Tutto per pettegoli

Ogni 11 minuti un pettegolezzo. Mentre ogni 15 minuti uno scoop su amori e tradimenti di un personaggio famoso. Ogni 23 minuti una maldicenza su un personaggio pubblico, un litigio o uno scandalo. Che mondo vediamo quando vediamo i telegiornali?
Fausto Pellegrini (Giornalista di RAI News 24)

Diciamo che è un gioco. E che il suo valore scientifico è pari allo zero. Provate però a digitare, in sequenza , su un qualsiasi motore di ricerca di internet, per esempio google, le parole informazione e pace. Poi ripetete la ricerca sostituendo a pace la parola guerra. Vi troverete davanti questo risultato: informazione e pace = 36 link di riferimento informazione e guerra = 183 link di riferimento Indirizzi internet che ci parlano, anche in modo critico, di mass media ridotti a megafono del pensiero unico dominante. Però…..

L’attore principale
Però, anche con questi presupposti, la guerra resta il riferimento di senso, lessicale, l’attore principale della “vicenda mondo”. E, conseguentemente, la pace viene declinata, nella maggior parte dei casi (183 volte rispetto a 36, con un rapporto di 1 a 5), in relazione alla guerra, semplicemente come assenza di guerra. Come a immagini guerresche rimandano molti titoli a effetto della stampa nazionale e non. Dunque si parla di pace partendo dalla guerra, in maniera, quantomeno lessicalmente, “embedded”, “stiamo dando alla lingua la sua forma finale, la forma che dovrà avere quando nessuno potrà parlare una lingua diversa. Alla fine il delitto di pensiero sarà del tutto impossibile, perché non ci saranno più parole per esprimerlo (Orwell, 1984) ”.
È la neolingua di Syme, funzionale a un potere che detta nuove parole d’ordine. Ora il gioco iniziale svela il suo significato: l’informazione su pace e guerra se e quando obbliga se stessa a definire la pace “a contrario”è viziata in partenza. Il primo passo da compiere, allora, è quello di agire sulle parole, sulla grammatica e sulla sintassi dell’informazione quotidiana. Eliminando, innanzitutto, ossimori tragicamente ridicoli come “guerra umanitaria”, “bombe intelligenti”, tutti interni a una logica tanto rassicurante (noi siamo i buoni) quanto cinica (possono morire degli innocenti ma non è colpa nostra, sono semplici “effetti collaterali”) . Ma come è possibile fare davvero pace con l’informazione?
Il criterio guida è quello di dare le notizie, tutte le notizie, cercandole tra le fonti più diverse, utilizzando tutti i canali possibili. Proporsi di fare informazione libera e corretta, in tempo di guerra, è già una scelta di campo. Impone di non avere notizie o giornalisti embedded; impone di avere come unico obiettivo quello di svelare e raccontare la verità, anche quando è scomoda e/o scarsamente patriottica. Schierarsi, insomma, dalla parte della verità e contro i poteri costituiti che mal sopportano critiche al loro comportamento: diserzione e disfattismo sono ancora reati nei codici penali di tutto il mondo. Una storia vecchia.
Non è un caso che nei confronti degli uomini di pace di oggi i toni usati sono gli stessi di quelli che campeggiavano, a caratteri enormi, nel 1918, in un manifesto della Quinta armata: “Chi ti par la di pace a tutti i costi è un vigliacco o un imbecille o un traditore. Tu non puoi essere come lui: prendilo a schiaffi!”. “La guerra ha bisogno di buone pubbliche relazioni” ha

Voi avevate voci potenti
lingue allenate a battere il tamburo
voi avevate voci potenti
adatte per il vaffanculo

F. De Andrè, La domenica delle salme
scritto Norman Solomon all’indomani dell’attacco all’Afghanistan, ricordando un contratto di 397mila dollari stipulato tra il gruppo Rendon, un’azienda di pubbliche relazioni statunitense, e il Pentagono “per aiutarlo a sembrare buono mentre bombarda”.

