CONFLITTI DIMENTICATI

Guerra schermata

La tv sceglie la guerra che gli piace. Conclusione scomoda ma non sorprendente di un’indagine sui conflitti dimenticati e l’informazione. Per capire come ogni giorno scompare una parte del mondo dai nostri sguardi.
Diego Cipriani

“La tesi fondamentale è che la verità dei fatti, la conoscenza dei drammi indicibili portati dalle guerre, porta alla pace. Viceversa l’oblio, la superficialità o, peggio, le menzogne sono strumenti di violenza”. È una delle considerazioni finali contenute nel rapporto di ricerca Guerre alla finestra, pubblicato recentemente dalla Caritas Italiana, realizzato in collaborazione con “Famiglia Cristiana” e “Il Regno” (per i tipi de Il Mulino). Si tratta della seconda ricerca, dopo quella su I conflitti dimenticati (edita da Feltrinelli nel 2003), che analizza il rapporto tra i conflitti nel mondo e l’informazione che l’opinione pubblica italiana ne riceve. Se la prima ricerca era volta maggiormente ad analizzare il grado di “dimenticanza” dei conflitti (5 casi-studio presi in esame per un paio d’anni) da parte dei massmedia italiani e a cercare di capire il perché di questa rimozione collettiva, la seconda ricerca ha voluto indagare più approfonditamente sull’evoluzione della guerra negli ultimi anni per comprendere meglio il legame tra il “nuovo” modello dei conflitti armati e l’opinione pubblica.

Guerra diffusa
Il primo interrogativo dal quale è partita la ricerca ruota attorno alla possibilità di individuare un nuovo modello di conflitto, alla luce degli scenari internazionali più recenti. Sarebbe entrato in crisi, infatti, il tradizionale modello che segue la sequenza “pace-guerra-pace”, mentre si è andata imponendo una tipologia di guerra “protratta e diffusa”, infinita (aggettivo tanto caro a G. W. Bush), nella quale la violenza bellica rappresenta solo un episodio “acuto”, nell’ambito di una situazione cronica di tensione e conflitto tendenzialmente permanenti, insomma il precipitare di una crisi endemica.
Da questa prima pista la ricerca si è spinta a cercare di rispondere ad altri due interrogativi. Il primo: in quale misura l’attenzione pubblica tiene conto dell’attuale configurazione delle guerre, cogliendo nel tempo la cronicità e il periodico riacutizzarsi di tali conflitti? E poi: è possibile evidenziare e in qualche modo quantificare, valutare, il “residuo” conoscitivo delle guerre infinite nella coscienza pubblica italiana?
A quest’ultima domanda, la ricerca risponde offrendo un quadro non molto entusiasmante dei nostri media, grazie ai quali la guerra “si affaccia” semplicemente alla vita della gente senza entrarvi in casa, senza cioè interagire con i vissuti e le scelte di fondo. Infatti, proprio perché prolungata e permanente, l’esposizione mediatica al conflitto rischia di determinare da una parte atteggiamenti collettivi di relativizzazione della guerra, soprattutto perché combattuta lontano da casa, da un gruppo di professionisti, a scapito di popolazioni “lontane” per cultura e tradizioni, dall’altra emerge una diffusa percezione di insicurezza e addirittura di paura, che determina atteggiamenti e comportamenti conseguenti, non necessariamente violenti.
Ma vediamo più da vicino il comportamento dei media italiani nei confronti delle guerre. Va subito precisato che i ricercatori hanno scelto sei

Informazione violenta
Vi è oggi un progressivo allontanamento dai valori originari del giornalismo, a favore invece della spettacolarizzazione dell’evento mediatico: la guerra è diventata uno dei più grandi eventi mediatici dei nostri tempi,; è servita in diretta sui palinsesti 24 ore su 24. Eppure, nonostante la guerra sia più visibile, diventa sempre meno comprensibile. Come mai? Il racconto della guerra da parte dei giornalisti è sempre meno vincolato alle regole del giornalismo, ed è sempre più assoggettato alle leggi dello spettacolo. Occorre a questo riguardo una sorta di nuova “responsabilità sociale dell’informazione”: per superare il rischio di abituarsi all’orrore del terrorismo e delle guerre è necessaria una vera e propria scossa collettiva.
Da un altro punto di vista, le concentrazioni mediatiche rischiano di soffocare le democrazie. Le leggi dei talk show, le leggi dell’audience e dei media televisivi penalizzano il telespettatore, che si aspetta invece degli strumenti per poter capire, per poter decifrare una guerra, farsi un’opinione e prendere delle decisioni. In realtà i giornalisti non fanno capire la guerra, anzi narcotizzano lo spettatore attraverso una marea di immagini. In questo modo viene penalizzata la possibilità che l’opinione pubblica prenda decisioni autonome ed eserciti il suo diritto-dovere ad essere informata.
Il giornalismo oggi è sempre più propaganda e sempre meno informazione. Ad esempio, sul tema dell’obiettività dei giornalisti “embedded”, al seguito delle forze armate sul campo di battaglia, c’è stato in tutto il mondo occidentale un grande dibattito, anche all’interno della stessa comunità giornalistica; in Italia l’approfondimento di tale questione è apparso carente. Questo significa che è oggettivabile una carenza di dibattito sull’importanza dell’informazione e su come andrebbe fatta l’informazione di guerra. In questo modo viene meno la capacità della macchina editoriale di resistere alla propaganda: non è più importante raccontare la verità, perché comunque quello che è importante è la verosimiglianza.

