ECUMENISMO

Fedi nonviolente

Continua il cammino ecumenico delle Chiese cristiane. Il Dio di comunione che si mette a servizio del mondo è altro rispetto al Dio degli eserciti e delle guerre.
Ed è possibile.
Serena Noceti

348 Chiese cristiane, protestanti e ortodosse compongono l’Assemblea mondiale del Consiglio Ecumenico delle Chiese. La nona edizione si è svolta proprio a Porto Alegre, in Brasile, nella città capitale dell’annuncio che “un altro mondo è possibile” e sede dei Forum sociali mondiali. Tema centrale era l’interrogativo sulla missione delle Chiese cristiane nell’orizzonte di un mondo globalizzato, che sta vivendo rapidi e profondi cambiamenti sul piano economico, sociale, culturale.
Al centro della discussione, da un lato, la questione delicata di una nuova configurazione del movimento ecumenico e dello stesso Consiglio mondiale, con l’enucleazione di alcuni nodi teologici ed ecclesiali aperti (nei quali si concentra la divisione tra le Chiese), e, dall’altro, l’interrogativo su quali siano le vie di un comune servizio al Regno come servizio al mondo e alla storia. La diakonia costituisce di per sé una delle vie verso la comunione e l’unità visibile, obiettivo e fine primo del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Può risultare utile soffermarsi su un tratto che ha

La nona assemblea del CEC rigetta ogni giustificazione teologica per la violenza e afferma una nuova spiritualità della riconciliazione e della nonviolenza attiva, laddove anche la nonviolenza è certamente la soluzione più difficile per uscire da una situazione perché è quella che domanda il più di pazienza, il più di sforzo e il più di forza. Ma è la soluzione che Gesù ci invita a scegliere.
Una giovane palestinese
caratterizzato il CEC fin dalla sua fondazione all’indomani della seconda guerra mondiale (Amsterdam 1948): il servizio alla pace.

In un nuovo scenario
L’ottava assemblea del CEC, tenutasi ad Harare nel 1998, si era conclusa con un impegnativo richiamo al ministero di riconciliazione che le Chiese sono chiamate a esercitare nei diversi contesti nazionali e locali, nel promuovere la pace e la giustizia nel mondo. Più volte, nel corso della sua storia, il CEC ha ribadito che le Chiese non possono essere spettatrici mute e inani davanti alla violenza, ai conflitti, all’eliminazione delle opposizioni; esse non possono limitarsi a deplorare la violenza sul piano delle affermazioni verbali e dei documenti di protesta, ma devono adoperarsi per un paziente lavoro formativo e per una prassi efficace di sostegno alle vittime, di denuncia delle violazioni dei diritti umani di tutti, di opposizione alla logica del più forte. Le Chiese devono assumere, con una prassi di nonviolenza attiva, il compito di una lotta incisiva contro le strutture di ingiustizia, politica ed economica, contro il razzismo, e devono prendere posizione contro il ricorso alla violenza per la soluzione dei conflitti interni agli Stati e tra le nazioni.
L’assemblea di Porto Alegre si colloca quindi nel vivo di questa storia di Chiese operatrici di pace, al cuore di quel “Decennio” contro la violenza (2001-2010), proclamato nella stessa assemblea di Harare, in parallelo e in stretta correlazione con il contemporaneo Decennio per la pace proclamato dall’ONU. Lo scenario internazionale, sette anni dopo Harare, è mutato ed è segnato da più accesi conflitti; dopo la crisi del Kosovo, l’11 settembre, la guerra in Iraq, l’ escalation del conflitto Israele-Palestina, e molti altri conflitti dimenticati in Asia e Africa, in un contesto multireligioso, laddove molti di essi sono tuttora giustificati con un linguaggio religioso o appellandosi a motivazioni religiose. Come le Chiese possono adoperarsi per la

CEC - Consiglio Ecumenico delle Chiese
Nel 1910, a Edimburgo, fu istituita la Conferenza internazionale missionaria.Da questa esperienza nacquero tre grandi filoni - i movimenti Vita e azione, Fede e Costituzione e il Consiglio internazionale per le missioni - destinati a confluire anni più tardi nel Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC) fondato ad Amsterdam nel 1948.
Oggi a questo organismo aderiscono circa trecento Chiese e Comunità ortodosse, cattoliche, protestanti e anglicane che si riconoscono come una associazione fraterna di Chiese che confessano il Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore secondo le Scritture.
pace? Come esercitare la vocazione e la missione a essere operatori di pace nel mondo dopo l’11 settembre?

