SOCIETÀ

Un’informazione alternativa è possibile

La potenza degli attuali computer stride con la debolezza degli strumenti culturali oggi diffusi nella società. Un libro per capire e riflettere.
Alessandro Marescotti
Nuova pagina 1

Non è possibile cambiare la società se non si cambia l’informazione e se non si cambia in particolare il sistema di produzione e diffusione delle informazioni. L’informazione alternativa è un libro di Carlo Gubitosa, edito dalla EMI (Editrice Missionaria Italiana, Bologna), che affronta di petto la questione con l’evidente intento di invitare tutti a fare giornalismo di base. Non tutti facciamo i filosofi ma tutti siamo filosofi, diceva in sostanza Gramsci.

Da Gramsci a Berlusconi

Oggi, parafrasandolo, possiamo dire che, pur non facendo tutti i giornalisti, tutti siamo giornalisti perché tutti siamo attraversati dalle informazioni; le informazioni le facciamo rimbalzare noi stessi - chi più chi meno - usando la nostra capacità di discutere, di analizzare e filtrare, di giudicare, di collegare i dati e pervenire a nostre personali “scoperte”. Questa funzione di rielaborazione e diffusione dell’informazione, più o meno critica, fu oggetto delle analisi di Gramsci sugli “intellettuali” in quei Quaderni che egli scrisse in carcere. Gramsci giunse alla lucida consapevolezza che nessun profondo cambiamento sociale si sarebbe potuto ottenere senza una “conquista” degli intellettuali, lo strato sociale intermedio fra potere istituzionale e popolo, senza cioè esercitare una “egemonia” culturale nell’ambito di chi produce e diffonde le idee e le informazioni.

La lezione di Gramsci è stata appresa con bravura ineguagliabile da un non comunista: Silvio Berlusconi. Egli, meglio dei comunisti, ha intuito che la tecnologia innerva oggi le funzioni intellettuali. Il Cavaliere, aggiornando Gramsci ai tempi attuali, ha compreso che l’egemonia intellettuale passa attraverso il controllo delle reti e delle “macchine” che confezionano e diffondono le informazioni. Di fronte a questo scacco matto di Berlusconi alla sinistra - alla quale Pasolini aveva invano cercato di spiegare la devastante funzione omologatrice della televisione - oggi molti si chiedono che fare. E alcuni continuano ancora a discutere su come rivendicare un pezzetto di televisione in più. Ma la costruzione di una società realmente nuova e partecipata passa attraverso la progettazione di mezzi di comunicazione che siano realmente nuovi e partecipati, che rendano quanto mai ampia la gamma dei protagonisti dell’informazione, che dilatino la funzione del “giornalismo” anche a soggetti che mai potrebbero mettere piede in uno studio televisivo o in una redazione di un giornale. Ed ecco allora il valore del libro di Carlo Gubitosa, che è preceduto da una splendida prefazione di Riccardo Orioles, in quale, fra le altre cose, scrive: “Fra il Vietnam e oggi, e fra Piazza Fontana e oggi, è passato un secolo sul piano della tecnologia. Non tanto per i computer e l’internet in se stessi, quanto per il fatto che un qualunque ragazzino dei nostri giorni ha in mano una potenza computazionale che un tempo si trovava a stento in un istituto di fisica nucleare”. Queste parole ci danno l’idea dei profondi cambiamenti che oggi viviamo, talora come semplici spettatori, talora con la voglia e la grinta di essere protagonisti, ben sapendo che anche noi abbiamo o possiamo avere in mano la “potenza computazionale” di cui sopra.

Giornalisti contro cittadini

Il libro di Carlo Gubitosa, mantenendo al centro il rapporto strategico che intercorre fra informazione di base e telematica, prende in considerazione questioni quanto mai correlate come l’associazionismo in rete, l’obbligo di registrazione dei siti web, il sistema operativo “alternativo” Linux, la dittatura del copyright, la propaganda di guerra, ecc.. Vi sono pagine in cui viene messo in rilievo il braccio di ferro intercorso fra la “corporazione” dei giornalisti più tradizionalisti e il mondo della telematica sociale, la prima intenta a imporre per legge la registrazione dei siti web presso i tribunali (come se fossero vere e proprie testate giornalistiche con tanto di corresponsabilità del direttore responsabile per le informazioni pubblicate anche da terzi) e la seconda tesa a difendere l’articolo 21 della Costituzione che garantisce a tutti la possibilità di espressione del pensiero con ogni mezzo, quindi anche con la telematica. Questo braccio di ferro - dopo alterne vicende - per ora vede ancora vincitori noi liberi cittadini dotati di computer e della “potenza computazionale” di cui sopra. E tuttavia la consapevolezza di avere fra le mani tale “potenza computazionale” è quanto mai scarsa. Ad esempio, nella scuola non si compie una vasta azione intenzionale di educazione alla scrittura e al giornalismo di base.

