In vena di confidenze

Racconti vissuti. Voci su un vescovo scomodo. Impertinente. Tormentato. Dall’amore per il suo popolo. E dalla relazione con la Chiesa.
César Jerez e María López Vigil

César Jerez
Da Roma mandarono a chiamare anche me, quando uccisero il padre Rutilio Grande. Accompagnai Romero e Urioste nelle loro visite ai dicasteri romani e prendemmo insieme i pasti. Avemmo una lunga conversazione con il cardinale Silvestrini, mentre Romero entrò da solo a parlare con il cardinale Casaroli e solo ebbe pure un incontro con il cardinale Baggio.
Dopo cena, capii che Monsignor Romero era in vena di sfogarsi, meno timido del solito. Iniziò a raccontarmi l’incontro con Baggio. “È quasi un peccato imperdonabile lo scontro che lei ha avuto con il nunzio, per questa messa unica!”, lo aveva ammonito Baggio. “Io volevo, signor cardinale, discutere ciò più lungamente” si difese lui. “È questo che succede con lei, che discute troppo!”. “Ma il mio non è un discutere per discutere, ma per esporre le ragioni…”. “Ragioni! I vescovi impertinenti non hanno posto nella Chiesa!”. Fu una disputa forte e non conclusero niente.
Camminavamo lentamente. Improvvisamente Romero si fermò pensieroso. “Padre Jerez, lei crede che mi toglieranno da arcivescovo di San Salvador?” “Guardi Monsignore, per togliere un vescovo devono istruire un processo e dimostrare che è un simoniaco, un donnaiolo, un volgare, che segue strade sbagliate… con lei non troverebbero un pelo nella zuppa!” “Allora…!”. “Allora, non credo che possa succedere, però stia pure sicuro che non diventerà nemmeno cardinale di Santa Madre Chiesa!”. Rise, poi tornò di nuovo serio. “In questo caso, preferisco che mi tolgano da arcivescovo e poter andare a testa alta piuttosto che offrire la Chiesa ai poteri di questo mondo”.
A questo punto fui io a restare immobile. Era una frase molto impegnativa quella che aveva detto. Perché “i poteri di questo mondo” di cui mi stava parlando non erano quelli del governo salvadoregno, ma quelli del governo della Chiesa, quelli del cardinale Sebastiano Baggio. Sembrava deciso a non inchinarsi di fronte a loro… Camminavamo per via della Conciliazione. In fondo, la cupola del Vaticano. Era notte. Io sentivo che quel freddo, l’oscurità, il silenzio favorivano le confidenze. Osai farlo parlare.
“Monsignore, lei è cambiato, si nota in tutto… cosa è successo?”. Mi avventai come un tacchino sul grano. “Perché cambiò Monsignore?”. “Vede, padre Jerez, anch’io mi faccio la stessa domanda nella preghiera…”, si fermò e rimase in silenzio. “E ottiene qualche risposta Monsignore?”. “Qualcuna si… è che ognuno ha le sue radici… io nacqui in una famiglia molto povera. Ho provato la fame, so cosa significa lavorare da bambini… Da quando entrai in seminario e iniziai gli studi – mi mandarono qui a Roma per terminarli – passai anni tra i libri e dimenticai le mie origini. Mi feci un altro mondo. Poi, tornato in Salvador, mi diedero la responsabilità di segretario del vescovo di San Miguel. Passai là ventitré anni sommerso tra le carte. E quando mi chiamarono a San Salvador come vescovo ausiliare caddi nelle mani dell’Opus Dei, e lì rimasi…”.
Camminavamo lentamente, mi sembrava che Romero avesse voglia di continuare a parlare.
“Mi mandarono poi a Santiago de Maria e lì si che tornai a scontrarmi con la miseria. Con quei bambini che morivano per l’acqua che bevevano, con quei contadini maltrattati durante i raccolti… E sa, padre, il carbone diventato brace si riprende al primo soffio. Non fu poco quello che successe appena diventato arcivescovo; il fatto del padre Grande. Lei sa che io lo apprezzavo molto. Quando vidi Rutilio morto, pensai: se l’hanno ucciso per quello che faceva mi tocca andare per la sua stessa strada… cambiai, ma fu anche un ritorno…”.
Continuammo in silenzio. La luna nuova poneva un accento di luce nel cielo romano.