Una triade inseparabile
Le parole di Samuel Kobia, segretario generale del CEC, hanno delineato in apertura di assemblea la collocazione della riflessione sulla pace, nel ricordare che lavorare per “verità, giustizia e pace” è “parte integrante del lavoro e dell’impegno ecumenico” (Rapporto iniziale, § 39); così pure a conclusione, il Documento della “Commissione di orientamento del programma” segnalava la necessità di assumere come Chiese la responsabilità storica di promuovere una concezione dinamica e globale della giustizia, che prenda in considerazione le persone che subiscono le conseguenze di ingiustizie, conflitti, razzismo, segregazione di casta, mostrando così la sinergia da sviluppare tra cooperazione internazionale multilaterale, difesa del diritto internazionale, tutela dei diritti della persona e regolamentazione pacifica di conflitti (§§ 21-22).
L’azione profetica per la pace non è mai da separarsi dalla lotta per la giustizia e i diritti umani tout court, né dalla denuncia profetica che la “guerra al terrore” - la crociata lanciata dopo l’11 settembre 2001 - ha relativizzato, così come ha disatteso il diritto internazionale e le norme di tutela dei diritti umani, minando alla radice la convivenza tra popoli e inficiando la stessa possibilità di azione dell’ONU.
L’assemblea di Porto Alegre ha consegnato alle Chiese alcuni documenti di orientamento e di presa di posizione, autorevole e profetica, su tali questioni: un Documento sull’acqua, come “diritto umano fondamentale e bene pubblico”; un Documento sul terrorismo, contro-terrorismo e terrorismo di Stato; una Nota sulle armi nucleari (definite “peccato contro Dio”, “immoralità innegabile”).

Proteggere i deboli
Riguardo al ruolo specifico dei cristiani e delle Chiese il Documento sulla “responsabilità di proteggere i deboli” offre alcune linee generali di azione, richiamando la storia dell’impegno politico e pubblico del CEC fin dalla sua fondazione e tratteggiando le nuove urgenze davanti alle quali porsi. Poco prima dell’assemblea, peraltro, era stata pubblicata una riflessione sulla natura della violenza e sulle sue forme (Per ché la violenza? Perché la pace?, 2003) ed era stata elaborata una ricerca sulla possibilità di “creare una nuova concezione di sicurezza fondata sulla cooperazione e sul senso comunitario, in luogo della dominazione e della concorrenza”.
Coinvolgimento attivo nell’azione nonviolenta, nella denuncia, nella formazione delle coscienze e impegno sul piano teologico ed etico delineano l’orizzonte primario della prassi delle Chiese e costituiscono l’apporto specifico anche per un ricercato confronto e per una seria interazione con altre organizzazioni, religiose e no, e con organismi internazionali, per sviluppare metodi e strategie appropriate per regolare i conflitti, per lottare contro la militarizzazione crescente del mondo, per lavorare per la tutela dei diritti di tutti, per aprire cioè scenari di pace.

Dove sono le Chiese?
L’impegno per la pace nel mondo rimanda le Chiese alla memoria dei conflitti che sono sorti proprio intorno al confronto delle confessioni cristiane in Europa (guerre di religione, XVI-XVII sec.) e all’esito che si è avuto (in particolare il principio di tolleranza e la stessa laicità degli Stati), come anche a considerare la separazione ancora presente tra le medesime Chiese: il servire l’unità della famiglia umana richiede l’unità tra esse.
Confronto e dialogo tra Chiese cristiane verso un’unità visibile sono vie privilegiate per la testimonianza coerente e per una migliore convivenza tra popoli e nazioni. Risulta estremamente interessante a questo livello la raccomandazione del Documento della “Commissione di orientamento del programma” di “intraprendere un ampio processo di consultazione in vista dell’elaborazione di una dichiarazione ecumenica sulla pace giusta e di contrassegnare la conclusione del Decennio contro la violenza nel 2010 con una riunione ecumenica internazionale sulla pace” (§ 26).
È la fede in Cristo, principe della pace, l’identità di cristiani, operatori attivi di pace, e lo stesso riconoscimento della comune appartenenza alla specie umana che devono spingere le Chiese in questa direzione e radicare in forma rinnovata l’impegno attivo di tutti i componenti delle diverse confessioni. “Noi abbiamo un obbligo morale, religioso e politico davanti ai 54 conflitti che sono oggi in atto in 11 Paesi del mondo”, come dichiarava con forza l’ex funzionario ONU Olara Otunnu, nel “bandire” un appello alle Chiese – assenti e silenti – davanti al genocidio in atto nei campi profughi del nord Uganda, dopo 20 anni di conflitto. “Dopo la shoah in Europa, dopo il genocidio in Rwanda, dopo i massacri dei Balcani, ogni volta noi abbiamo detto ‘mai più’, ma soltanto dopo”.
“Domani ci ascolteremo ancora una volta dire che non sapevamo ciò che stava avvenendo? Cosa diremo ai bambini sopravvissuti del nord Uganda, quando essi ci chiederanno perché nessuno è venuto a bloccare le azioni malvagie che camminavano sulla loro terra e divoravano il loro popolo?”.

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