DIRITTI UMANI

Aberrazione tortura

Un vero e proprio business di mercato: accanto ai mezzi classici ci sono cinture comandate, pistole laser, cavi elettrici.
Cristina Mattiello

“La totale supremazia psicologica sui prigionieri potenzialmente pericolosi è garantita. Dopo tutto, quando indossi un congegno intorno alla vita che, attraverso un pulsante nelle mani di qualcuno, può farti defecare o urinare improvvisamente, come la vedi da un punto di vista psicologico?”. Così la ditta statunitense Stun-Tech pubblicizza la cintura elettronica, una delle micidiali “armi non letali” il cui uso da parte delle forze dell’ordine nelle carceri, nelle piazze, su singoli o su gruppi, è legittimo in una sessantina di Paesi, primo fra tutti gli Stati Uniti. Secondo una ricerca di Amnesty International già nel 1977 erano più di 120, e operanti in 22 Paesi diversi, le aziende produttrici ed esportatrici di armi elettriche. Accanto ai mezzi “classici”, come le manette, i serrapollici e i ceppi, la tecnologia al servizio della tortura istituzionalizzata ha prodotto ormai numerosi sofisticati strumenti: dalla cintura comandata a distanza, con cui si tiene nel terrore il detenuto, che sa di poter essere colpito in modo del tutto arbitrario e senza preavviso da una scarica al rene di anche 50.000 volt, per diversi secondi (fino a 8!), alle più recenti versioni di bastoni, manganelli e pistole, in grado di provocare vomito, nausea, convulsioni, sofferenze terribili e anche la paralisi e lo stordimento per parecchi minuti, alla ormai tristemente nota “pistola taser”, che spara piccoli ganci che si attaccano ai vestiti o alla pelle, collegati a cavi elettrici predisposti a lanciare scariche di 50.000 volt, il cui uso, nonostante i numerosi decessi già provocati, si va diffondendo. E i mezzi di intervento sulle manifestazioni: veicoli con pannelli elettrici, reti, addirittura carrelli mobili per srotolare fili taglienti. Oltre all’ultima serie di prodotti chimici: schiume, collanti, spray urti da spruzzare sugli occhi.

Complici

“Quello della produzione e della vendita di strumenti di tortura è uno degli aspetti più lugubri di questa violazione dei diritti umani – ha dichiarato Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International – come in altri casi (si pensi, tra tutti, a quello del commercio delle armi), vi sono privati e aziende per cui le violazioni dei diritti umani costituiscono un vero e proprio business”. Un decreto approvato dal nostro governo il 4 agosto scorso prevede, in ottemperanza al regolamento emanato già da un anno dall’Unione Europea, sanzioni pesanti – fino a sei anni di reclusione, con multe fino a 250 mila euro – per chi importa o esporta strumenti che possono essere utilizzati per trattamenti crudeli, inumani o degradanti, o per le esecuzioni capitali. “Il decreto – dice ancora Noury – risponde a una precisa richiesta di Amnesty International ai governi dell’Unione Europea: evitare di rendersi complici della tortura, attraverso la commercializzazione di strumenti atti a perpetrarla. Ben venga, dunque, una misura che può costituire, se ben applicata, un deterrente nei confronti di una pratica che, nel contesto della cosiddetta ‘guerra al terrore’, rischia di essere nuovamente legittimata”.

L’arretramento in materia di diritti umani, e in particolare proprio nell’ambito della tortura, dopo l’11 settembre, in moltissimi Paesi, è infatti sconvolgente. L’Amministrazione Bush, in ottemperanza all’assetto istituzionale degli Stati Uniti, democratico e costituzionale, ha sempre formalmente dichiarato il proprio impegno a rispettare “le richieste non negoziabili di dignità umana”. Tuttavia si è mosso fin dall’inizio con una strategia che, a posteriori, è difficile non ritenere organica e consapevole, volta a far cadere, in nome della lotta al terrorismo, sempre più barriere: conquiste che da decenni, almeno nel mondo occidentale, venivano considerate acquisite, sono state messe in discussione e, spesso, azzerate. Un alibi a tutti i Paesi che già praticavano una repressione violenta.

