In terra Sahrawi
Dalle periferie del mondo. Dai popoli dimenticati.
Boybat Cheikh, responsabile e presidente della Campagna Sahrawi per la messa al bando delle mine, ci porta con sé, al “Centro vittime della guerra e delle mine”, nei dintorni di Rabouni. Siamo al 31 dicembre 2005.
Tra distese di sabbia, sassi, rocce e radi ciuffi di erbe spinose, percorriamo
in jeep una ventina di chilometri prima di intravedere, in una nube polverosa, il muro di cinta del Centro.
Il nostro autista Bachir, volto rugoso e occhietti furbi, ci indica la costruzione e ci mostra con orgoglio, sulla sinistra, un palmeto che sfida l’aridità del luogo, innalzando le sue fronde contro l’abbagliante luce del tramonto nel deserto.
Entriamo, subito accolti dal cordiale sorriso di Brahim Lili, direttore del Centro e da Aziz Haidar, segretario generale dell’Associazione Vittime delle Mine, ONG creata per il grande pericolo tuttora presente nel Sahara occidentale, nonché per fronteggiare le enormi necessità
derivanti da tale drammatica situazione.
Posare lo sguardo
Ho con me la macchina fotografica digitale e anche la Nikon manuale, sento che devo stamparmi nel cuore e nelle pupille il dolore infinito che lasciano le guerre, e per farlo ho bisogno di qualcosa di più dei miei occhi: devo avere ricordi, materiale da riguardare per rinfrescarmi la memoria, testimonianze
Nella parte occupata del Sahara occidentale i Saharawi devono affrontare discriminazioni e la severa repressione delle autorità marocchine.
Si calcola che circa un milione di Saharawi siano dispersi.
Fonte: La Guida del mondo 2005-2006, EMI
Ho la fortuna di non vivere in un Paese in guerra, ma non per questo voglio sottrarmi alla mia responsabilità di essere umano, in fratellanza con chi soffre e con chi, in luoghi come questo, ha traumi indelebili segnati nell’intimo. È questa la mia prima sensazione varcando il cancello del Centro: prestare attenzione a ciò che scruterò, posare il mio sguardo su questi uomini dal corpo mutilato, dal cuore sanguinante e concentrarmi su di essi, impegnarmi e riflettere sempre, a ogni scatto, a ogni parola scambiata, sull’importanza di testimoniare che qui c’è una tragedia in atto, con profughi che vivono da trent’anni nelle tende, con 2720 km di muro protetti da un milione di mine, con uomini donne anziani e bambini ai margini del mondo, abbandonati al loro destino, in un tempo indefinito di attesa che dura dal 1991, pronti a saltare in aria a ogni momento.
I Sahrawi che qui stanno in cura, in osservazione o riabilitazione, mi mostrano sorrisi dolci sui loro volti bruniti e rugosi. Gli occhi socchiusi per il sole hanno cicatrici e ferite, le mani cal lose che mi tendono per darmi il benvenuto sono moncherini, mani informi, arti indefiniti e mancanti di dita. Mi sorridono, mi ringraziano, mi salutano: il tempo che qui trascorro con loro, mi vale questa cordiale accoglienza.
Saltare su una mina
Aziz, quarantenne alto, dal bel volto scavato e nobile, avvolto nella sua kandura bianca ricamata d’azzurro, è poeta, chitarrista, pittore, oltre che mutilato del braccio destro e di ambedue le gambe.
Nel 1979, poco più che adolescente, in una gita con quattro amici, vicino alla
Capitale: El Ayoun (Laayoune), 187.000 (2003)
Governo: Muhammad Abdelaziz, presidente della repubblica dal 1982 e segretario generale del Fronte Polisario; Boucharaya Hammoudi Bayoune, primo ministro dal 1999. L’Assemblea nazionale (parlamento) è formata da 101 membri, eletti dai consigli locali e regionali e controlla l’esecutivo.
Religione: Musulmana
Lingua: Arabo e spagnolo (ufficiali). Molti Saharawi parlano l’hassaniya.
Partiti politici (principali): Fronte Popolare di Liberazione del Saguiat al Hamra e Rio de Oro (Fronte Polisario), fondato il 10 maggio del 1973.
Fonte: La Guida del mondo 2005-2006, EMI
Il suo amico è morto, gli altri sono rimasti feriti, e Aziz s’è ritrovato in un mare di sangue, senza sentire più viva nessuna parte del suo corpo. Per fortuna – racconta il nostro interlocutore – che la polizia sahrawi era nei dintorni e al grande botto arrivò in breve tempo, potendo almeno salvare i superstiti. Fu un caso alquanto raro e fortunato, perché ciò non sempre accade, date le distanze enormi che esistono nel deserto.
