PAROLA A RISCHIO

Echi lontani

Commento alle elezioni in Bolivia. Nessun nuovo populismo latinoamericano.
Né una tradizionale rivoluzione. Ma un’irruzione osata e disobbediente.
Antonietta Potente o.p.

Scrivere su un popolo che non é il mio mi risulta sempre più difficile. Respirare e sentire la stessa brezza, provare gli stessi bruschi movimenti del sole e della luna, dei venti che portano con sé terra, polvere, cenere e percepire gli stessi odori e profumi…, mi rendo conto che non significa conoscere le sottili dinamiche dei sentimenti di un popolo. Ciononostante, in questi ultimi tempi, il popolo dove vivo ha lanciato intensi echi; ha liberato qualcosa di suo perché si potesse percepire in tutto il continente americano e potesse raggiungere anche gli altri continenti, passando le cordigliere, i vulcani, gli oceani, le pianure, i fiumi e i laghi, le spiagge e le coste…Per questo sento il dovere di scrivere e di condividere alcuni sentimenti e alcune emozioni che mi porto dentro.
Se penso a ciò che è successo in Bolivia, posso solamente scrivere un poema, sbozzare dei versi, delle rime, strofe, perché sono sicura che ciò che è successo non si può descrivere utilizzando sempre gli stessi criteri e gli stessi parametri logici di qualunque analisi storica, sociologica, politica o teologica. Mi riferisco alle ultime elezioni presidenziali e a tutto il processo socio-politico che le ha preparate. Per facilitare la comprensione, poiché l’arte poetica non sempre è facile da capire, userò alcune immagini bibliche, lasciando che si mescolino con la vita quotidiana. La lettura di questa realtà, la faccio partendo dall’esigenza della fede: sete, desiderio, parto storico dell’umanità, della creazione e di Dio.

Il ritorno dei deportati
Il primo simbolismo biblico che mi aiuta a interpretar ciò che è successo in Bolivia, è il Salmo 126. Questi eventi si possono solo raccontare come il salmista – o la salmista – nell’antico libro della tradizione ebreo-cristiana, canta il ritorno dei deportati: ci sembrava di sognare…ci si riempì di risa la nostra bocca, le nostre labbra di gridi d’allegria… grandi cose ha fatto il Signore per noi…e siamo contenti… Le nostre bocche piene di gioia e di canto e i nostri piedi inquieti, pronti per danzare con un ritmo armonico e dunque etico.
Tutto ritorna a vibrare, tutto si risveglia… anche se ci sembrava di sognare… eravamo emozionati e commossi… ci ricordavamo dei giorni del pianto: se ne vanno piangendo, con lacrime... e ora tornano, torniamo… con i frutti. Ma il salmista è molto realista, il canto continua con una forza speciale… continua a ricondurre i prigionieri. In questa danza, in questi ritorni, manca ancora gente, mancano ancora molti… riconduci gli altri deportati... Il cammino sembra essere ancora lungo, durerà fin che vivremo. Ma ciò che c’interessa oggi, in questo momento storico, è che siamo ancora vivi, vive, ed essere vivi significa scoprire che dentro siamo ancora pozzi con acqua, terra con risorse naturali, sapienze con creatività e psiche con sogni.

Leggiamo la storia
Certamente, chi giudicherà i mondi e le culture sempre con gli stessi criteri di lettura sociopolitica, s’imbroglierà ancora una volta tra le ragnatele dei vecchi parametri culturali di chi non ammette che il suo potere già non serva più, né il suo denaro, né la sua dottrina e solamente giudicherà con malignità e sospetto queste scintille che emana una storia ancora viva.
Indubbiamente, l’allegria che sentiamo è una gioia molto cosciente e consapevole che non ha niente a che vedere con l’ingenuità di chi pensa che un nuovo populismo latinoamericano ha vinto ed è asceso al potere. Sappiamo molto bene che questi echi non traggono la soluzione immediata dei problemi che l’antica storia ha cristallizzato nel tempo, formando statue anche se con i piedi d’argilla o innalzando sepolcri e bianche lapidi ai martiri e agli eroi (molto pochi alle eroine) e formando lunghi calendari in cui si scrivono i nomi dei santi. La storia passata è troppo pesante e ancora troppo viva nel tempo, per far sì che si possa cambiare in pochi mesi ciò che in realtà é una sclerosi politica ed economica di lunghi secoli.
Ciò che è accaduto è l’irruzione osata e disobbediente di piccoli gruppi fedeli alla loro storia. Una storia con poche parole e poca scrittura, ma con una memoria molto forte, che non si può cancellare; memoria non intellettuale, o ideologica, ma piuttosto vissuta. Una memoria prodotta per le ferite, fatta di sole che brucia la pelle e forma le rughe; fatta di vento, di mais, patate, riso, carne di lama, coca, frutta tropicale: odori, sapori, rumori, passi di danza, storie di fughe e sopravvivenze. Una storia fatta di prodotti, ma non solo prodotti per vendere o comprare, secondo la vecchia logica, ma piuttosto elementi presenti dentro di un universo vitale, in cui sta e si muove anche l’essere umano. Prodotti trasformati in offerta e avvolti nel fumo dell’incenso nei momenti più solenni della vita. Alchimia di un mondo silenzioso e segreto: fumo, profumo, nube, mistero, gloria, direbbero tutte e tutti coloro che appartengono alla tradizione ebraico-cristiana.
Ciò che è successo in Bolivia non è una tradizionale rivoluzione, perché non si usarono gli strumenti classici delle anteriori rivoluzioni latinoamericane. Non solo non si utilizzarono armi, ma nemmeno ideologie. Le armi sono state sostituite con la lenta ricostruzione psicopolitica di un tessuto culturale e sociale rotto, disperso e minacciato, ma ancora vivo, come brace: il tessuto autoctono, antiche e strategiche sapienze e tradizioni, logiche alternative.
Queste sono le nuove strategie e le nuove energie politiche dei popoli inquieti. Evocare storia passata ed evocare storia presente, cercare coincidenze disperse, tessere nuovamente una trama storica, per ricordare chi siamo… anzi tra una sensibilità psicologica individuale e collettiva, rivendicazione della propria dignità e di quella di un gruppo e anche della terra e della biodiversità nazionale.

