Ryszard Kapuscinski: l'ultima volta a Bolzano

Il ricordo dei giorni passati insieme. La sua saggezza, la sua dolcezza.
24 gennaio 2007 - Francesco Comina

Cari amici,
apprendo ora dalle agenzie della morte del grande reporter Ryszard Kapuscinski. Gli amici dell'istituto polacco di cultura mi avevano avvisato della improvvisa malattia, ma speravamo che il viaggio potesse continuare. Invece Kapuscinski è morto poche ore fa nella sua Varsavia.
Una delle ultime uscite pubbliche, forse l'ultima, è stata a Bolzano nell'ottobre scorso quando lo invitai a nome del Centro per la Pace e della Libera Università. Rimase quattro giorni. Furono momenti intensissimi. Commovente la gita sull'altopiano del Renon prima in funivia e poi a piedi lungo i sentieri per visitare la casa dove vissse per alcuni anni l'antropologo polacco Malinowsky. Kapuscinski desiderava vedere le tracce di quella memoria. Insieme ad un gruppo di studenti trentini ci siamo fermati in un Gasthof a mangiare e i ragazzi gli hanno fatto una lunga intervista. Ryszard era affascinato dal panorama, dalla spontaneità dei giovani, dal sorriso dei contadini. Poi all'università l'incontro pubblico con un bagno di folla ancora oggi inspiegabile per la piccola Bolzano. Quasi mille persone si sono accalcate nell'aula magna. Kapuscinski portò il suo discorso sul tema dell'alterità, sulla convinzione che essere un buon giornalista significa innanzitutto porsi in ascolto degli altri. Da giornalista di un quotidiano pensavo alle tante inadempienze, alle tante voci inascoltate... Il giornalista - disse - è una persona che ha una missione da svolgere: riportare l'armonia sulla terra, essere ambasciatore di pace fra i popoli... Sempre di più il suo discorso si faceva etico, rivolto all'accoglienza, alla pace, alla nonviolenza.
La sera cenammo insieme a casa mia con la giornalista polacca Magdalena Szymkov, con Paolo Rumiz, con Cornelia, con una nostra amica. Kapuscinski aveva fretta di ritirarsi per dormire. Era stanco della lunga giornata. Ma era entusiasta di questa "kleine Heimat", di questa piccola patria e del sole che illumina i prati verdissimi.
Gli abbiamo scritto poco prima di natale per fargli gli auguri. Abbiamo scelto di salutarlo in spagnolo, una lingua che ama. Si fece sentire per lettera. Poi più nulla. Ora il silenzio, la fine. Eppure il viaggio del grande reporter continua...
Un saluto triste ma come ci ricorda l'amico che Kapuscinski considerava un maestro, Raimon Panikkar: "Il cuore piange perché vive"

KAPUSCINSKI, NARRATORE DELL’ALTRO MONDO
FRANCESCO COMINA
Da “Il monaco che amava il jazz” (il Margine editore, Trento 2006)

