Sempre nonviolenza

Prosegue il dibattito nel mondo del pacifismo: guerre, nonviolenza, interventi armati. Peace-keeping e Peace-enforcencin.
3 ottobre 2006 - Giancarla Codrignani

Spero che gli incontri che si faranno ricompongano e allarghino i gruppi interessati a parlare-e-fare nonviolenza, anche perché sono intercorse fra noi parole dure e atteggiamenti di appropriazione di verità che non tanto possono dispiacere a qualcuno, ma sono in sé distruttivi.
Potrebbe essere inutile anche riparlarne dopo qualche settimana, se le divergenze restano frontali; se, cioè, si può pensare che i fatti che continuano a susseguirsi non fanno che confermare proprie posizioni di principio.
La logica amico/nemico incomincia ben prima dei fronti di guerra. Suppongo che tutti siamo d’accordo sull’insensatezza dell’intervento del Papa a Ratisbona. Eppure non è dubbia la sua buona fede: crede davvero che la "sua" visione sia superiore a quella di altri che, pure, non vorrebbe offendere. Ma è lì l’errore: invece di ricevere Oriana Fallaci che non solo temeva lo scontro di civiltà, ma vedeva già finito il tempo del dialogo e della ricerca di intesa, doveva pensare a fare in sede appropriata non l’attuale incontro fra diplomatici, ma quella conferenza cristiano-islamica e con le tre religioni monoteistiche che da anni gente di buona volontà realizza in forma locale continuativa, ma senza effetto di conoscenza diffusa perché viviamo in un paese in cui l’ignoranza in materia religiosa è propria in primo luogo dei cattolici praticanti e la visibilità la dà solo il compromesso con il potere dei media.
Papa Ratzinger non è matto e non vuole produrre nuovi attentati e guerre, ma “appare” quello che ha fatto. D’altra parte il verticalismo del potere vaticano impedisce lo scambio di idee e neppure la base può intervenire in nessun momento dell’iter decisionale cattolico.
Accade così anche agli Stati, dove, - se c’è democrazia - i cittadini hanno il dovere di interessarsi del bene comune e il potere di attivare la politica. Tuttavia accade che quelli che si interessano e partecipano siano minoranza: se negli Usa “la gente” elegge Bush, le sue decisioni se le tengono tutti. E non solo gli americani.
Che la guerra in Afghanistan fosse un errore è stato detto fin dal primo giorno non solo dai pacifisti; tanto è vero che si fece avanti la Nato e non l’ONU. Ma se la responsabilità della decisione è tutta del presidente Bush, tutti sapevano (o dovevano sapere) che cosa aveva significato, nel 1979, la sua Campagna, in piena guerra fredda, di sostegno ai talebani (che si sapeva benissimo chi fossero) contro i russi che erano, sì, occupanti a fini di potere, ma avevano costruito strutture sociali e le donne studiavano e lavoravano. Infatti le donne che dieci anni dopo clandestinamente facevano scuola alle bambine, tenendo sul tavolo un testo del Corano a disposizione delle guardie rivoluzionarie per giustificarsi in caso di ispezione, erano quelle che erano state all’università sotto i russi e sono quelle che oggi tentano di tenere la testa fuori dal burqa fin che possono.
I governi americani credono di poter giocare sullo scacchiere internazionale con le proprie pedine; ma commettono errori in continuazione, non solo perché sono superficiali e non attivano il lavoro diplomatico, ma perché - come sempre chi si affida alla forza, soprattutto in tempi come i nostri - perdono. E con loro perdono i governi che, contro il proprio interesse, per puro adeguamento ai rapporti di forza, si accodano agli Usa. Per questo è importante rendere autonoma l’Europa.
Quindi, l’accordo o il disaccordo fra nonviolenti, non sta nel fatto che l’intervento in Afghanistan sia giusto o sbagliato; sta nel fatto che Usa e Nato hanno imposto la guerra e il governo italiano ha accettato la partnership. Il ragionamento vale anche per l’Iraq. E, per quanto in forma diversa, per il Libano.