dalle “Conclusioni” di Guerre alle finestra (pagg.432433).
conflitti da indagare: Iraq, Afghanistan, Palestina, Sri Lanka, Colombia e Congo. Dal 1 luglio 2001 al 30 giugno 2004 sono stati analizzati tv, radio, agenzie di stampa e quotidiani. Ad esempio, per quanto riguarda l’emittenza televisiva, nell’arco del triennio sono stati individuati e analizzati 75.427 servizi televisivi, mandati in onda da otto canali nazionali (Rai1, Rai2, Rai3, Rete4, Canale5, Italia1, La7 e TMC). Ebbene, i tre conflitti più noti (Iraq, Afghanistan e Palestina), si suddividono il 98,9% dell’informazione complessiva, mentre gli altri tre conflitti (Sri Lanka, Colombia e Congo), non meno cruenti, raccolgono il rimanente 1,1% di spazio televisivo.
Se pensiamo che la televisione è ormai diventata per molti italiani l’unico canale per attingere informazioni, si capisce bene quale ferita mortale viene inferta alla verità da questi dati impressionanti. È la riprova che il sistema mediatico internazionale (al quale anche i media italiani sottostanno) può decidere che un conflitto diventi “il” conflitto del giorno (del mese, dell’anno) facendo ruotare attorno ad esso tutta l’attenzione “quasi venisse illuminato da un riflettore acceso in un palcoscenico buio, che rappresenta il resto del mondo”. Il monitoraggio sulle radio pubbliche e private (otto emittenti nazionali, di cui tre pubbliche e cinque private, per un totale di 63.773 servizi analizzati) non offre dati molto più confortanti di quelli delle tv. Di estremo interesse, infine, un aspetto particolare che la ricerca ha messo in luce su ognuno dei sei conflitti analizzati, la correlazione cioè tra i contenuti mass-mediali con i fatti e gli eventi realmente accaduti nei Paesi in guerra.
L’analisi sulle informazioni diramate dalle agenzie di stampa (ne sono state scelte tre: Adn Kronos, Ansa e Misna) è stato invece compiuto, sempre nel triennio luglio 2001-giugno 2004, in corrispondenza di alcune settimane campione. All’Afghanistan, all’Iraq e alla Palestina sono stati dedicati 1616 lanci sui 1878 analizzati. Secondo gli autori della ricerca “il sistema informativo delle agenzie di stampa analizzate evidenzia una sorta di asimmetria e di squilibrio fra i vari conflitti del pianeta”, per cui, accanto ad aree di super-informazione (Afghanistan, Iraq), esistono aree di sotto-informazione. Non va infine dimenticato lo stretto rapporto esistente tra agenzie di stampa e altri mezzi d’informazione, che da quelle traggono la “materia prima”.

Asimmetrie informative
Anche per i quotidiani nazionali (Repubblica, Corriere della Sera, Osservatore Romano e Avvenire, che si colloca al top della classifica col maggior numero di notizie sui conflitti esaminati) si è proceduto ad analizzare gli articoli pubblicati in settimane campione: 1134 articoli individuati hanno confermato le “asimmetrie informative” evidenziate per le agenzie di stampa. Oltre all’analisi della “posizione” dell’articolo nella pagina e nel giornale (molto importante ai fini della rilevanza che si vuole dare alla notizia), interessante risulta l’esame della chiave di lettura prevalente: la percentuale più elevata è quella relativa alla cronaca militare (52%), segue quella diplomatica (19%) e i commenti e le opinioni (15%). L’ultima fetta dei media italiani analizzata è stata quella presente nella rete telematica, che non è riuscita a modificare il giudizio di disparità di trattamento tra i tre conflitti “maggiori” e i tre dimenticati.
Si potrebbe disquisire ancora sulle immagini (soprattutto televisive) che fanno spesso da corredo alle notizie. Ma tra le pagine della ricerca siamo colpiti da una curiosità che gli autori hanno voluto sottolineare: i minimi storici nell’informazione di guerra si registrano sempre nei mesi di luglio e agosto, come se i conflitti “andassero in ferie”. Ovviamente, non solo è un problema organizzativo delle redazioni: c’è proprio una tendenza “a orientare i messaggi informativi su temi più leggeri, adatti ai milioni di italiani sotto l’ombrellone, che non devono sentirsi rattristati dai gravi problemi del mondo”. La terza parte del rapporto, infine, apre una finestra sul lavoro per la riconciliazione e per la prevenzione dei conflitti che soprattutto la Chiesa va operando nel mondo. Perché la pace, nonostante i mass media (ma noi vorremmo che fosse anche grazie ad essi!), è possibile.

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