Pietra d’inciampo

Prima conservatore. Poi la liberazione irruppe nella sua vita. Sino a divenire il simbolo massimo dell’opzione per i poveri.
José Maria Vigil

Dopo venticinque anni si può affermare senza paura: Romero si è cristallizzato nella memoria popolare ed ecclesiale e persino nella pubblica opinione della società in generale come “il martire latinoamericano per antonomasia”, il più conosciuto e il più universalmente amato, persino dalle persone lontane dalla religione. Ci chiediamo: perché? Per pura simpatia? No, ma per i suoi meriti.
Quali?
Romero non abbracciò all’inizio la teologia e la spiritualità della liberazione; al contrario, fu un grande conservatore (per questo fu nominato arcivescovo) ma, alla fine della sua vita, “a sessant’anni, si convertì” si lasciò interpellare e cambiò. Assunse in modo molto personale questa teologia e questa spiritualità e le visse con totale coerenza e in maniera eroica. Di più: come arcivescovo, riuscì a istituzionalizzare l’opzione per i poveri nella sua Chiesa locale, in modo che la pratica pastorale della sua arcidiocesi fu di fatto un’incarnazione o applicazione concreta di questa teologia e spiritualità. La sua non fu un’esperienza personale meramente individuale, ma trascinò con se l’esperienza comunitaria di tutta una Chiesa locale.
La sua posizione liberatrice non fu semplicemente pratica, ma irruppe profondamente nel mondo teologico, dando mostra di una notevole lucidità. Le sue omelie e i suoi scritti occupano oggi otto volumi e sono tutto un riferimento teologico. Il suo discorso come dottore honoris causaall’Università di Lovanio è un testo antologico della teologia della liberazione. È per tutto ciò, e non per mera simpatia o per una aleatoria fama ingiustificata, che Romero è, come diciamo, un “simbolo massimo” dell’opzione per i poveri o, che è lo stesso della teologia e della spiritualità della liberazione. Ci sono molti altri martiri latinoamericani, ma nessuno riunisce in sè questa eminente realizzazione della scelta per i poveri, tanto nella propria persona come, attraverso di essa, in una Chiesa locale, con un supporto teologico tanto serio e con la firma e l’avallo del martirio.

Il conflitto con lo Stato
Basta rileggere la biografia di Romero per ricordare l’esasperata tensione del conflitto che vissero il popolo e la Chiesa di San Salvador col potere dello Stato. Di fatto, gli anni dell’episcopato di Romero furono anni di guerra, non dichiarata ma reale. Persecuzioni, eliminazioni, sparizioni di massa, torture, (c)Archivio Mosaico di pace/Salvador esecuzioni extragiudiziali, massacri… furono “il nostro pane quotidiano” durante il suo ministero pastorale arcidiocesano. Il Salvador era il Paese cosiddetto delle “quattordici famiglie”: la disuguaglianza sociale era tanto forte che quattordici cognomi detenevano l’immensa parte della ricchezza del Paese più piccolo e più densamente popolato dell’America continentale. Trentamila furono i contadini massacrati nel 1932 perché reclamavano giustizia. Maggiore fu il numero dei morti nella guerra che stava per iniziare ai tempi di Romero e che egli non poté fermare. Se il conflitto era già grande di per sé, subì un aggravamento nel coinvolgimento degli Stati Uniti, con il loro decisivo aiuto tecnologico ed economico al governo e all’esercito salvadoregno nella loro repressione contro il popolo.
