INDUSTRIE

La politica delle industrie delle armi

I nuovi complessi militari industriali nell’epoca della guerra globale permanente.
Achille Lodovisi (Ires Toscana-Oscar)
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Quanto è avvenuto dopo l’11 settembre ha avuto e avrà ripercussioni di rilievo nel processo di ristrutturazione e internazionalizzazione finanziari e industriale che, dai primi Anni Novanta, interessa il comparto della produzione militare nel mondo industrializzato, in Russia e in Cina. Negli Usa e in Gran Bretagna, ad esempio, la pianificazione delle operazioni belliche in corso e future, tiene in grande considerazione le complesse esigenze legate al riassetto e potenziamento finanziario e produttivo dei grandi gruppi industriali che producono armamenti.

Una nuova politica

Non si tratta della costruzione di una base di strutture e relazioni politico-industriali simile a quella sorta nel corso delle due guerre mondiali e durante il confronto tra i due blocchi. In passato l’apparato militare industriale si costituiva e operava – in tutte le fasi del ciclo di produzione delle armi e dei beni e servizi di impiego bellico – seguendo le direttive del governo; oggi il ruolo di controllo e indirizzo degli organismi politico-militari degli stati nazione, soprattutto per quel che riguarda il rapporto tra la gestione del marketing, la pianificazione finanziaria e industriale e gli assetti di proprietari delle aziende, si è trasformato assumendo la forma della continua interrelazione sistemica tra la sfera politico militare e quella industriale. Dopo la fine della “guerra fredda”, governi e dirigenti delle aziende invece di procedere a una generale riconversione a produzioni civili degli apparati industriali, come possibile risposta alla contrazione e ristrutturazione delle spese militari, hanno scelto strategie che conducono alla formazione di pochi oligopoli industriali-militari. Questi ultimi pianificano la loro strategia di crescita ricorrendo a continue acquisizioni o fusioni con altre società. Le grandi manovre finanziarie di inglobamento si pongono come obiettivi l’estensione su scala planetaria della presenza commerciale e industriale e l’acquisizione di un forte potere di condizionamento sui governi nazionali. Contemporaneamente si sta verificando, negli Usa, ma anche in Europa, un’evoluzione ‘politico-culturale’ tra i responsabili dei governi nazionali, sempre più disponibili ad accettare la presenza di monopoli nel settore della produzione di sistemi d’arma. Gli apparati statali sono divenuti partners di grandi concentrazioni finanziarie e produttive transnazionali, in larga parte privatizzate, che possiedono un sempre maggiore potere di condizionamento dei mercati interni e internazionali (così come è già avvenuto nel settore non militare) e hanno menzionato commerciali nettamente superiori – almeno nel caso delle grandi concentrazioni europee (EADS, BAE e Thales) – rispetto alla domanda a livello nazionale. I primi cinque gruppi industriali al mondo per fatturato militare controllavano nel 1990 il 22% delle vendite di armi al mondo, nel 1998 tale quota era salita al 42% mentre i primi cinque fornitori del Pentagono controllavano nel 2000 il 31% delle commesse degli Usa, contro il 22% del 1990. In Francia, Germania; Inghilterra e Italia i maggiori gruppi industriali controllano in media dal 15 al 20% del mercato interno. In questo contesto, i governi nazionali stanno esercitando un controllo sempre minore sulle forniture di armamenti alle proprie forze armate e sulle esportazioni verso altri Paesi, così un altro fondamento della sovranità dello stato contemporaneo si sta sfaldando.