Ryszard Kapuscinski è uno dei grandi giornalisti del nostro tempo. I suoi reportage dall’Africa, dal Medio Oriente, dal vecchio impero sovietico sono diventati libri bellissimi, veri documenti di una storia letta non con la lente di chi controlla l’informazione, ma con gli occhi dei protagonisti: le persone, i popoli, le comunità.
Senza questo rovesciamento di prospettiva non è possibile raccontare davvero cosa accade nel mondo. Il giornalista deve immergersi nei drammi e nelle speranze della gente altrimenti non riesce a cogliere, nel profondo, il senso di un evento: «Il cinico – scrive Kapuscinski in Lapidarium – non è adatto al mestiere di corrispondente di guerra o di corrispondente estero. Questa professione, o missione, presuppone una certa comprensione per la miseria umana, esige simpatia per la gente. Bisogna sentirsi membro di una famiglia di cui fanno parte anche tutti quei poveracci del nostro pianeta che non possiedono letteralmente nulla … Un mestiere del genere non si esercita senza calore umano. È colpa del cinismo, del nichilismo, della caduta dei valori, del disprezzo per gli altri, se il mondo è diventato tanto insopportabile».
Kapuscinski ha viaggiato moltissimo. Arrivando in un luogo gli capitava spesso di sentirsi parte di un mondo rovesciato rispetto a quello da cui proveniva. Allora bisogna dimenticare tutto, lasciare i vecchi stereotipi a casa e farsi coinvolgere totalmente dalla nuova visione: «Ognuno di noi immagina in modo diverso la mappa del mondo. Ci sono la mappa del bambino e quella dell’adulto. Quella del tibetano che non ha mai lasciato i monti natii e quella dell’abitante di Manhattan, serrato tra i canyon della sua città … Due mappe del mondo: una della prima, l’altra della seconda metà del ventesimo secolo. Nella prima gli stati indipendenti appaiono una minoranza, mentre il resto del mondo è composto da colonie appartenenti ad una decina di imperi padrone. La mappa della fine del ventesimo secolo presenta invece oltre centottanta stati indipendenti (anche se spesso si tratta di un’indipendenza puramente formale). Le colonie sono sparite, il dominio dei forti sui deboli ha assunto forme diverse, più sottili e complesse».
Proprio questo interessa a Kapuscinski: come creare condizioni di vita materiali in grado di dare opportunità anche ai popoli (la stragrande maggioranza dell’umanità) che stanno nell’altra metà del mondo e sono poveri? Come dare dignità anche alle mappe della terra che sono fuori dal perimetro dell’Occidente e dunque emarginate? Scrive: «Il fatto, il triste fatto che l’ottanta per cento della popolazione terrestre viva nell’indigenza e spesso nella fame la dice lunga sulla pochezza umana. Esso dimostra infatti che l’uomo è per natura un essere inetto, incapace, passivo, smarrito; una creatura sempre costretta a cercare Dio, a invocare il suo aiuto, a supplicarlo di prenderla sotto la sua protezione».
Kapuscinski ha trasferito nel concreto l’etica dell’alterità, come ci è stata trasmessa dai pensatori del Novecento. La prima fonte del suo giornalismo sono «gli altri»: «Devo vivere fra le persone, mangiare con loro, fare la fame con loro. Voglio diventare parte del mondo che descrivo, immergermici e dimenticare ogni altra realtà. Quando sono in Africa non scrivo lettere né telefono a casa. Il resto del mondo svanisce … Ho bisogno di illudermi, sia pur fuggevolmente, che il mondo dove mi trovo in questo momento sia l’unico esistente». E ancora: «Non posso raccontare come si muoia al fronte standomene seduto in albergo, lontano dalla battaglia. Che ne so di come si sta in assedio, di come si svolge la lotta, di quali armi abbiano i soldati, di quali vestiti indossino, di che cosa mangino e che cosa provino? Bisogna capire la dignità degli altri, accettarli e condividere le loro difficoltà».
Ha imparato il mestiere di giornalista sul campo. Negli anni Cinquanta ha iniziato a viaggiare nel mondo come corrispondente dell’agenzia polacca PAP con cui ha lavorato fino al 1981. Le sue avventure sono incominciate subito con i primi resoconti dall’India e dalla Cina. Ricorda di essere stato catapultato in un mondo che non conosceva assolutamente. Ecco il battesimo della Realtà, la signora molto stravagante che ci siede accanto nei nostri giorni e nelle nostre notti. La vita gli si è spalancata davanti con le sue enormi contraddizioni. Senza telefono, senza computer, senza fax, il giovane reporter raccoglieva le notizie attraverso il canale più sicuro, quello delle relazioni umane.