María López Vigil
“Mi comprenda, ho bisogno di avere un’udienza con il Santo Padre…”. “Comprenda che dovrà aspettare il suo turno, come tutti”.
Un’altra porta vaticana gli si chiudeva in faccia. Da San Salvador e con il tempo necessario per superare gli ostacoli della burocrazia ecclesiastica, monsignor Romero aveva sollecitato un’udienza personale con il papa Giovanni Paolo II. E andò a Roma sicuro che, al suo arrivo, tutto sarebbe stato sistemato. Ora tutte le sue precauzioni sembravano svanite come fumo. I curiali gli dicevano di non saper nulla di quella richiesta. E lui andava supplicando per quest’udienza di ufficio in ufficio.
“Non può essere – disse a un altro – io scrissi molto tempo fa e qui deve esserci la mia lettera...”. “La posta italiana è un disastro!”. “Ma la mia lettera la mandai a mano con …”.
Un’altra porta chiusa. E il giorno seguente un’altra ancora. I curiali non volevano che incontrasse il Papa. E il tempo a Roma, dove era stato invitato da alcune suore, che celebravano la beatificazione del loro fondatore, stava finendo.
Non poteva tornare a San Salvador senza aver visto il Papa e senza aver gli raccontato tutto quello che stava succedendo là.
“Continuerò a mendicare quest’udienza” s’incoraggiava monsignor Romero. La domenica, dopo la messa, il Papa scese nel grande salone di enorme capienza, dove lo aspettava una moltitudine per la tradizionale udienza generale. Monsignor Romero si era alzato molto presto per riuscire a mettersi in prima fila. E quando il Papa passò salutando, gli afferrò la mano e lo trattenne. “Santo Padre – gli disse con l’autorità dei mendicanti – sono l’arcivescovo di San Salvador e la supplico che mi conceda un’udienza”. Il Papa acconsentì. Alla fine c’era riuscito: sarebbe stato per il giorno dopo. Era la prima volta che l’arcivescovo di San Salvador incontrava il papa Karol Wojtyla, che da appena sei mesi era Sommo Pontefice. Gli portò, accuratamente selezionati, dei rapporti di tutto ciò che stava succedendo nel Salvador, perché il Papa ne fosse informato. E poiché succedevano tante cose, i rapporti erano voluminosi.
Monsignor Romero li portò in una scatola e li mostrò ansioso al Papa appena iniziato l’incontro. “Santo Padre, qui potrà leggere lei stesso come tutta la campagna di calunnie contro la Chiesa e contro di me viene organizzata nella stessa casa presidenziale”. Il Papa non toccò un foglio. Né aprì il fascicolo. Nemmeno chiese nulla. Solo si lamentò. “Vi ho già detto di non venire carichi di tanti fogli! Qui non abbiamo il tempo di leggere tante cose”. Monsignor Romero rabbrividì, ma cercò d’incassare il colpo. E lo incassò: doveva esserci un malinteso.
In un'altra busta aveva portato al Papa anche una foto di Octavio Ortiz, il sacerdote che la Guardia aveva ucciso alcuni mesi prima insieme a quattro giovani. La foto era un primo piano del volto di Octavio morto. Nel volto schiacciato dal blindato si delineavano i tratti indigeni e il sangue li sottolineava ancora di più. Si notava molto bene un taglio fatto col machete sul collo.
“Io conoscevo molto bene Octavio, Santo Padre, ed era un bravo sacerdote. L’avevo ordinato io e sapevo tutti i lavori in cui era impegnato. Quel giorno stava dando un corso sul Vangelo ai ragazzi del quartiere…”. Gli raccontò ogni dettaglio. La sua versione di arcivescovo e la versione diffusa dal governo. “Guardi, Santo Padre, come gli spappolarono la faccia…”. Il Papa guardò fissamente la foto e non chiese altro. Guardò poi gli occhi umidi dell’arcivescovo Romero e mosse la mano indietro, come volendo togliere drammaticità al sangue raccontato.
“Ce lo uccisero tanto crudelmente, dicendo che fosse un guerrigliero…”, ricordò l’arcivescovo. “E per caso non lo era?”, rispose freddamente il pontefice. Mons. Romero guardò la foto dalla quale sperava tanta compassione. Qualcosa gli fece tremare la mano: doveva esserci un malinteso. Continuò l’udienza. Seduti uno di fronte all’altro, il Papa inseguiva una sola idea.
“Lei, signor arcivescovo deve sforzarsi di avere una relazione migliore con il governo del suo Paese”. Mons. Romero lo ascoltava e la sua mente volava verso il Salvador, ricordando ciò che il governo del suo Paese faceva al popolo del suo Paese. La voce del Papa lo riportò alla realtà. “Un’armonia tra lei e il governo salvadoregno sarebbe la cosa più cristiana in questi momenti di crisi…”. Monsignore continuava ad ascoltare.
Erano argomenti con i quali, in altre occasioni, era già stato pressato da altre autorità ecclesiastiche. “Se lei superasse le proprie divergenze con il governo, potrebbe lavorare cristianamente per la pace…”. Il Papa insistette tanto che l’arcivescovo decise di smettere di ascoltare e chiese di essere ascoltato. Parlò timidamente, ma deciso: “Ma, Santo Padre, nel Vangelo, Cristo ci dice di non essere venuto a portare la pace ma la spada”. Il Papa fissò Romero negli occhi: “Non esageri, signor arcivescovo!”. Terminarono gli argomenti e anche l’udienza. Tutto ciò me lo raccontò mons. Romero, quasi piangendo, l’11 maggio 1979, a Madrid, mentre rientrava affrettatamente nel suo Paese, costernato dalle notizie di un massacro nella cattedrale di San Salvador.

Testimonianze tratte dal libro di María López Vigil, Monsignor Romero. Frammenti per un ritratto, NdA Press, 2005.

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