TESTIMONI

Profeta nonviolento

Mite, paziente, giusto. Nonviolento. Ricordo di un profeta del nostro tempo.
Il Gandhi dei Balcani: Ibrahim Rugova.
Giancarlo Salvoldi (già parlamentare)

Ibrahim: la sua è la declinazione islamica di un nome che suona Abraham per gli Ebrei e Abramo per i Cristiani. Nome che identifica le religioni monoteiste care all’Ibrahim Rugova innamorato del Cristianesimo al punto da costituire l’ispirazione della sua azione nonviolenta. Egli ha praticato la nonviolenza con un coraggio che ha sfidato le ferree leggi della politica e gli ha dato la forza di apparire debole. Fino all’umiliante costrizione di stringere la mano a Milosevic, non avversario ma nemico del suo popolo, davanti alle televisioni del mondo intero. Eppure proprio in questo modo è riuscito a smentire una dottrina politica che con Machiavelli ha fatto scuola per mezzo millennio, secondo la quale i grandi profeti disarmati sono caduti in rovina. Rugova ha assunto fino in fondo, e con ciò intendo anche nelle sue implicazioni morali, la neonata categoria politica della nonviolenza. E ne ha saputo trarre risultati strepitosi, anche se non ancora pienamente compresi: solo la storia ne saprà valutare la piena portata.

Un’opera incompiuta
Parlo della storia perché ormai Rugova ci ha lasciato, e proprio alla vigilia della trattativa finale sullo status definitivo del Kosovo, che per ironia della sorte era stato il primo a chiedere autonomia nella ex Jugoslavia ed è rimasto l’unico, salvo il Montenegro, a non aver avuto l’indipendenza. Noi che lo amavamo siamo stati colpiti da grande dolore per la sua morte, che è stata la morte di un uomo mite, paziente e giusto. Dolore per un uomo di cui il popolo kosovaro aveva estremo bisogno e che lascia un’opera incompiuta. Ma lascia anche un lavoro costruttivo la cui valenza supera di gran lunga il Kosovo, e va ben oltre le terre per cui è stata coniata la troppo stretta definizione di “Ghandi dei Balcani”. Infatti ha lavorato in maniera esemplare

Una Campagna per il Kosovo
La Campagna per una soluzione nonviolenta in Kosovo nasce ufficialmente nel giugno 1993, promossa da Agimi, Beati i Costruttori di Pace, Movimento Internazionale della Riconciliazione (MIR) e Pax Christi. Ad essa aderiscono nei primi anni circa una ventina di associazioni. Il suo impegno prioritario è stato rivolto a sostenere e a far conoscere la resistenza nonviolenta del popolo albanese del Kosovo, che ha costituito il più notevole esempio di difesa civile nonviolenta in Europa. La Campagna Kosovo è stata ufficialmente chiusa lo scorso anno.
Info: http://web.peacelink.it/kossovo/
per il dialogo tra religioni, in particolare tra Islam e Cristianesimo, e se tanta strada è ancora da fare, molti risultati tangibili e permanenti sono stati raggiunti. Rugova ha percorso nella sua lunga e intensa esperienza umana e politica diverse tappe che sono state un po’ una “via crucis” di cui vedremo solo alcune stazioni.

L’infanzia
Ancora bambino si trova ad abbracciare per terra il corpo senza vita del papà che era stato assassinato dalle forze di liberazione. In quel tragico frangente il nonno, partendo dal retaggio cristiano del Kosovo, gli offre la prima grande lezione di nonviolenza. Strappandolo al pianto disperato sul padre, lo accarezza e gli dice che non sono stati i Serbi a ucciderlo, ma la rivoluzione comunista, e per questo lui non dovrà odiare il popolo serbo. Rugova metterà in pratica quel comandamento di perdono e di amore. Può sembrare incredibile ma una cosa simile era accaduta a una donna dalle origini kosovare, che è stata fondamentale guida per Rugova: Madre Teresa. Anche suo padre, patriota, viene assassinato al finire della prima guerra mondiale, mentre gran parte della sua famiglia verrà sterminata dal dittatore albanese Enver Hoxa: Madre Teresa perdona. Certamente chiede ai cristiani che lavorano per la pace di perdonare. Non credo però che chieda di dimenticare, perché sarebbe un’ingiustizia grande nei confronti di fratelli martiri. Onestà intellettuale e rispetto della storia impongono di non ricorrere a facili rimozioni. Abbiamo il dovere di conoscere i fatti storici, di riflettere e confrontarci con tutti per individuare idee e comportamenti che hanno portato alle pulizie etniche e alle persecuzioni religiose, per evitare che possano ripetersi.