Freinet e Milani

La caduta di tensione politico-culturale di partiti e intellettuali, che ormai si contendono il potere anziché cambiarlo, ha portato alla perdita di un patrimonio pedagogico che faceva perno ad esempio sulla cosiddetta “scuola attiva” di Célestin Freinet, a cui si ispirò anche don Lorenzo Milani sperimentando la scrittura in forme innovative e dal basso (si pensi al metodo di scrittura collettiva con cui fu realizzato il libro Lettera ad una professoressa). Célestin Freinet ideò la sua “tipografia scolastica” dopo aver preso parte alla Resistenza, in un’epoca in cui scrivere e stampare un giornale era un’impresa ciclopica, faticosa e macchinosa, che richiedeva tanta manualità e tenacia. La “tipografia” di Freinet rimase un’aspirazione straordinaria che si scontrò con problemi di ordine pratico i quali oggi - tramite i computer e le stampanti di cui disponiamo - sarebbero superati e superabili con facilità. Oggi abbiamo i mezzi ma si è perso lo slancio di Freinet, il quale alla tipografia associava il metodo delle lettere da inviare nel mondo. Stampare e comunicare con la società circostante erano i pilastri di una scuola attiva e “popolare”, dove vivere, comunicare e creare diventavano una sola cosa. Don Milani fu artefice di questa scuola attiva che portava i ragazzi a farsi giornalisti. Quanto è rimasto oggi di tutto ciò nelle teorie di tanti nostri esperti di pedagogia? Leggendo i loro scritti si scopre che il computer e Internet sembrano essere richiamati unicamente per il senso di modernità e di efficienza che sembrano infondere, ma se cercate espressioni come “educazione alla pace” o “informazione alternativa” cercherete invano perché tecnologia e prospettiva di cambiamento non sono associate.

Per un’informazione “dal basso”

Nel documento dei saggi (convocati dall’ex ministro della Pubblica Istruzione Berlinguer) non era mai citata l’espressione “educazione alla pace”, mentre ricorrevano tante volte le parole “multimedialità”, “computer”, completamente sconnessi da una prospettiva di cambiamento che avesse al centro l’uomo e i valori più alti: la pace, la solidarietà, i diritti umani. Questo è ciò che si può constatare facendo una ricerca elettronica sul testo del documento dei “saggi”, e la cosa crea sgomento perché ciò significa che neppure quei saggi hanno saputo o voluto comprendere il valore rivoluzionario della “potenza computazionale” che oggi abbiamo o possiamo avere fra le nostre mani. L’arma nonviolenta - che possiamo contrapporre alla violenza di altre armi - rimane nel fodero. E mentre alcuni giornalisti hanno in mente di creare un “bollino blu” per marchiare le buone informazioni scritte in rete da giornalisti professionisti (“informazioni attendibili”), in modo da distinguerle da quelle di minor qualità (o “non attendibili”) prodotte dai non giornalisti, noi che facciamo? Probabilmente urge costruire nella scuola redazioni- laboratori che diano valore alla scrittura come sistema di comunicazione sociale e di costruzione- verifica delle conoscenza.

La scrittura rischia di morire, uccisa dal telefono che ci consente di conversare a centinaia o migliaia di chilometri di distanza quando fino a vent’anni fa quasi ogni italiano aveva l’abitudine di scrivere almeno una lettera al parente lontano. La storia del passato è scritta in lettere che oggi sono state sostituite da telefonate volatili di cui non rimarrà mai traccia. Soldati al fronte, emigranti con la valigia di cartone, fidanzate in attesa, mamme con la penna in mano e un francobollo sulla scrivania, un intero popolo ha comunicato con la scrittura. Oggi questa letteratura popolare di fatto non esiste più, le tariffe stracciate di Teledue o di Infostrada, gli SMS da 160 caratteri e le faccine che ridono o piangono, le foto digitali su GPRS hanno cancellato l’emozione della scrittura. Nella scuola rischiamo di insegnare una tecnica diventata ormai superflua, superata di gran lunga dal leggere e dal far di conto (soprattutto il far di conto). Forse educando i giovani a scrivere e impaginare i propri giornali - ora che la “potenza computazionale” lo consente - potremo ritrovare il valore individuale e collettivo della scrittura e il senso che a scuola vale la pena insegnare a scrivere. Ma a che scopo fare tutto ciò se non vi è il senso e la speranza che tutto ciò può contribuire a costruire una società altra e migliore? Questo uso “politico” della scrittura, che distingueva don Milani da pedanti professori e professoresse, è alla base di un nuovo programma di pedagogia ancora da scrivere. Il libro di Carlo Gubitosa può aiutarci a fare i primi passi di questo lungo percorso educativo e civile.

 

Ultimo numero

Rigenerare l'abitare
MARZO 2020

Rigenerare l'abitare

Dal Mediterraneo, luogo di incontro
tra Chiese e paesi perché
il nostro mare sia un cortile di pace,
all'Economia, focus di un dossier,
realizzato in collaborazione
con la Fondazione finanza etica.
Mosaico di paceMosaico di paceMosaico di pace

articoli correlati

    Realizzato da Off.ed comunicazione con PhPeace 2.7.15