Il tempo di Romero

Leggiamo il suo tempo. Romero tra rivendicazioni politiche e tensioni sociali.
Massimo De Giuseppe (Storico - Università Iulm, Milano)

Tra rivendicazioni politiche e tensioni sociali, con un debito estero quadruplicatosi nel corso dell’ultimo decennio, la decade dei Settanta iniziò nel Salvador in modo assai burrascoso e sarebbe stata destinata a finire in maniera ancor più traumatica e violenta con lo scoppio della guerra civile, alla fine di una stagione segnata da un crescente dinamismo delle organizzazioni popolari e dal radicalizzarsi della repressione.
La mediazione dell’Organizzazione degli Stati Americani, che aveva posto fine alla guerra con l’Honduras, non servì ad aprire un effettivo processo di dialogo interno e nel 1972 la situazione sembrò precipitare. Grande agitazione seguì infatti alla contestatissima vittoria alle presidenziali del colonnello Salvador Arturo Molina, del Pcn, che sconfisse il leader dell’opposizione, riunitasi per l’occasione nella Unión Nacional Opositora (Uno), il democristiano José Napoleón Duarte, solo grazie a una consultazione elettorale palesemente irregolare.
All’indomani dell’insediamento, Molina dovette sventare, con il supporto degli “uomini forti” dei vicini Guatemala e Nicaragua, Arana Osorio e Anastasio Somoza, un tentativo di golpe da parte di una frangia riformista dell’esercito e diede il via a una vera e propria campagna di persecuzione dell’opposizione che aveva come principali obiettivi Duarte (arrestato, torturato e poi espulso dal Paese) e il leader socialdemocratico Guillermo Ungo. In una fase di crescente polarizzazione, segnata dal fallimento del Plan de desarollo nacionalvarato nel 1973 con lo scopo di riattivare investimenti stranieri e di calmare le tensioni grazie a una riduzione della disoccupazione, ma che fallì proprio per l’assenza di una riforma agraria (ostacolata da un’oligarchia terriera sempre più preoccupata dalle agitazioni di campesinos sempre più “sin tierra” e dalle fluttuazioni del prezzo del caffè), il governo si trovò ad affronta re crescenti difficoltà.
Questo produsse un radicale irrigidimento dell’élite al potere, uscita economicamente rafforzata dal decennio precedente e sempre più disposta a dialogare con formazioni di estrema destra quali il Frente Agrario de la Región Oriental (Faro) o la Unión Guerriera Blanca (Ugb), ispirate da un viscerale anticomunismo e odio per l’azione delle Ceb e di movimenti popolari.
Dall’altra parte si riorganizzarono le opposizioni e fecero la loro comparsa le prime formazioni di guerriglia rivoluzionaria. Mentre cresceva il dinamismo di movimenti sociali quali il Bloque Popular Revolucionario (Bpr) o il Frente de Acción Popular Unificada (Fapu), con la crisi del 1972 iniziarono l’attività clandestina piccoli gruppi armati antigovernativi, quali Forze Popolari di Liberazione (Fpl), gruppo fuoriuscito dal Partito Comunista Salvadoregno organizzato dal noto attivista Salvador Carpio, le Forze armate di Resistenza Nazionale (Farn) e le Forze Armate di Liberazione (Fal), cui si sarebbe aggiunto l’Esercito Rivoluzionario del popolo (Erp).
Voci critiche verso il governo si levarono, a partire dal 1975, anche da parte di esponenti della Chiesa cattolica, e in particolare dei gesuiti (ma anche dello stesso arcivescovo di San Salvador, Luís Chávez y Gonzáles, protagonista nei primi anni Settanta di una coraggiosa e a suo modo inedita azione pastorale) preoccupati da una questione sociale sempre più accesa (accelerata anche dal boom demografico), specie nelle campagne.
La tensione crebbe ulteriormente con l’avvento al potere del generale Carlos Humberto Romero, salito alla presidenza nel 1977 in seguito a elezioni ancora una volta fraudolente (nonostante nella Uno fosse entrato anche un partito il Movimiento Unitario Nacional, fondato dai militari riformisti) e disposto a ristabilire l’ordine con qualsiasi mezzo a sua disposizione.
Il triennio 1977-1979 fu segnato in effetti da una costante escalation delle violenze (spesso a opera della Policia de hacienda e della Guardia Nacional) che colpirono in particolare contadini, ma anche membri delle comunità di base, delle organizzazioni sindacali e dello stesso clero, accusati dall’estrema destra di simpatizzare con la guerriglia, mentre alcuni

