Uno zingaro al semaforo

I termini evocano significati particolari.
Un Rom non è necessariamente uno zingaro.
Simbologia e percezioni di realtà nomadi.
Cristina Simonelli
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Parlare “al posto di”, assumere la parola “per qualcuno”, anche a fin di bene, comporta sempre un rischio di esproprio, che è comunque bene dichiarare. Anche quanto segue non è esente dal rischio enunciato, anche se – o forse proprio perché – proviene da una condizione per diversi motivi intrecciata a un contesto romano (aggettivo di Rom). Pure, ritengo che questa posizione sia un punto di vista necessario, la cui mancanza lascia un vuoto che chiede di essere colmato. La domanda più semplice potrebbe essere: cosa vede qua la Chiesa e la società? Cosa si vede della società e della Chiesa da qua? La posizione apertamente razzista espressa da movimenti anti-zingari di vario genere (ricordiamo la condanna per istigazione all’odio razziale inflitta ai firmatari di un appello per cacciare gli zingari da Verona nel 2004 e successiva manifestazione di protesta della Lega nel febbraio 2005), si accompagna all’atteggiamento altrettanto discriminatorio di molte informazioni dei mass-media. Ma a questo dato se ne aggiunge un altro, meno evidente, ma non innocuo.

È rappresentato dall’uso di un termine, con il quale ci si scontra invano: degrado. Il dramma è che questo termine non viene utilizzato soltanto da chi manifesta disprezzo evidente per la realtà degli zingari, ma anche da persone e associazioni di “buona volontà” che si propongono di “elevare” i Rom dalla loro attuale situazione. Il fastidio che procura risiede nel suo uso non controllato e in fondo, si direbbe, piuttosto colonialista: alla base razionale c’è un desiderio di solidarietà, la volontà di riconoscere diritti, di attribuire spazi, di rimediare a ingiustizie. Tuttavia il suo orizzonte è quello di un senso di superiorità degli “operatori” di vario genere, degli “educatori” inviati dai Rom: quando va bene, essi assimilano l’esperienza con i Rom a quelle raccolte nel mondo dell’handicap o dell’educazione dei minori o del “recupero” della tossicodipendenza. L’invito ovvio è quello di provare a entrare in uno stato di “laboratorio”: non per mettere aprioristicamente in dubbio la volontà buona di chi opera ma per esigere un atteggiamento di verifica.

La distanza che separa la realtà romani da quanto viene percepito come zingaro ha radici lontane e complesse. Ha spesso anche una salutare funzione di difesa dall’invadenza. In ogni caso è un dato da tener presente. Non è lo stesso utilizzare le autodenominazioni – Rom, Sinti ad esempio – o il titolo zingari, che, almeno nel contesto dei gruppi presenti in Italia, suona dispregiativo, quanto “terrone”, e non è gradito. Un altro aspetto con cui si manifesta questa distanza è rappresentato dall’impatto simbolico della realtà romani, sia essa rappresentata come cifra del negativo (L. Narciso, La maschera e il pregiudizio), che come stereotipo positivo (D. Todesco, Il pregiudizio positivo). In alcuni casi questo tipo di approccio – per cui i Rom evocano provvisorietà e forza vitale, nomadismo intellettuale e interiore, possibilità di abitare sensatamente frammenti – dà vita a costruzioni suggestive, sia dal punto di vista religioso (Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, Orientamenti per pastorale degli zingari, 2006, nn. 22-28) che filosofico (R. Braidotti, Pensiero nomade). Certamente una lettura simbolica della realtà è parte stessa del nostro modo di conoscere e organizzare i dati: potrebbe essere buona norma quanto meno il mantenere viva la coscienza che nel simbolo si presentano uomini e donne, nomi propri, situazioni complesse, ingiustizie e sopravvivenze.

Un aspetto, infine, che si potrebbe richiamare come parte di un “mosaico di pace”, è il particolare modo con cui in genere i Rom vivono l’appartenenza a un territorio. Il loro compattarsi a livello familiare e rispettivamente la loro distanza dall’identificazione in “patrie”, li rende estranei ai conflitti etnici e alle guerre. Questa attitudine viene spesso giudicata “collaborazionista” ed è in ogni caso uno degli argomenti pretestuosi avanzati poi per farne vittime di ritorsioni, di espropri e di espulsioni: l’esempio della guerra in Kosovo è purtroppo eloquente. In questo caso è urgente una denuncia delle violenze che troppo spesso escono dalla cronaca come non interessanti. Ma la vicenda potrebbe contenere anche utili insegnamenti: se fossimo molti di più a considerare che conflitti etnici e interessi di guerra “non ci appartengono”, potremmo probabilmente avere una prassi più disarmante e una storia meno insanguinata. 

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