FEBBRAIO 2006

Se la pace prende la parola

A cura di Roberto Natale (Giornalista - Segretario nazionale USIGRAI, Unione Sindacale Giornalisti RAI)

La distanza iniziale è stata accorciata. Pace e informazione non sono più così inesorabilmente lontane. I sospetti reciproci cominciano a cedere il passo a esperienze di collaborazione, che hanno sfruttato al meglio le potenzialità di internet ma che hanno saputo guadagnarsi un ruolo persino nei circuiti dell’informazione “classica”.
Questo dossier dà conto di alcuni esempi del cammino intrapreso: l’esperienza della Misna, che si è imposta come fonte, con la forza della sua autorevolezza, persino presso giornalisti solitamente più avvezzi a consultare i comandi militari; il lavoro, fra Italia e Africa, di un volto-simbolo dell’informazione aperta al mondo, come Maria Lourdes De Jesus; la nutrita lista dei siti che in rete fanno informazione di pace e di solidarietà.
Ma al tempo stesso gli articoli qui raccolti segnalano la nuova fase che si apre e i nuovi problemi che essa pone. Da parte dei movimenti si è fatta più approfondita la conoscenza dei meccanismi dei media: spettacolarizzazione, insistenza sugli aspetti più negativi della realtà, subalternità al potere politico. E proprio perché conosce i meccanismi, questa parte di società civile evita gli errori speculari del rifiuto sdegnato e dell’accettazione acritica. Vuole stare dentro il circuito mediatico, ma senza snaturarsi. Vuole “raccogliere la sfida”, come dicono le voci ascoltate da Alessandra Tarquini. Non si limita a denunciare le storture del sistema, ma dà la disponibilità a ripensare anche i propri modi di comunicazione.
L’operazione può avere successo, però, se analoga disponibilità c’è anche da parte di chi dentro l’informazione vive e lavora. Il cammino è cominciato, ma è solo agli inizi. A ricordarcelo basterebbe quella notazione che nel dossier torna almeno un paio di volte: la pace non è semplicemente assenza di guerra. Un’ovvietà, per i movimenti pacifisti. Ma così scontata non è: provate a pensare di doverla spiegare a certi direttori o caporedattori, ai quali si fatica persino a far comprendere che nel mondo ci sono alcune decine di conflitti sistematicamente ignorati. È un salto culturale profondo quello che è richiesto: deve cambiare la testa di molti di coloro che oggi decidono cosa abbia dignità di notizia. Dal punto di vista dei giornalisti, la richiesta che la pace si faccia informazione coincide esattamente con la richiesta di un’informazione di qualità. È di questo che stiamo parlando, quando Fausto Pellegrini scrive che “non si deve lasciare nessuna notizia orfana”; o quando Gino Barsella ricorda che si devono “completare le cinque W del giornalismo con la C del contesto”.
Chiedere un’informazione di pace non vuol dire chiedere ai giornalisti di fare informazione militante: significa invece domandare loro di non militare nel partito, oggi maggioritario, della notizia sciatta, del frammento buttato lì in modo incomprensibile, dell’assenza di curiosità per il mondo, della mancanza di memoria. Ci interessa molto che la pace si faccia informazione: perché quando la pace si fa informazione, anche l’informazione può guardarsi allo specchio senza vergognarsi.

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