Una sapienza mistico-politica
È stato questo il cammino della sapienza misticopolitica di questo popolo, e questa sapienza misticopolitica ha soppian tato gli antichi strumenti rivoluzionari. È interessante: Evo Morales Ayma non è un militare (come Chavez o Fidel) e non capeggiò una rivoluzione, ma sì, lunghe sedute sindacali e di base, interminabili blocchi stradali e scioperi… Il tessuto incominciò a realizzarsi in una lunga pazienza, sotto il sole, nelle arterie stradali più strategiche del territorio boliviano…nel dialogo impaziente con gli anteriori presidenti o nelle disobbedienze più ostinate nel parlamento. Era un dirigente, in altre parole una persona abituata a consultare la maggioranza e a obbedire ad essa, a unirsi a rivendicazioni nate dalla base e dai bisogni immediati delle persone. Era un dirigente di una zona emarginata e sfruttata com’è quella cocalera. Non è nemmeno un indigenista, vale a dire qualcuno che ha lottato o rivendicato dei diritti solo razziali. Lui ha lottato per la dignità, e con dignità. La sua non è un’ideologia indigena precostituita e quasi esotica, ma piuttosto una prospettiva di vita sofferta, popolare, dove, come per la maggioranza dei boliviani e boliviane, si mescola la razza e la propria sapienza, con il bisogno di lavorare; realtà contadina e urbana, diritto a reinventare le proprie leggi del mercato e diritto all’educazione, allo studio, alla salute…
La storia del nuovo presidente, è molto simile alla storia della maggioranza del suo popolo e continuerà a esserlo, perché la Bolivia continuerà a essere minacciata, come sono minacciati i suoi territori, le sue risorse naturali e i suoi confini.
Il ritorno dei deportarti, come recita il salmo, in questo caso corrisponde al ritorno dei sogni, e dei prodotti, delle risorse …cioè di ciò che per secoli è rimasto nella cattività. Non è il magico ritorno della democrazia dopo la dittatura – come in altri casi o momenti storici – ma piuttosto il germoglio di un’altra sapienza dentro della democrazia già esistente, o il sogno creativo di un altro mercato, di un modo nuovo di relazionarsi tra noi e con le cose, le realtà, anche con quelle degli altri Paesi limitrofi.
Come i deportati, cominceremo un’altra vita, e tutti sappiamo che non è facile ritornare a essere liberi o a vivere nella propria terra. Tutti sappiamo che ci stancheremo di nuovo e dovremmo di nuovo addormentarci per poter tornare a sognare, cioè cercare nel tesoro dell’anima e della sapienza della vita più nascosta, gli strumenti alternativi che ci serviranno per vivere giorno dopo giorno, perché, come canta il profeta Geremia, ritorni il mosto, il vino e l’olio e gli animali tornino a tenere i loro cuccioli, e la terra torni a dar frutto, e tornino liberamente le donne in cinta e gli zoppi… (Gr 30). Certamente, dovremmo inventare di nuovo la vita: inventare lo studio e la formazione, il lavoro, la produzione… Certamente il ritmo tornerà a essere lento, perché il ritmo veloce è proprio di una mentalità borghese e di una economia produttiva ricca, mentre nel mondo, dove la quotidianità ha il suo prezzo più alto, il ritmo a cui dobbiamo obbedire è quotidiano e fedele, per non tradire nessuno, per non essere infedele alle diversità e alle differenze, per non tradire i bisogni reali e per non aumentare gli abissi che l’accumulazione di pochi ha creato tra la gente: accumulazione di potere, di soldi, di mercato, di ruoli.

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