Per ottenere questo risultato, oltre ai comportamenti violenti sul campo, nelle operazioni di guerra e nel controllo successivo del territorio, spesso non solo consentiti ma addirittura avallati e incoraggiati da una situazione di arbitrio di fatto gradualmente “normalizzata”, è stata attuata una progressiva forzatura della terminologia giuridica nella direzione di sottrarre spazi alla tutela dei diritti: forzatura tanto nella definizione di tortura, quanto in quella di “terrorista” e addirittura di “prigioniero di guerra”. Così oggi ci si trova, oltre che a doversi impegnare per la difesa di migliaia di situazioni individuali estreme, a dover di nuovo lottare a livello teorico, sul terreno dei principi base.

Definiamo la tortura

La definizione esatta di “tortura” già prima dell’11 settembre non era unanime. In teoria, essa è quasi universalmente vietata nelle Costituzioni, nei Codici penali, in numerose Convenzioni internazionali, ma i governi che la praticano, anche in modo sistematico, non lo fanno solo in luoghi segreti: la tendenza è quella di interpretare in forma riduttiva la definizione di tortura stessa, in modo che molti comportamenti violenti non vi rientrino formalmente e possano essere adottati “legalmente”. Queste distinzioni, che a chi guarda il problema con onestà morale e buon senso, appaiono del tutto strumentali e sostanzialmente non significative, hanno invece una rilevanza enorme in termini di sofferenze concrete che si possono o no evitare. Oggi si accetta generalmente la definizione di tortura contenuta nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura (1988), secondo cui essa è l’inflizione intenzionale di grave dolore o sofferenza, fisica o mentale, per scopi quali ottenere informazioni o una confessione, punire, intimidire o coercire una persona. Non essendo stato possibile chiarire inequivocabilmente quali forme di abusi rientrino in tale definizione, ampiamente utilizzato è anche il concetto di “trattamento crudele, inumano e degradante”, o semplicemente “maltrattamenti”, come sinteticamente indica il diritto internazionale.

Tutti questi comportamenti, comunque, oggi sono oggetto di un divieto assoluto nel diritto internazionale, anche in situazioni eccezionali come in tempo di guerra. La loro condanna, infatti, va al di là di un obbligo di legge: ha un fondamento etico e come tale è universale. La tortura è immorale e fortemente lesiva della dignità umana, non solo di chi la pratica, ma di tutta l’umanità, se essa la consente.

 

Cosa fare?

Neanche l’affermazione formale di questi fondamentali principi, con la conseguente ratifica della Convenzione internazionale contro la tortura delle Nazioni Unite, però, è di per sé risolutiva: anche per i Paesi con un assetto democratico, infatti, resta il problema di come garantire veramente il loro rispetto. Oltre alla creazione di un vero e proprio “catalogo” che assicuri preventivamente che la tortura non possa essere praticata, bisogna prevedere come agire sul piano della repressione di eventuali comportamenti sanzionabili: la tortura, di per sé, appartiene a una ristretta cerchia di reati definibili “crimini internazionali”, ciò vuol dire che qualunque Stato può esercitare la propria giurisdizione e processare chi si trova nel suo territorio ed è accusato di tali crimini, ma anche che, se non vuole farlo, dovrebbe accettare l’estradizione in Paesi che la richiedano, per arrivare al processo (aut dedere aut tradere). Inoltre, si deve prevedere una diversa accezione delle norme procedurali ordinarie, soprattutto per quanto riguarda gli “ordini superiori”, che non possono essere un’attenuante. Altre garanzie giuridiche necessarie: il divieto di estradizione di un detenuto verso Paesi che fanno uso della tortura (anche la permanenza nei bracci della morte USA dovrebbe rientrare in questo caso), il divieto di usare confessioni estorte con la violenza come prove durante i processi.

È su questo quadro già così complesso e incerto che si è inserita la “guerra al terrore” di Bush. L’attacco alla tutela dei diritti umani, dall’11 settembre a oggi, è stato a tutto campo, mirato non solo a restringerne al minimo i contenuti, ma anche a metterne in discussione il concetto stesso. La premessa è che la sicurezza nazionale degli Stati Uniti va intesa come priorità assoluta. Le linee d’azione sono state sostanzialmente tre: 1. una nuova accezione estensiva della definizione di “terrorista”, o presunto tale (ma non fa differenza!); 2. una nuova definizione restrittiva di “tortura”; 3. la revisione del concetto di “prigioniero di guerra”.

