Tra scienza e coscienza

Il rifiuto della morte, la coscienza del limite, i tempi del vivere e il diritto a morire bene: un viaggio tra scienza e coscienza, a colloquio con il teologo Giannino Piana.
Intervista a cura di Rosa Siciliano

La vicenda di Piergiorgio Welby è stata gestita e pubblicizzata – almeno ci è parso – senza il rispetto di quel senso di discrezione e di riservatezza che dovrebbe circondare situazioni tanto complesse e drammatiche. Che cosa ne pensa?
È senz’altro vero. E, al di là della spettacolarizzazione, purtroppo difficile da evitare in un contesto di società multimediale, ciò che mi ha soprattutto colpito negativamente è stata la strumentalizzazione che si è fatta della vicenda, con una assoluta mancanza di senso del pudore. Non vi è dubbio che a fare della propria situazione drammatica un fatto pubblico sia stato lo stesso Welby, il quale, con grande coraggio e con alto senso civile, lo ha caricato di una forte valenza politica. Ma le reazioni, che hanno contrassegnato, da tutte le parti, il dibattito politico, sono state, in molti casi, del tutto fuori misura.
Non le pare che ciò che è mancato, nell’affrontare questioni delicate come quelle di fine-vita, è stato soprattutto il senso del limite? In altre parole, che le posizioni assunte un po’ da tutti fossero viziate da un eccesso di sicurezza, qualche volta persino spavalda di fronte a questioni caratterizzate da un alto livello di problematicità?
Non c’è dubbio. Sintomatico è stato il modo con cui il partito radicale ha condotto la propria battaglia. Non solo è mancata, fin dall’inizio, una chiara definizione dei termini precisi secondo i quali la questione si prospettava, per cui si è passati dalla rivendicazione dell’eutanasia (e successivamente dal rifiuto dell’accanimento terapeutico) fino all’affermazione che la richiesta di Welby era in realtà giustificata dal diritto all’autodeterminazione sancito dalla Costituzione; ma si è soprattutto assistito a una esasperazione del caso, giocando su facili reazioni emotive e tendendo a semplificare, in modo superficiale, tematiche scottanti che avrebbero meritato ben altro stile di accostamento. D’altra parte, un analogo atteggiamento semplificatorio, sia pure di segno opposto, ha caratterizzato alcune posizioni espresse da una parte del mondo cattolico, con una forma di astratta difesa della vita, a prescindere dalla considerazione delle concrete condizioni in cui essa è talora vissuta. Effettivamente ciò che, in ambedue i casi, è sembrato mancare è il senso del limite, la capacità cioè di tenere realisticamente conto della complessità delle situazioni e della necessità di mettere in atto forme di mediazione volte a ricercare il “bene possibile”, cioè il vero bene del malato.
Questa assenza del senso del limite non è forse presente tanto in chi invoca con facilità il ricorso all’eutanasia quanto in chi si ostina a voler prolungare a tutti i costi la vita privandola della sua dignità umana?
Proprio qui sta il paradosso. Eutanasia e accanimento terapeutico, pur essendo fenomeni di segno opposto, hanno in comune la medesima matrice culturale: sono infatti originati dal rifiuto della morte, dalla sua rimozione largamente presente nella nostra società. La morte introduce infatti nella coscienza, quando viene correttamente introiettata, la percezione del limite, della precarietà e della caducità proprie della condizione umana; essa ci pone di fronte, in una parola, alla considerazione che la vita è una vita a termine, che il tempo con cui dobbiamo fare i conti è un tempo limitato. Tutto ciò sembra contrastare nettamente con una cultura, sempre più diffusa, che mitizza l’onnipotenza soggettiva e che esalta il dominio dell’uomo nei confronti della realtà, lasciando intendere che tutto è possibile, che ogni traguardo è raggiungibile. La rimozione della morte rende tuttavia ancora più traumatica l’esperienza che, inevitabilmente, si fa di essa, un’esperienza di scacco e di assoluto non senso. Di qui la tentazione di uscire dall’impasse, sottraendo la morte al dominio della natura, dove essa appare come realtà non dominabile e non razionalizzabile, e trasformandola in evento culturale, cioè in realtà nei confronti della quale l’uomo esercita il proprio potere – è questa una delle ragioni del ricorso all’eutanasia – o, inversamente, tentando di prolungare indefinitamente la vita mediante tecnologie sempre più sofisticate – è il caso dell’accanimento terapeutico – nella segreta (e illusoria) speranza di poter vincere la morte. In ambedue i casi ciò che vie- ne a mancare è la coscienza del limite, la capacità di fare i conti con il “tempo reale”, e non con un tempo illimitato.
Si tende spesso oggi a chiamare in causa – è quanto è avvenuto anche in occasione della vicenda di Welby – come criterio decisivo il principio di autodeterminazione di fronte alle cure. Come va inteso?
