendenza si manifesta nell’allettamento, nella necessità di ridurre movimenti che possono compromettere il funzionamento delle apparecchiature, nella mancanza di autonomia in tutte le funzioni fisiologiche, spesso con l’impedimento della parola e quindi con una comunicazione mediata da gesti e/o sguardi.

Medici e pazienti

Insieme al dolore del paziente va anche considerato quello del medico e dell’infermiere. La difficoltà che si incontra quotidianamente nella relazione con un paziente incosciente o con alterazioni della coscienza; la difficoltà di relazione con il familiare, in bilico tra la speranza della guarigione e la difficoltà ad accettare il limite delle possibilità di cura quando ci sono condizioni troppo gravi per sopravvivere o organismi non più in grado di contrastare la malattia.

La nostra sofferenza è legata a quella del paziente, alle decisioni che prendiamo, al pensiero di scegliere sempre per il suo bene. È legata anche alla consapevolezza che siamo uomini e donne che hanno scelto di lottare contro la sofferenza, ma che da questa talvolta siamo vinti. Nei lunghi e quotidiani colloqui che abbiamo con i familiari riceviamo spesso delle richieste contrastanti: “fate tutto quello che potete”, “non staccate la spina”, “non prolungate più a lungo la sua sofferenza”. Tutte queste affermazioni ci portano a fare delle riflessioni: “sto facendo poco?”, “sto facendo troppo?”. Non è possibile rispondere per ogni persona e caso nello stesso modo. Ogni caso, paziente, malattia, vita e affetti rappresentano un insieme diverso con cui confrontarsi ogni volta. Il nostro lavoro è quello di “prenderci cura” del paziente, non soltanto di curarlo. Per me significa avere la coscienza che non sempre la guarigione del corpo può essere l’obiettivo finale. Il prendermi cura di un paziente significa non solo usare farmaci e apparecchiature, ma accettare che le mie cure possano anche non guarirlo. Accettare anche il mio limite di medico attento ma incapace di operare miracoli.

Diventa quindi fondamentale mettere al primo posto il benessere del paziente, non tralasciando tutte le possibilità di cura, ma non dimenticando tutti i vantaggi e gli svantaggi delle scelte operate. Nostra cura è anche l’accompagnamento dei familiari a capire la situazione e accettare gli eventi. Nostro dovere è anche capire (e accettare) che non dobbiamo superare il limite, che non dobbiamo dimostrare di essere bravi e onnipotenti a tutti i costi, calpestando con questo il rispetto delle persone e la dignità dell’uomo e della donna nella malattia.

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