Omelia
È inconcepibile che qualcuno si dica cristiano e non assuma, come Cristo, un’opzione preferenziale per i poveri. È uno scandalo che i cristiani di oggi critichino la Chiesa perché pensa “in favore” dei poveri. Questo non è cristianesimo!... Molti, carissimi fratelli, credono che quando la Chiesa dice “in favore dei poveri”, stia diventando comunista, stia facendo politica, sia opportunista. Non è così, perché questa è stata la dottrina di sempre. La lettura di oggi non è stata scritta nel 1979. San Giacomo scrisse venti secoli fa. Quel che succede, invece, è che noi, cristiani di oggi, ci siamo dimenticati di quali siano le letture chiamate a sostenere e indirizzare la vita dei cristiani... A tutti diciamo: “Prendiamo sul serio la causa dei poveri, come se fosse la nostra stessa causa, o ancor più, come in effetti poi è, la causa stessa di Gesù Cristo”.
Oscar Romero, 9 settembre 1979
rappresentanti dell’oligarchia venivano rapiti e giustiziati dai gruppi ribelli. Al culmine della crisi e dello stallo politico, il generale Romero fu deposto nell’ottobre del 1979 da un golpe orchestrato da alcuni giovani ufficiali, riuniti nel movimento 2Mr, che diedero vita a una giunta rivoluzionaria. Pochi mesi prima (in luglio) il Centroamerica era tornato nell’occhio del ciclone, apprestandosi a vivere la stagione della “nuova guerra fredda”, in concomitanza con la vittoria sandinista nel vicino Nicaragua. Si apriva allora una delle stagioni più turbolente e drammatiche per la storia del Salvador.