Non vi è dubbio che il principio di autodeterminazione rappresenti un pilastro fondamentale della bioetica: il rispetto della libertà del paziente, e dunque la possibilità di determinare in prima persona le cure cui sottoporsi, è un importante fattore di civiltà. Da questo punto di vista l’introduzione del testamento di vita va senz’altro incoraggiata. Ma occorre guardarsi da una interpretazione troppo rigida di tale principio, che fa di esso il criterio esclusivo di valutazione dei comportamenti in campo sanitario. Esistono anche altri principi che tutelano valori importanti come il bene del malato o la giusta distribuzione delle risorse e delle prestazioni mediche. Dietro all’esasperazione del principio di autodeterminazione vi è una concezione individualistica dell’uomo, che fa del diritto soggettivo un diritto assoluto, escludendo a priori qualsiasi attenzione alla dimensione sociale, e dunque a una prospettiva solidale. Siamo ancora una volta di fronte a una visione enfatizzata del soggetto umano, che sembra esaurire in sé ogni istanza, dimenticando che l’umanità non è fatta di tanti singoli uomini che vivono ciascuno per se stesso, ma è co-umanità, cioè comunità di soggetti chiamati a promuovere se stessi attraverso lo sviluppo di relazioni autentiche e sempre più estese.
Un altro aspetto di difficoltà che il caso Welby ha fatto emergere è l’assenza di una legislazione adeguata che sappia far fronte seriamente a situazioni difficili come quelle terminali. Che cosa pensa?
Sono senz’altro d’accordo nello stigmatizzare i limiti della legislazione attuale, soprattutto per quanto riguarda la definizione e il trattamento dell’accanimento terapeutico. Spesso i medici si vedono costretti a sottoporre a cure sproporzionate (magari anche contro la loro coscienza) pazienti che andrebbero invece lasciati morire, unicamente per il timore delle gravi conseguenze penali cui potrebbero andare incontro. È dunque auspicabile un miglioramento delle norme giuridiche non solo a favore dei medici ma soprattutto dei malati. Ma la legge non può certo risolvere ogni situazione, sia perché il rapidissimo evolversi del progresso tecnologico provoca (e non può non provocare) l’insorgenza di situazioni nuove e dunque impreviste, sia soprattutto perché ogni caso umano è un caso a sé e va come tale trattato. Essenziale rimane dunque l’azione del medico chiamato, di volta in volta, a valutare responsabilmente in “scienza e coscienza” che cosa è bene fare in quella situazione concreta. Nonostante la possibilità di continui perfezionamenti, la legge ha limiti connaturali che non possono essere mai del tutto scavalcati.
Ha molto insistito, nel corso di tutta l’intervista, sulla necessità di tenere in seria considerazione il limite umano. Non le sembra che si possa incorrere, così facendo, nella tentazione della arrendevolezza e della passività?
Al contrario, sono convinto che la coscienza del proprio limite è condizione fondamentale per il corretto sviluppo delle proprie potenzialità. Limite e possibilità non sono in antitesi; anzi sono tra loro strettamente interdipendenti. Chi infatti fa realisticamente e serenamente i conti con i propri limiti è in grado di valutare contemporaneamente le proprie possibilità e di dare vita pertanto a una piena realizzazione di sé senza sterili fughe in avanti e inutili forme di presunzione. L’uomo maturo è infatti colui che ha abbandonato il regno della fantasticheria adolescenziale – la fase del sogno a occhi chiusi – ma non rinuncia per questo a sviluppare la fantasia creativa, a fare proprio cioè il sogno ad occhi aperti, aderendo a una lettura della realtà nella quale ci si apre costantemente al cambiamento, almeno a quello possibile.
Un ultima domanda: il senso del limite, di cui si è parlato, le sembra sia presente nella Chiesa? E ritiene che si sia correttamente manifestato anche in occasione della recente vicenda di Welby?
È difficile rispondere. Non hanno mancato di emergere in alcuni settori della Chiesa, anche in occasione della vicenda di Welby, atteggiamenti contradditori. La forte difesa della “naturalità” del nascere, del vivere e del morire, che la Chiesa ha sempre sostenuto, sembra contraddetta dalla reazione negativa nei confronti di alcune forme di accanimento terapeutico che costituiscono un grave attentato alla qualità personale della vita umana. Ma, al di là di questo, sconcertante è stata soprattutto la radicalità di alcuni giudizi attorno a questioni estremamente complesse che meriterebbero maggiore prudenza. La giusta difesa di valori irrinunciabili, primo fra tutti quello della vita, non può (e non deve) significare disattenzione alla varietà e complessità delle situazioni personali. Il senso del limite implica talora l’astensione dal giudizio, la capacità cioè di rispettare scelte non facili, dove l’assunzione di posizioni troppo nette può essere espressione di superficialità e, qualche volta, di disattenzione verso le persone e i loro drammi esistenziali.

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