Viaggiare è il suo modo di vivere. Conoscere è il motore delle sue giornate. Studiare fa parte della sua natura. I libri sono i compagni di viaggio più fedeli: «Leggo tantissimo. Studio la storia. Mi interessano i grandi storici come Gibbon, Mommsen, Ranke, Michelet, Burckhardt, Toynbee. Poi viene la filosofia, la mia grande passione. Mi sento molto vicino all’esistenzialismo. Due sono i filoni degli scrittori che considero importanti. Da una parte la tradizione romantica di Hemingway, Saint-Exupéry, di Cechov e di Conrad. Dall’altra, autori quali Thomas Mann, o Marcel Proust…». Ma anche la poesia, la musica, l’arte. Kapuscinski ha raccontato la complessità africana dal basso. Ha vissuto nelle baracche dei miserabili, nelle tende del deserto algerino, nei villaggi ugandesi dove ha rischiato di morire di malaria cerebrale, ha tremato, insieme al popolo, nei giorni del colpo di Stato militare del 1966 in Nigeria, ha raccontato la storia drammatica del Ruanda finita in un bagno di sangue nel 1994, ha descritto i colori dell’Eritrea sconvolta da decenni di guerra con la vicina Etiopia: «L’europeo di passaggio in Africa – scrive in Ebano – di solito ne vede solo una parte, ossia l’involucro esterno, spesso il meno interessante e forse anche il meno importante. Il suo sguardo scivola sulla superficie senza penetrare oltre, quasi incredulo che dietro a ogni cosa possa nascondersi un segreto e che questo segreto pervada le cose stesse».
Non manca l’America Latina. I piedi del reporter hanno attraversato molti Paesi lungo tutti gli anni Sessanta e Settanta. È stato il periodo più duro per alcuni Stati, sottoposti alla violenza di feroci dittature. Kapuscinski ha raccontato la guerra fra Salvador e Honduras, ricordata come la «guerra del calcio» perché scoppiò durante le qualificazioni per i mondiali del Messico del 1970. La guerra durò una settimana, dal 14 al 20 luglio 1969. Il Salvador, che sta sul Pacifico, ambiva a conquistare l’Honduras che sta sull’Atlantico. In tal modo il piccolo Salvador si sarebbe trasformato di colpo in una piccola «potenza» sui due oceani. «I piccoli stati del Terzo, del Quarto e di tutti gli altri mondi possono sperare di suscitare qualche interesse solo quando decidono di spargere sangue. Triste ma vero» è l’amara considerazione di Kapuscinski in La prima guerra del football e altre guerre di poveri. E c’era in Iran nel 1979 quando cadde l’ultimo scià di Persia, Mohammed Reza Pahlevi, salito al trono nel 1953 grazie al sostegno americano. Fu l’inizio di una lunga monarchia fondata sul culto della personalità e sulla repressione feroce di ogni opposizione. Quando il carisma di Reza entrò in crisi, l’ayatollah Khomeini apparve dall’esilio francese come l’unico leader in grado di risarcire l’orgoglio ferito di un popolo di umiliati.
Ha attraversato l’impero sovietico in sfacelo viaggiando per quarantamila chilometri. Ha riportato alla luce i ricordi delle persone semplici, grazie alle quali ha ricostruito la grande storia senza preoccuparsi troppo di analizzarla secondo categorie ideologiche. Ha scavato sotto la polvere delle rivoluzioni, ha cercato di intraprenderne il senso facendosi aiutare dalle analisi degli scrittori che hanno rappresentato quel coacervo di tensioni politiche e culturali: «L’Occidente, affascinato ma anche spaventato dalla Russia – afferma Kapuscinski nel chiudere Imperium – è sempre pronto a venirle in aiuto, se non altro per assicurarsi la pace. L’Occidente può anche dire di no a tutti, ma alla Russia dirà di sì».
Kapuscinski è passato attraverso questi grandiosi rivolgimenti con la semplicità di un uomo assetato di sapere cosa sta accadendo. Si è lasciato alle spalle le letture di parte, ma nel momento in cui sprofondava nella realtà sapeva da che parte stare: ha fatto parlare le vittime, gli oppressi, i dannati della terra. Sono i poveri travolti dalla storia che indicavano, di volta in volta, al giornalista come va il mondo. La sua capacità è stata solo quella di selezionare le informazioni e di raccontare quello che gli altri vivevano sulla propria pelle: «La mia curiosità mi spinge continuamente in giro per il mondo. Non esiste un luogo sulla terra dove mi sentirei di dire: “Voglio restarci per sempre” … In qualche modo siamo tutti nomadi e sempre più lo diventiamo».
Il viaggio, allora, è un movimento di ricerca, un andare alla ricerca di sé nell’incontro con altri. Come era nelle intenzioni del grande Erodoto di Alicarnasso, l’autore greco delle Storie, che Kapuscinski considera come il padre e il precursore di un genere di scrittura: il reportage. È il primo a rendersi conto della molteplicità del mondo e a esprimere il desiderio di comprendere qualcosa della varietà di luoghi, volti, tempi dell’umanità.
In viaggio con Erodoto è il racconto di un’avventura alla ricerca degli altri. Kapuscinski si identifica con il suo precursore e tenta di rileggere la sua storia di giornalista secondo l’insegnamento dello scrittore greco: «Ma come faceva Erodoto, essendo greco, a sapere che cosa narrassero i lontani persiani, i fenici, gli abitanti dell’Egitto e della Libia? Recandosi di persona in quei paesi, interrogando, osservando e raccogliendo dati in base a ciò che vedeva e che la gente gli raccontava … Più leggevo Erodoto, più scoprivo in lui un’anima gemella. Che cosa lo aveva indotto a muoversi, ad agire, a intraprendere lunghi viaggi e spedizioni rischiose? Probabilmente la curiosità del mondo, il desiderio di esserci, di vedere e di sperimentare tutto di persona. Una passione del genere è rara a trovarsi».

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