Nuovi monopoli

La privatizzazione della produzione bellica ha accentuato i già rilevanti problemi di trasparenza connessi alla progettazione, produzione e commercio della tecnologia e dei servizi di carattere militare. L’assetto monopolistico ha inoltre fatto insorgere problematiche assai complesse e dalle evidenti conseguenze negative. Infatti le aziende che vantano posizioni di privilegio nello sviluppo di determinati programmi d’armamento riescono spesso a condizionare le scelte di politica della difesa ed estera, inoltre la scomparsa della concorrenza nel settore sta generando perplessità di carattere tecnico-industriale persino tra i vertici militari. Le aziende hanno assunto un ruolo decisivo anche per quanto concerne la fornitura di attrezzature e servizi per logistica militare. Ciò è avvenuto grazie al ricorso all’outsouring, ossia l’appalto a imprese private di funzioni e servizi in precedenza gestiti dall’organizzazione militare. I rischi associati a questa strategia, ispirata dalle politiche di ristrutturazione dei bilanci per la difesa, riguardano il diffondersi della corruzione associata alle gare d’appalto, il costruirsi di ponti lobby d’affaristi capaci di condizionare le scelte del mondo politico e l’accentramento monopolistico delle conoscenze nel settore dell’addestramento e della manutenzione dei sistemi d’arma. Quest’ultimo, visto il crescente livello di complessità e integrazione dei sistemi d’arma, sta assumendo un ruolo decisivo e rappresenta il 70% dei costi che sono associati allo schieramento dei nuovi armamenti. Le grandi aziende del settore militare dominano anche questo mercato che dimensioni economiche di tutto rispetto. Per la BAE, ad esempio, nel 2000 ha raggiunto il valore di 2,5 miliardi di dollari, par la Lockheed Martin 2,3 miliardi di dollari, mentre la canadese Bombardier (azienda che nel 2001 ha fatturato 13,9 miliardi di dollari realizzando profitti per 251 milioni di dollari) deve circa la metà delle proprie entrate alle attività di addestramento al volo e manutenzione degli aerei. L’affermarsi di una concezione dell’impiego degli armamenti sempre più basata sull’integrazione di reti di comunicazione, commando, controllo e informazione ha reso strategiche le forniture e la consulenza di aziende leader nell’Information Technoligy, non necessariamente specializzate nel settore militare. Quest’ultimo recente sviluppo ha destato molte preoccupazioni relativamente alla capacità degli stessi apparati militari di mantenere il controllo sulla pianificazione e conduzione delle operazioni sul campo. In futuro si verificherà con sempre maggiore frequenza una commistione, foriera di gravi rischi e distorsioni per quanto riguarda il controllo democratico sulla ricerca scientifica e sulle relazioni industriali, tra esigenze della pianificazione industriale-militare ed evoluzione dei settori civili.

In Europa e in Italia

Le direttrici attuali del processo di espansione transnazionale dell’industria europea sono tre: la prima è quella interna all’Unione Europea, esemplificata dall’accordo tra sei nazioni principali produttrici di armamenti in Europa (Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Svezia e Italia) siglato il 27 luglio 2000 allo scopo di facilitare la ristrutturazione e l’efficacia operativa delle aziende a produzione militare. La seconda è quella degli accordi con Usa e Canada; la terza è rappresentata dall’acquisizione di imprese, il più delle volte afflitte da gravi problemi finanziari, nei Paesi produttori di seconda schiera (in Europa orientale e meridionale, in Asia e America Latina). Nel 2001 sono state create e ampliate tre grandi joint-venture europee che vedono la presenza dell’industria italiana: la collaborazione tra l’Augusta e l’inglese GKN-Westland nel settore elicotteristico (diretto concorrente del consorzio franco-tedesco Eurocopter), le Alenia Marconi Systems, nel settore dell’avionica, e la MBDA – formata da BAE Systems, EADS e Finmeccanica – un colosso oligopolistico del settore missilistico che, sulla carta, vale un fatturato di 2,1 miliardi di dollari con un portafoglio ordini di ben 12 miliardi di dollari. Le dinamiche in essere presentano gravi problemi e contraddizioni; i grandi gruppi industriali esercitano pressioni sul mondo politico per poter disporre di un portafoglio ordini pianificato ma soprattutto esente da repentine variazioni o cancellazioni. Un futuro mercato unico degli armamenti di dimensioni europee, quindi comparabile con quello interno del quale dispongono i concorrenti statunitensi, alimentato dallo sviluppo di nuovi programmi d’acquisizione, rappresenta l’obbiettivo principale delle lobby militari-industriali. La formula della Politica Estera e di Sicurezza Europea (PESC) viene a risentire largamente di tali pressioni e, in mancanza di una chiara impostazione delle sue linee fondamentali, la PESC viene di fatto affidata agli interessi militari-indusriali.