Una terribile guerra civile
La nuova giunta insediatasi nel 1979 in un primo momento lasciò intravedere una possibile svolta di tipo “riformista”, impegnandosi nella organizzazione di “libere” elezioni e promettendo di svolgere un ruolo di pacificazione e riforma sociale (tra i membri civili della nuova giunta vi era anche il rettore della Uca, Román Mayorga e il socialdemocratico Ungo).
In realtà il progetto di “democratizzazione” dall’alto (seguito con interesse anche dall’ambasciatore statunitense Robert White) che aveva tra i suoi obiettivi la convocazione di libere elezioni e il varo della riforma agraria non fece nemmeno in tempo a iniziare. Mentre non s’interrompevano le violenze, nella nuova giunta il partito della “repressione” ebbe infatti rapidamente la meglio sulla componente riformista guidata dal colonnello Adolfo Majano, ostacolato del colonnello Abdul Gutiérrez e del ministro della difesa García.
Nel gennaio del 1980 fu quindi nominata una seconda giunta rivoluzionaria, marcatamente schierata su posizioni di estrema destra, in linea con le idee dell’ala più anticomunista ispirata dal generale in pensione Alberto Medrano (l’ideatore delle milizie paramilitari di Orden), dal maggiore Roberto d’Aubuisson, già attivo nei servizi segreti ed esperto delle tecniche antiguerriglia, e da un ex comandante della Guardia Nacional, Ramón Alvarenga.
Particolarmente contraddittoria apparve la decisione della Democrazia cristiana (prima con Antonio Morales Ehrlich ed Héctor Dada Hirezi, poi ritiratosi, cui sarebbe presto subentra to José Napoleón Duarte) di appoggiare la giunta, nonostante l’imponente manifestazione antigovernativa di 250.000 persone, nella capitale del 22 gennaio. La scelta fu giustificata con la necessità di svolgere un ruolo di moderazione, ma contestata come “irresponsabile” da molti dirigenti del partito che preferirono dimettersi, darsi all’esilio o aderire alla scissione promossa da Mario Zamora, freddato da uno squadrone della morte mentre tentava il lancio di un nuovo movimento politico cristiano.
Tra questi vi fu anche la responsabile della Commissione per i diritti umani dell’arcidiocesi di San Salvador, Marianela García Villas, che di lì a tre anni sarebbe stata uccisa da uno “squadrone della morte” per la sua attività di denuncia delle violenze contro i campesinos nell’ambito della Commissione dei diritti umani dell’arcidiocesi. Alla linea dura imposta dai gruppi di estrema destra che fiancheggiavano la nuova giunta, segnata dall’incremento esponenziale di “eliminazioni” mirate, rapimenti e torture, secondo il modello argentino, la guerriglia rispose “alzando il tiro” della propria azione e serrando le proprie fila – in ottobre cinque diversi gruppi avrebbero dato vita al Frente de Liberación Nacional Farabundo Martí (Fmln) – e stringendo i legami con il vicino Nicaragua.
Proprio mentre negli Usa il repubblicano Ronald Reagan nella sua campagna elettorale accusava il più moderato Carter di eccessiva debolezza in Centroamerica, la situazione salvadoregna precipitava dunque da uno stato di “crisi permanente” a quello di aperta guerra civile. Un ulteriore segnale di questa escalation venne, il 24 marzo del 1980, dall’uccisione, mentre celebrava la messa nella cappella di un ospedale, dell’arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero.
Questi, pur venendo da una formazione conservatrice che lo aveva visto estraneo al processo di penetrazione della teologia della liberazione nel Paese, da quando aveva assunto la guida dell’arcidiocesi della capitale (nel febbraio del 1977) si era impegnato direttamente in azioni di sostegno alle classi più disagiate. A queste aveva accompagnato una coraggiosa denuncia delle violazioni dei diritti umani perpetrate dall’esercito, e una condanna generale dell’uso della violenza che si traduceva in un accorato appello alla riconciliazione e alla giustizia sociale, espresso attraverso le sue omelie, la sua azione pastorale e l’attività della radio diocesana Ysax, della Commissione diritti umani e del Socorro Jurídico. L’azione di denuncia di Romero culminò in una lettera aperta scritta al presidente Carter, nel noto vibrante discorso all’università di Lovanio del 1979 (che gli concesse una laurea ad honorem) e nell’ultimo famoso e tragico appello ai militari a “disobbedire”.
L’uccisione del vescovo, l’eliminazione di preti socialmente impegnati (a cominciare dal parroco di Aguilares, padre Rutilio Grande, nel 1977) e il massacro di centinaia di catechisti nei villaggi, oltre che di migliaia di membri laici delle comunità di base, diede il segno del coinvolgimento della Chiesa salvadoregna nel processo di riforma sociale (nonostante la decisa contrarietà dei settori più conservatori guidati dal vescovo di San Vicente, Aparicio y Quintanilla). Emblematico fu il famigerato motto coniato fin dal 1977 da alcuni gruppi di estrema destra: “Haga patria, mate un cura”. Tutto ciò in una fase in cui, dopo la conferenza di Puebla del 1979 (la III del Celam) e sotto la spinta dell’avanzata delle sette neoprotestanti, prendeva il via un processo di “depoliticizzazione” del fenomeno della teologia della liberazione e di mutamento delle linee generali di azione sociale ed ecclesiale nelle periferie dell’America latina. L’omicidio di Romero (oggi considerato in molti settori della società salvadoregna alla stregua di un vero e proprio “santo popolare”) e il successivo massacro di numerosi manifestanti asserragliatisi nella cattedrale in occasione dei suoi funerali, pur dando un certo risalto internazionale alla grave crisi del Salvador, non sbloccò la situazione.
Questo fu anzi il preludio alla stagione della guerra civile. Nonostante il tentativo di varare una riforma agraria promosso dalla giunta dal marzo 1980 (a che si sarebbe dovuto strutturare in tre fasi, ridistribuendo le terre, prima degli appezzamenti superiori ai 500 ettari, poi di quelli intermedi, di cui facevano parte le fincas del caffè, poi in base a un programma concordato con l’esperto statunitense Roy Posterman e mai effettivamente attuato) la situazione degenerò ulteriormente. Due mesi dopo l’uccisione dell’arcivescovo il governo dichiarò lo Stato d’assedio e la violenza crebbe d’intensità con un’escalation impressionante.

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