Ho scritto più di una volta sul trasformismo nominalistico delle formule, compresi il Peace-keeping e il Peace-enforcing. E che occorre dare senso non platonico ai diritti umani. Vogliamo chiederci se - come cittadini, e come cittadini nonviolenti - abbiamo qualche responsabilità nel capire “tempestivamente” come stanno andando le cose; se possiamo “prevenire” per impedire che i conflitti trascendano in guerra (sarebbe questo il tempo adatto per mandare i caschi bianchi o rosa per fare cultura, educazione,
assistenza, aiuto materiale); se, quando poi eserciti o militanti arrivano alla violenza e ha la peggio la popolazione civile con morti e stupri e sangue di bambini, gli altri paesi debbono solo stare a guardare?
I governi sono fatti da gente come noi, che aspettano che l’acqua salga prima di intervenire: come spiegare altrimenti che dal 1947 nessuno di essi ha tentato seriamente una politica attiva per risolvere la questione israelo-palestinese e far rispettare le risoluzioni dell’ONU? D’altra parte il movimento pacifista ha denunciato (tardivamente, per giunta, ma prima del 1968 sembra che non fosse neppure pensabile fare denunce) l’occupazione e le persecuzioni a danno dei palestinesi, ma non è andato - a parte il solidarismo - al cuore del problema.
Viviamo un’epoca strana, in cui non si è mai parlato tanto dei diritti umani, senza aprire la via al loro impiego. Eppure la globalizzazione comporta anche la trasformazione culturale del mondo: la violenza continua ad abitarlo in forme inaccettabili, anche se incontestabili. C’è violenza ambientale: sono attesi cambiamenti climatici, penuria d’acqua, fine di risorse senza che ci sia consapevolezza del fatto la prevenzione apre perfino orizzonti di guadagno. C’è violenza di genere, che è il pezzo più rilevante a cui badare per la trasformazione dei costumi aggressivi (lo dice in qualche modo anche Freud) e non ci sono “movimenti” di maschi desiderosi di uscire dal Nanderthal e dal prototipo del palestrato che va per soldi alle isole dei famosi o nelle missioni “di pace” governative. C’è violenza nelle religioni che impongono il loro dio; c’è violenza tra le identità, come se le identità non fossero forme mobili e transeunti; c’è violenza sociale e la schiavitù nel lavoro persiste anche all’interno dei Paesi ricchi.
Eppure, se uno accetta gli OGM nei propri campi, l’impollinazione li porterà anche negli altri e di qui sulle nostre tavole. Sarà, dunque, ben più dura la lotta che incomincia quando un fatto è irreversibile. Così per le guerre: quando non si sono sapute prevenire e “ci sono”, salvare la pace e la nonviolenza diventa molto più difficile. E non si può dire che siano assassini quelli che prendono atto che la violenza è in atto e ne discutono in un libero Parlamento. Era accettabile la morte e la distruzione (per l’ennesima volta) del Libano, anche se si deve sapere che l’interposizione costerà cara, non solo economicamente?
Ottima la scelta di “prevenire” il pericolo nucleare con una Campagna ad hoc; ma anche in questo caso occorre prestare attenzione a elementi non irrilevanti: gli arsenali chimici e biobatteriologici (le “armi dei poveri”, si diceva un tempo) non sono meno pericolosi; il Bangladesh è il Paese a cui tenere fissa l’attenzione anche in questo campo; non va sottovalutata la necessità di formulare una strategia chiara non riferibile direttamente alle ambizioni iraniane. Il nucleare fuori dalle nostre basi, certamente, come bene ha fatto il presidente Soru per la Sardegna; ma non solo per il beneficio del nostro territorio, ma anche per estendere la problematica almeno al resto dell’Europa.
Sono fatti come questi quelli su cui si deve discutere. Con competenza, per piacere, non solo per onesto sentire. Altrimenti la nonviolenza cede a opposti “istinti”.

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