Fare pace con l’informazione
Dare e cercare le notizie è però necessario, ma non sufficiente. Fare pace con l’informazione significa qualcosa di più. Qualcosa da realizzare ogni giorno, palinsesto dopo palinsesto: non lasciare nessuna notizia orfana; evitare un’informazione autistica, che pur mettendo insieme i tanti tasselli di un puzzle… finisca per non riconoscere (e per non consentire a nessuno di riconoscere) il disegno finale; fuggire la spettacolarizzazione.
Significa, pasolinianamente, uscire dal palazzo del potere, per “camminare domandando” all’interno della società, in modo da rappresentarla davvero, fuggendo dagli stereotipi e dai luoghi comuni.
Significa scegliere tra giornalismo sensazionalista e giornalismo basato sulla rappresentazione dei problemi della vita quotidiana.
Significa, ancora, smettere di essere forte coi deboli e debole coi forti, per recuperarle quella funzione di cane da guardia della società che le aveva assegnato, nel 1904, Joseph Pulitzer.
Un esempio tra tanti: il tema dell’immigrazione. Di solito, quando gli immigrati vengono chiamati a essere protagonisti della cronaca, vanno a finire nella sezione di “nera”. Non hanno un nome e un cognome, vengono definiti per gruppo di appartenenza o, genericamente, come extracomunitari, clandestini: comunque criminali. Una rappresentazione criminogena e/o folkloristica, che fa il paio con il totale disinteresse per una sistematica narrazione di una gran parte del mondo, abbandonato a se stesso e considerato non degno di essere raccontato se non in modo esotico o episodico.
In tutto questo, il servizio pubblico ha (dovrebbe avere) un ruolo decisivo. L’informazione, quando svolge il proprio ruolo con coscienza, alimenta e arricchisce la cittadinanza favorendo, attraverso il racconto di ciò che accade nel mondo, la partecipazione attiva di tutti alla realizzazione del bene comune. E quindi un’informazione che sia capace di evitare il gossip provinciale (per cui ci si concentra troppo su contrasti e divisioni interne e domestiche mentre servirebbe una maggiore apertura internazionale) è un fondamentale elemento di vitalità democratica.
Quanto di tutto questo ci sia bisogno, è sotto gli occhi di tutti. In quegli stessi palinsesti tv (delle reti pubbliche e private) dove, come dimostrano i dati forniti da Medici Senza Frontiere in collaborazione con l’osservatorio di Pavia, non trovano spazio tragedie come quella del Sudan, dei conflitti interreligiosi nell’India nord orientale, della Costa d’Avorio, dell’Uganda (se non in presenza di eventi che in qualche modo riguardano indirettamente questa parte del mondo), ogni 11 minuti trova spazio un pettegolezzo; ogni 15 minuti uno scoop su amori e tradimenti di un personaggio famoso; ogni 23 minuti una maldicenza su un personaggio pubblico, un litigio o uno scandalo (dati eta media research, 2005). Eppure non mancano i richiami alla necessità di un servizio pubblico autorevole.
È il senso dell’appello che nel dicembre 2004 Ciampi rivolse al mondo della politica e dell’informazione: “Non snaturate la missione della Rai seguendo ad ogni costo derive commerciali. Non indebolite il suo ruolo sull’altare dell’audience o su quello di bilanci più appetibili per una collocazione di qualche rete sul mercato”. È il senso dell’editoriale congiunto delle 42 riviste missionarie aderenti alla Fesmi (Federazione stampa missionaria italiana) che rivolgendosi al servizio pubblico, chiedono a gran voce “un salto di qualità nel segno di una maggiore attenzione ai popoli, alle culture extraeuropee” per far spazio a temi cruciali riguardanti la “lotta alla fame nel mondo, la mala-cooperazione, il commercio delle armi rinunciando a indugiare in argomenti di corto respiro, dando eccessivo spazio ai gossip”.

Fare la verità
Per avere un’informazione a misura d’uomo occorrono poche buone regole. Come scrive Alex Zanotelli nella sua postfazione a un libro uscito nel 2002 per la casa editrice Zelig, dal titolo emblematico “L’informazione deviata”: prima tra tutte fare la verità. Non dirla, ma farla, rifiutando l’idea che la notizia sia solo una merce. Solo in questo modo l’informazione può assolvere il suo compito e portare alla comprensione che l’altro è una ricchezza e non un pericolo.
Voi avevate voci potenti / lingue alle nate a battere il tamburo / voi aveva te voci potenti / adatte per il vaffanculo”.Così Fabrizio De Andrè, nella domenica delle salme”, stigmatizzava il comportamento dei suoi “colleghi cantautori” pronti a cantare “per l’Amazzonia e per la pecunia” ma non a spingersi, nei comportamenti quotidiani, a una critica radicale del sistema in cui erano inseriti. Anche i giornalisti hanno voci potenti a cui troppo spesso mettono la sordina per interessi di bottega, salvo ritirarle fuori al momento opportuno per essere vincitori, o passare per martiri o eroi. Questa schizofrenia non è accettabile. Soprattutto su un tema come la pace. Che non è assenza di guerra ma costruzione di un modello di relazioni e comportamenti completamente diverso. Non ci sono processi inevitabili e se “un altro mondo e un’altra informazione sono possibili e necessari” per costruirli c’è bisogno dell’impegno di ognuno. A partire dai “burattinai di parole” dell’informazione. Qui e ora. Senza se e senza ma.

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