Presidente
Rugova, trascinato in politica, viene eletto presidente dei kosovari con elezioni clandestine, sotto la minaccia militare serba. Rifiuta di ricorrere alla forza, ma attinge a piene mani alla virtù della fortezza, coniugata con la virtù della prudenza. Non dobbiamo dimenticare che la scelta nonviolenta matura tra gli intellettuali kosovari sia per convincimenti morali che per la consapevolezza dei rapporti di forza assolutamente sfavorevoli rispetto al regime dominante. Prima della guerra, alle trattative nel castello di Rambouillet, presso Parigi, gli Americani lo hanno voluto presente ma al tempo stesso l’hanno tenuto in ombra. Non hanno voluto capire che quella della nonviolenza era l’unica strategia possibile per dare al Kosovo quanto gli spettava di diritto, senza creare catastrofi.

La guerra
Nel 1999 un’Europa egoista e incapace e gli Stati Uniti decidono di salvare i Kosovari dal genocidio che Belgrado aveva avviato, ricorrendo all’ingerenza umanitaria che era necessaria, ma che non necessariamente doveva avere la forma della guerra. Durante un incontro a Pristina, Rugova mi esprimeva la complessità e difficoltà della situazione letteralmente con questa frase: “La guerra non è inevitabile”. Invece la guerra scoppia, e poderose ondate di bombardieri decollano giorno dopo giorno dalla base friulana di Aviano per colpire i Serbi occupanti in Kosovo e la stessa Serbia. Esplode con più virulenza la pulizia etnica del Kosovo e di fatto Rugova e la sua famiglia sono arrestati e deportati a Belgrado. Avvilente ma doveroso rilevare che i pacifisti italiani non si sono mobilitati per la sua liberazione, perché questo avrebbe significato andare contro Milosevic; e invece si sarebbe dovuto manifestare contro i bombardamenti americani e contro la prigionia di Rugova, senza dribblare le contraddizioni. La primavera della nonviolenza kosovara sembrava travolta da una colata di fuoco e fiamme, e il suo più alto esponente tolto dalla circolazione.
Poi arriva la liberazione e l’esilio in Italia. Qualcuno paragona Rugova a Ioachin, re di Giuda, liberato dal re di Babilonia: sembrava nulla in un quadro di disperazione, e invece era una di quelle tracce che alla fine si scoprono ricomporre il disegno della storia, uno di quei fili che sanno ricucire i brandelli di senso. E infatti accade un evento assolutamente unico nella storia della politica, consistente nella rielezione di Rugova: mai un uomo politico era riuscito ad essere presidente del suo Paese prima di una guerra e ad essere rieletto dopo la guerra. Questa “resurrezione” politica ha un nome inequivocabile, che è quello della nonviolenza.

Un uomo di pace
È però amaro constatare con quanta sufficienza e sussiego sia stata molte volte trattata da grandi quotidiani italiani la nonviolenza dell’uomo che nel 1996 era stato candidato, e non casualmente rimasto tale, al premio Nobel per la pace. Ritengo che su questo atteggiamento abbiano influito due elementi che tradiscono il complesso di superiorità di un Occidente che dispone di mezzi potenti sia nel campo militare che in quello culturale. La logica della potenza e il mito della forza antitetica a quella della nonviolenza – permeano il modo di pensare tanto dei capi militari quanto di quelli del mondo dell’economia, della finanza e della cultura: ne consegue una scarsa considerazione per chi rifiuta di misurarsi al livello della forza. L’altro fattore che ha spinto a valutare questo personaggio come un po’ folcloristico con quella sua sciarpa di seta al collo, è costituito dal fatto che Rugova non era “politically correct” e la sua aristocratica ma profondamente democratica semplicità mal si conciliava con la voglia di polemica e di aggressività che da noi è alta. Un qualsiasi pacifista occidentale, basta che sia più antimilitarista che nonviolento, basta che sia più antiamericano che nonviolento, basta che se è credente non lo dica, raccoglie talvolta dai mass-media più attenzioni di quelle che sono riservate ai nonviolenti in stile francescano, quelli radicali per davvero.

Lush Gjergji
Certamente a quella sciarpa era appesa la possibilità che nel cuore dei Balcani ripartisse, seppur lentamente e con difficoltà, il processo di riconciliazione che da sempre ha visto animatore instancabile un prete della piccola minoranza cattolica kosovara, don Lush Gjergji. Nel cuore di Pristina egli sta costruendo una chiesa con annesso centro di assistenza ai bisognosi, su un terreno che la comunità musulmana ha donato ai cattolici. Il presidente Rugova coltivava il sogno dell’indipendenza del suo Paese: se non ha potuto realizzarlo in questa vita, potrà gustarlo nella nuova vita in cui ha creduto.

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