Ma non si trattava di un governo materialista, comunista, ateo… bensì, al contrario, di un governo diretto da alcune oligarchie “cattoliche”, per le quali molti sacerdoti e vescovi fungevano da cappellani. Questo Stato cattolico, governato da una ultradestra capitalista e conservatrice, si impegnò a fondo, con tutta la sua forza, in una guerra contro il suo popolo, per difendere la sua egemonia e il suo sistema economico di sfruttamento. Questa repressione non solo fu diretta contro il popolo organizzato, ma specificatamente contro la Chiesa liberatrice. “Sii patriota, uccidi un prete”, fu un motto che rese celebre la destra salvadoregna in quei tempi. La persecuzione contro la Chiesa di San Salvador potrebbe essere paragonata a quella perpetrata dall’impero romano contro i primi cristiani. Ancor meglio si potrebbe paragonare alla persecuzione sofferta dal primo testimone, Gesù: come si è detto e ripetuto, i martiri latinoamericani – Romero per primo – sono martiri “gesuatici”, non semplicemente “cristiani”.
Come Gesù, che fu giustiziato dal potere, Romero esemplifica paradigmaticamente il conflitto tra la sequela di Gesù nell’opzione per i poveri e il potere stabilito in una società di dominazione borghese. Questo conflitto tra l’opzione per i poveri o la spiritualità della liberazione e lo Stato borghese non fu un conflitto che avvenne occasionalmente in El Salvador, ai tempi di Romero, ma si tratta di un conflitto ontologicamente essenziale, storicamente inevitabile, necessario in termini cristiani. È indubbio che, su questo punto, l’opzione per i poveri e la spiritualità della liberazione percorrano il cammino storico di Gesù.

Il conflitto con la Chiesa
Romero mantenne un senso della Chiesa e una fedeltà alla stessa, a tutta prova. Il suo motto episcopale “Sentire con la Chiesa” definì fin dal principio la sua identità più profonda. Ancora oggi capeggia la sua tomba. Ciò nonostante, il Romero già convertito all’opzione per i poveri sperimentò notevoli difficoltà con l’istituzione ecclesiastica superiore, quella vaticana. Romero conobbe solo i primi diciassette mesi del pontificato di Giovanni Paolo II, ma questo breve tempo fu sufficiente per manifestare il conflitto.
Il primo a intuirlo fu lo stesso Romero. Dopo pochi giorni dall’elezione di Karol Wojtila come Papa, in una celebrazione con i sacerdoti a Opico (El Salvador), i testimoni affermano che disse: “Sono preoccupato di questo nuovo Papa. Temo che non capisca la realtà dei nostri popoli latinoamericani. Viene dalla Polonia, viene dall’altra parte… Chissà se appoggerà il governo degli Stati Uniti. Per combattere il comunismo. Credendo che così si difenda la fede, che così convenga alla Chiesa…”. Il tempo si sarebbe incaricato di dargli ragione e di fargli sperimentare personalmente il conflitto.
(c)Archivio Mosaico di pace/Salvador Quando fu a Roma, la curia vaticana gli creò delle difficoltà per concedergli l’incontro con Giovanni Paolo II, dovendosela procurare personalmente, arrivando fisicamente a fianco del Papa durante l’udienza generale per reclamarla.
La testimonianza di María López Vigil da ciò che lo stesso Romero le raccontò tra le lacrime, sull’incontro personale con Giovanni Paolo II è estremamente significativa: un Giovanni Paolo II serio e distante, che non accoglie l’angoscia di Romero e che non crede alla sua testimonianza personale sul sacerdote Octavio Ortiz, assassinato dal governo, sacerdote che il Papa considera un guerrigliero. In cambio, il Papa chiede a Romero che abbia buone relazioni con il governo che sta assassinando i suoi sacerdoti e i contadini, e glielo chiede proprio lui che durante la sua vita in Polonia fu un acerrimo oppositore del suo governo…
Non addentriamoci a ricordare dettagliatamente il caso della lettera di Romero che fu filtrata dalla curia vaticana all’ambasciata nord americana di San Salvador, che portò Romero a chiedersi: “Ma allora, Roma da che parte sta?”, dalla parte del popolo e della Chiesa di San Salvador o dalla parte del governo salvadoregno e dell’ambasciata degli Stati Uniti? Si può dire che il conflitto proseguì dopo la sua morte: Giovanni Paolo II escluse dal programma della sua visita a San Salvador una visita alla tomba di Romero, includendola poi in modo imprevisto e fuori programma, così che da un lato la “compì” ma dall’altra non acconsentì a condividere la sua devozione per Romero, mettendo così in chiaro che non la avallava.