Aziz ci racconta di quanta fu la sua ira e la sua sofferenza nel ritrovarsi mutilato e impedito in tutto. Ora, dopo tanta riabilitazione, riesce anche a guidare la macchina. È lui che ci conduce nel cortile interno dove, al sole del tramonto, alcuni degenti si riposano all’aria aperta, mentre altri giocano a carte e alcune donne discutono tra di loro gesticolando. Una bambina, figlia d’una donna rimasta senza gambe per un’esplosione di una mina mentre stava in macchina, saltella intorno a noi, contenta di vedere visi nuovi e socializza subito con le mie macchine fotografiche, nonché con le mie caramelle...
Il Centro di accoglienza si apre a ventaglio, con delle basse costruzioni appena ridipinte, intorno a un largo piazzale con al centro qualche timida e polverosa aiuola su cui svetta la bandiera della RASD. Esistente fin dal 1978 per accogliere le vittime della guerra e delle mine, fu chiuso per un certo periodo (causa mancanza cronica di possibilità economiche), in seguito è stato riaperto e dal 2005 è stato ristrutturato con circa 42 abitazioni formate da varie stanze, ognuna delle quali ospita due o tre feriti e invalidi che vivono qui anche con i loro parenti, per tutto il tempo necessario alla guarigione.
Feriti nell’anima
Hamida Abdulah, responsabile sanitario del Centro, ci raggiunge nel piazzale e, cortese e sorridente come tutti i Sahrawi, ci porta a conoscere i suoi ospiti. Attraversiamo il piazzale, con la bandiera della Repubblica Sahrawi che sventola la sua lunga ombra sulla sabbia dorata dai raggi del tramonto. Hamida ci racconta di quanto dura sia la vita delle vittime, che da un momento all’altro perdono ogni possibilità di fare cose che prima erano per loro abituali. Alle ferite fisiche si sommano le ferite psicologiche, che sono le più lunghe da curare.
I traumi, i dolori e le sofferenze dei loro corpi raccontano implacabilmente le lacerazioni dell’anima di queste vittime. Per questo una volta al mese viene un medico psicologo specialista che cerca di alleviare le tribolazioni e i segni indelebili che esperienze di questo tipo lasciano.
L’obiettivo del Centro è cercare di fornire sostegno psicologico, terapie riabilitative motorie e funzionali, protesi adeguate alle vittime della guerra
Nell’area, l’Algeria ha dato un’autonomia di fatto alla Repubblica Araba Saharawi Democratica che è tra l’altro uno dei membri dell’Unione Africana.
L’organizzazione dei campi è efficiente ed è stata data priorità ai servizi sanitari e d’istruzione. Ma i quasi 200.000 rifugiati che vivono qui dipendono interamente dall’aiuto alimentare internazionale, recentemente ridotto in quantità e qualità. Così il 35% dei bambini soffre di malnutrizione cronica, e il 13% di malnutrizione acuta.
Aumentano i bambini in cui si registrano ritardi nella crescita e la speranza di vita è di 45 anni per le donne e di 47 per gli uomini.
Fonte: La Guida del mondo 2005-2006, EMI
Alcune vittime non resistono all’impatto del loro handicap fuori del Centro e chiedono dunque di rimanere al Centro, magari aiutati e sostenuti dai familiari. Questo non è soltanto un posto dove si cura. Questo è uno spazio d’aiuto reciproco e d’amicizia. Qui il fardello della tragedia si stempera nelle chiacchiere con il vicino di letto e fa dimenticare per un attimo la nostalgia e la sofferenza per le cose e per le persone perdute.
Qui, con Aziz, Brahim, Hamida, e tutti gli altri “martiri” di una guerra che si sospetta continui a rafforzare, con le mine, la difesa del muro maledetto, qui, nel deserto dell’Hammada, in uno dei luoghi più inospitali del mondo, c’è un’altra delle grandi sfide del popolo sahrawi: è l’idea di curare, di sanare, di alleviare, di reintegrare nella vita normale le vittime di un conflitto senza senso, pur non avendone i mezzi a disposizione, né l’assistenza adeguata o la formazione specifica.
La speranza che muove ormai da lungo tempo la vita dei Sahrawi in ogni situazione e in ogni luogo.