L’attuale pericoloso paradosso, prodotto di una concezione antidemocratica del processo di costruzione politica dell’Europa, vede l’UE sprovvista di una politica di sicurezza condivisa dai governi nazionali e soprattutto dai cittadini europei, ma nel contempo già impegnata in costosi e aggressivi programmi d’armamento finalizzai ad acquisire, entro il 2020, una elevata capacità di proiezione di potenza aerea. Nonostante i potenti interessi coagulati attorno all’industria bellica siano di fatto costruendo ‘nella pratica’ la PESC, lo scenario non è cero privo di stridenti contraddizioni e conflitti ormai evidenti. Infatti è ancora da chiarire quale sia l’asse egemone nel campo della produzione egemone armiera europea: la lotta in corso vede contrapposto il blocco militare franco-tedesco a quello Usa-Gran Bretagna. Come ha scritto l’International Institute for Strategic Studies di Londra le due possibili strade che può percorre l’industria europea degli armamenti sono: da un lato l’allargamento della collaborazione con gli Stati Uniti al fine di costruire una base tecnologica e industriale comune, all’opposto la creazione di due fortezze industriali-militari indipendenti e in aspra competizione. L’ipotesi di una sempre maggiore collaborazione tra le due sponde dell’Atlantico è caldeggiata dalla dirigenza dell’industria britannica per difendere i numerosi e cospicui investimenti realizzati sin dagli Anni Ottanta negli Usa tramite acquisizioni, partecipazioni a joint venture e aperture di filiali. Sul fronte opposto si colloca la posizione del gruppo dirigente francese, favorevole a una pronunciata autonomia dell’Europa, mentre la Germania sta mantenendo un atteggiamento sostanzialmente ambiguo e molto più attento a consolidare le proprie posizioni piuttosto che a scegliere tra le due.

La cooperazione europea per lo sviluppo dei sistemi d’arma più avanzati procede tuttavia a rilento, incontrando forti ostacoli nell’esistenza di una palese contraddizione politico-economica tra il processo di integrazione europea e quello con l’alleato statunitense all’interno della NATO. L’industria Usa è molto restia – nonostante le collaborazioni in atto – a condividere sino in fondo con gli europei il know-how tecnologico e logistico. La natura delle armi moderne fa sì che mutamenti significativi nella tecnologia militare possono provocare cambiamenti repentini e profondi negli equilibri di potere a livello internazionale. Sembra dunque assai improbabile che i colossi statunitensi e il governo USA siano disposti oggi e nel futuro a condividere con gli europei il costoso primato in questo settore. Ogni anno il bilancio del Pentagono prevede investimenti a fondo perduto pari a 30 miliardi di dollari per la Ricerca e Sviluppo nel settore militare. Questi finanziamenti vanno a tutto vantaggio delle industrie che incamerano i profitti ricavati dalle vendite di sistemi il cui elevato valore aggiunto è un frutto di un ‘regalo’ del contribuente. Si tratta dunque di una battaglia per l’egemonia militare-industriale, vista come fondamento principale dell’egemonia politica, che si combatte anche sul terreno del controllo degli apparati produttivi e dei mercati dei Paesi europei collocati in posizione ancillare.

A tal riguardo, la recente evoluzione delle alleanze dell’industria italiana è significativa. Dopo la fase di crisi, ristrutturazione e concentrazione dei primi Anni Novanta, il comparto è dominato da quattro grandi gruppi che hanno avviato numerose collaborazione internazionali: Finmeccanica, (settori aeronautico, sistemi terrestri e navali ed elicotteristico), Fincantieri (cantieristica navale), entrambe le aziende con prevalenza del capitale pubblico, Fiat (veicoli per il trasporto terrestre, mezzi corazzati, spazio, motoristica aeronautica e navale, munizionamento) e Marconi Group (elettronica e comunicazioni). Il fallito tentativo di cosruire l’ennesima joint venture company, la European Military Aircraft Company (EMAC), struttura monopolistica nel settore della fabbricazione di aerei civili e miliari che avrebbe dovuto essere formata dalla EADS e da Findomestica, è stato ufficialmente attribuito al modesto portafoglio ordini e risorse che il partner italiano intendeva mettere a disposizione. In realtà si è trattato di una inversione di rotta politica da parte del governo Berlusconi, che ha deciso di partecipare al programma anglo-americano per l’aereo da caccia JSF, e al progetto Usa per l’aereo da trasporto Boeing C-17 Globemaster III dopo aver abbandonato, nel 2001, il consorzio europeo per la produzione dell’Airbus A400M, episodio che ha contributo a far dimettere il ministro degli esteri Ruggero. Dopo l’11 settembre 2001 questa scelta è stata ribadita con decisione dai vertici della Finmeccanica, intenzionati a rafforzare i legami con le aziende Usa e il mercato statunitense in forte espansione e ad abbandonare la partecipazione ai progetti strategici dell’asse militare-industriale franco-tedesco.

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