Possiamo anche vedere un prolungamento del conflitto nella nomina dell’attuale arcivescovo La Calle, per occupare la sede di Romero: un vescovo straniero (in una diocesi sovrabbondante di clero nativo), dell’Opus Dei (essenzialmente contrario alla spiritualità latinoamericana della liberazione) e generale dell’esercito che assassinò il suo antecessore…
È conosciuta la politica conservatrice nella scelta dei vescovi imposti alle Chiese locali; nel caso di La Calle, insieme a quello del successore di Hélder Camara, sono probabilmente i casi più estremi, dei quali difficilmente la storia si dimenticherà. Questo conflitto ecclesiastico istituzionale con Romero non fu con lui personalmente, ma con tutta la Chiesa martoriale dei poveri dell’America Latina. Giovanni Paolo II che, inspiegabilmente, ha beatificato e canonizzato quasi la metà dei santi registrati nel santoriale romano, non ha beatificato uno solo dei membri della “immensa nube di testimoni” che formano la pleiade martoriale latinoamericana. Nemmeno uno. Si tratta di un martirio collettivo rifiutato, non riconosciuto, sebbene Karol Wojtyla abbia effettuato simultaneamente alcune delle canonizzazioni più contestate della storia (quella del marchese di Peralta, José María Escrivá, o quella dell’imperatore Carlo D’Asburgo, per fare solo qualche esempio). Le ultime notizie dicono che il processo di beatificazione di Romero – che non si è potuto fare a meno di iniziare a livello diocesano – si propone di riconoscerlo non come martire, ma come “confessore”…
A nostro giudizio, le parole di Casaldáliga a Jon Sobrino continuano a essere pienamente attuali: «“Che non canonizzino mai San Romero d’America perché gli farebbero un’offesa. Egli è santo in modo molto particolare. È già canonizzato. Dal popolo. Non gli serve nient’altro”… dissi a Jon Sobrino quando andai a visitare il sepolcro dell’arcivescovo martire e aggiunsi: “Guarda, Jon, non serve a nessuno canonizzare Romero, perché sarebbe come pensare che non sia servita la prima canonizzazione”…».

Religione e religiosità
A venticinque anni da Romero e a quaranta dal Vaticano II, constatiamo che la prospettiva è cambiata. Anche qui avviene che “quando già abbiamo la risposta ci hanno cambiato la domanda”. Nel più profondo del cristianesimo e della società le domande si sono trasformate sostanzialmente negli ultimi anni. La crisi della religione in Europa è forse il punto visibile di un immenso iceberg epocale che sta crescendo silenzioso e quasi impercettibile: una diserzione di massa dei fedeli cristiani che si staccano dalla Chiesa, una generazione giovane che quasi rinuncia in blocco a entrarvi, una perdita quasi totale di credibilità e di riconoscimento sociale, un confinamento dell’ecclesiastico al campo del tradizionale – culturale e un imponente indifferenza sociale nei confronti della Chiesa, configurano oggi i tratti maggiori dell’atteggiamento della società moderna europea.