L’interazione tra tutti questi elementi ha consentito di scardinare di fatto tutto il sistema di garanzie faticosamente costruito dal dopoguerra in poi. Già l’ondata di arresti, immediatamente successiva all’attacco alle Torri gemelle, ha sancito un gravissimo passaggio: la legittimazione di fatto di arresti senza specifiche accuse, avvenuti solo sulla base di illazioni relative alla contiguità con i “terroristi” e spesso tenuti segreti, e poi della detenzione incommunicado, cioè senza possibilità di contatti esterni con familiari o legali. Da allora i “detenuti fantasma”, di cui non si sa neanche il nome perché non registrati, sono diventati una costante nella “guerra al terrore”. Migliaia di persone sono state esposte ad ogni abuso, inclusa la mancata cura delle ferite: negli Stati Uniti (grazie al Patriot Act che discrimina i cittadini stranieri, privandoli formalmente di ogni tutela per 7 giorni prolungabili in modo indefinito), in Afghanistan e in modo massiccio in Iraq. Gli orrori di Abu Ghraib, che hanno fatto, per qualche giorno, scalpore, non sono episodi isolati: Amnesty denunciava da almeno un anno la situazione e in seguito ha riscontrato che non ci sono stati cambiamenti sostanziali. Gli Stati Uniti hanno effettuato circa 70.000 arresti fuori dal loro territorio dall’11 settembre a oggi e si ritiene che almeno 10.000 persone siano detenute in carceri segreti.

Solo tecniche dure?

Sul piano teorico, inoltre, l’Amministrazione Bush ha poi sancito la differenza tra la “tortura” e tutta una serie di “tecniche dure e stressanti”, dette anche “tecniche d’interrogatorio rinforzato”. In base a questa lettura sono state “formalmente legittimate” molte tecniche crudeli, inumane e degradanti che, soprattutto se attuate, come accade regolarmente, per periodi prolungati, causano comunque gravi e anche gravissimi danni fisici e psichici.Tra queste, l’obbligo di rimanere in posizioni dolorose, la deprivazione sensoriale, l’isolamento, l’uso dei cani, l’incappucciamento, l’obbligo di denudarsi, l’esposizione a temperature estreme, le minacce, la simulazione di annegamento e la privazione del sonno. Alcune sono state messe a punto con l’obiettivo specifico di colpire in particolare la sensibilità islamica, innanzitutto, l’uso di personale carcerario femminile, anche in ruoli violenti, o l’obbligo di radersi e consegnare il Corano. Anche gli abusi sessuali, oltre che gli insulti razzisti, sono risultati una pratica costante degli interrogatori. L’obiettivo generale è l’umiliazione e l’annientamento psicologico delle vittime. “Provocare stress lavorando sulle paure dei prigionieri”, è del resto una delle tecniche approvate formalmente dal segretario alla Difesa Rumsfeld nel dicembre 2002. Ma il punto limite di questa strategia di legittimazione della violenza istituzionale è Guantanamo, diretta conseguenza di una delle “nuove regole” con cui l’Amministrazione Bush ha riscritto il modo di fare la guerra.

La Convenzione di Ginevra, sancendo una serie di garanzie per i “prigionieri di guerra”, risultava d’impaccio alla “guerra al terrore”. Così, già nel febbraio 2002, il presidente Bush ha annunciato che chiunque fosse stato arrestato nel conflitto in Afghanistan non sarebbe stato considerato prigioniero di guerra. In questo modo sarebbe stato più difficile incriminare il personale USA per “crimini di guerra”. È stata così coniata l’espressione di “combattente nemico” (terminologia non riconosciuta dal punto di vista legale a livello internazionale), che si ritiene ponga la persona catturata al di fuori delle garanzie minime. Con Guantanamo risulta, secondo molti, essere messo in discussione perfino il concetto base dell’habeas corpus. Sono stati poi istituiti speciali “tribunali per la revisione dello status di combattente”, composti da tre militari, in cui i detenuti non hanno accesso alle prove segrete usate contro di loro e sono privi di assistenza legale, mentre sono valide eventuali prove fondate su confessioni estorte con torture. Operativi dal luglio 2004, questi tribunali hanno confermato lo status di “combattente nemico” nel 93% dei casi finora esaminati. Questo atteggiamento del Paese-guida del mondo globalizzato ha incoraggiato regimi dittatoriali e non in tutto il mondo: un crollo verticale delle garanzie, un quadro drammatico della situazione dei diritti umani, che impone a tutti i livelli il massimo impegno.

 

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