In questa società europea avanzata, postindustriale, dell’informazione o “della conoscenza” le “religioni” appaiono sempre più come forme superate, configurazioni sociali che la religiosità o spiritualità permanente dell’uomo ha allestito in questo ultimo periodo dell’evoluzione storica, da appena cinquemila anni. Da parte sua, la religiosità dell’essere umano archeologicamente datata risale a più di centocinquantamila anni. “Le religioni”, nel senso concreto con cui utilizziamo la parola, si sono date solo negli ultimi cinquemila, come forma di religiosità connaturale delle società agrarie, quelle che si formarono nel Neolitico. Le istituzioni religiose sono state come il software che è servito per programmare i membri di ciascuna società nel dar loro identità, appartenenza, ideologia profonda, controllo, sottomissione… mediante una cosmovisione totalizzante apportata da alcune “credenze” proposte come indistruttibili e a cui si doveva una sottomissione indiscutibile e assoluta…
“Le religioni”: questa è stata la forma che ha rivestito l’eterna dimensione religiosa dell’essere umano dall’epoca agraria, epoca che precisamente sta finendo oggi. Assistiamo infatti al momento storico in cui, in Europa forse come luogo di realizzazione più avanzata, stanno scomparendo le ultime vestigia di quella società agraria. Entriamo in una nuova tappa dell’evoluzione umana, una società sostanzialmente diversa e con una epistemologia radicalmente diversa. I dati sembrano sostenere la previsione che le “religioni” – sempre in questo preciso senso che stiamo dando alla parola – in maniera proporzionale al progresso dell’impianto culturale della società della conoscenza, diventeranno realtà del passato. Questo, logicamente, non succederà né oggi né domani; le religioni resteranno ancora per un buon tempo, perlomeno finché perdurerà la presenza della società agraria nel nostro mondo attuale… La spiritualità resterà, consustanziale com’è con l’essere umano: ha accompagnato l’uomo per decine di migliaia di anni prima che apparissero le “religioni” e potrà continuare ad accompagnare l’umanità se queste un giorno spariranno. In ogni caso, tutto lascia pensare che già stanno iniziando ad apparire forme di spiritualità religiose, laiche, “senza credenze”, “al di là delle religioni”.
Non possiamo nella brevità di questo testo inoltrarci a presentare né dibattere a fondo quest’interpretazione della crisi della religione nel mondo attuale, principalmente nella società europea. Però vogliamo estrapolare il significato di Romero mettendolo in relazione con essa. Così come Romero è una luce e un appello di fronte a questa “lezione sospesa” del superamento del cristianesimo di cristianità, possiede anche qualche messaggio, qualche luce, per questa crisi attuale della religione, principalmente in Europa? Diciamo subito che Romero è “il martire latinoamericano più universalmente amato, anche dalle persone lontane dalla religione”. Questo vale anche in Europa. Nell’Europa suppostamente descristianizzata, laica, laicizzata e religiosa, Romero continua a essere ammirato e valorizzato al di sopra e a margine della religione. Venticinque anni dopo il suo assassinio, Romero non è in Europa un chierico esemplare, un ecclesiastico ammirabile o un riconosciuto “uomo di religione”. Romero è uno di quei personaggi che hanno trasceso se stessi e si sono trasformati in patrimonio dell’umanità, eredità comune, simbolo umano universale, al di là delle sue coordinate religiose.
Ovviamente, nessuno ignora che Romero fu un uomo di Chiesa, concretamente un vescovo, situato nel suo contesto religioso concreto e limitato; non gli si chiede ciò che non potrebbe dare, essendo una persona del suo tempo. Al contrario, oggi si riconosce universalmente che al di là delle sue concretezze specifiche, di tempo e di spazio, di cultura e di religione, in Romero emerse e si diede la realizzazione di una forma trascendente di umanità e umanizzazione, che resiste alla trasposizione di tempo, di spazio e di cultura e che si evidenzia come una forma di realizzazione umana nella quale emerge un messaggio che continua a essere luminoso e valido per l’oggi. Agli occhi europei, del Romero in carne e ossa che visse venticinque anni fa, sono scomparsi – perché irrilevanti – i tratti dell’uomo di Chiesa, del chierico eminente, dell’uomo di “religione”, per apparire, spogliato di queste ulteriori caratteristiche, trasparente nel suo valore trascendente più centrale: una realizzazione umana spirituale che continua a meritare un rispetto sempre più riconosciuto in questa società che si sente già al di là delle “religioni”.
Così quindi, nell’Europa che rifiuta le “religioni”, Romero e tutto ciò che simbolizza non viene rifiutato, ma rispettato e riconosciuto. Romero è simbolo di qualcosa che sta “più in là della religione”, qualcosa che non si confonde con essa. Perché?
Giunti a questo punto, ho più domande che risposte, più intuizioni che osservazioni: sarà che l’opzione per i poveri e la spiritualità della liberazione sono alcune delle dimensioni più profonde della spiritualità e sarà perciò quello che meglio si salverà del declino delle religioni istituzionali? Sarà per questo che la religione-istituzione si è rapportata e si rapporta tanto male con esse? Potrebbe darsi che la spiritualità e l’opzione per i poveri fossero già, in qualche modo, una risposta anticipata per la crisi delle religioni nel loro impatto con la modernità?
Sarà vero che sono incompatibili con la “Chiesa di cristianità”, con le religioni istituzione, in quanto queste portano scritte nei propri geni la loro identità di “potere religioso-sociale alla ricerca di alleanza con il potere sociale” (religione dello Stato, religione della società, religione dell’istituzione)? Sarà che la forma di “religione” non è adeguata per il Vangelo di Gesù? Sarà che il cristianesimo della liberazione dovrebbe affrontare il tema della crisi della religione e progettare il passaggio a una nuova “forma” religiosa, al di là della (forma) “religione”, al di là delle “religioni”?
Sarà che il rinnovamento futuro del cristianesimo dentro la società post-agraria, società della conoscenza, consisterà nel recuperare gesuaticamente il suo carattere di “movimento di Gesù”? Sarà che l’opzione per i poveri è la versione attualizzata della “regola d’oro” come minimo e più profondo comune denominatore etico delle religioni e che è chiamata a uscire sulla pubblica piazza della nuova società mondiale, al di là del controllo di una istituzione religiosa, per trasformarsi nel fondamento di un etica mondiale e una spiritualità laica mondiale?
Tutto sembra indicare che, oggi giorno, le Chiese istituzionali non sono ancora nelle condizioni di (ri)scoprire l’opzione per i poveri. Romero deve ancora aspettare, rispetto alla Chiesa istituzione. Ma ciò non ci impedisce di andare oltre. Possiamo considerare la possibilità che, ancora per un buon tempo, l’opzione per i poveri e la spiritualità della liberazione possano continuare a essere impraticabili nella Chiesa“religione”, anche sotto un papato riformato, democraticamente eletto, collegialmente impegnato, evangelicamente convertito alla Causa dei poveri.
Si potrebbe pensare che l’opzione per i poveri e la spiritualità della liberazione siano forse a un livello d’utopia tanto elevato – o tanto profondo – che la sua piena realizzazione risulta impraticabile dentro la riforma storica istituzionale delle “religioni”? Potremmo pensare che questo Romero “impraticabile” e perciò martire, sia come la punta di questo enorme iceberg, che sta aspettando di venire a galla “credendo in un altro modo”, facendo il passo che il cristianesimo non ha ancora veramente fatto verso il terzo millennio, creando questa “nuova forma” di religiosità che i più attenti studiosi della religione iniziano a cogliere come un clamore sordo ma assordante?
Sono le riflessioni e le domande che mi suscita la celebrazione dell’anniversario del martirio di Romero, in un mondo che venticinque anni dopo sta registrando una mutazione religiosa epocale, la cui maggiore manifestazione sta forse avvenendo oggi in Europa, ma che in un mondo mondializzato non possiamo più considerare come qualche cosa di solamente europeo, ma di condiviso a livello mondiale. In questo senso, sotto questo aspetto, Romero non è eloquente solo per l’Europa, ma per tutta l’umanità.

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