La pace tra pacifici, pacifisti e pacificatori

card Renato Raffaele Martino

La pace è un patrimonio della persone, una sua qualità etica e spirituale. Pacifiche non sono primariamente le istituzioni, i trattati internazionali, le relazioni fra le cancellerie. Pacifico è prima di tutto l’uomo, ogni singola persona capace, per dono di Dio e per virtù propria, di vivere un rapporto non conflittuale con sé stessa e con gli altri. La pace è la ricchezza umana propria degli uomini di pace, dei “pacifici” di cui parla Gesù nel discorso della montagna: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9). Il messaggio di salvezza di Cristo riguarda anche tutte le realtà secolari, ma la sua proposta si rivolge innanzitutto e direttamente al cuore dell’uomo e da lì passa anche alle relazioni interpersonali e alle strutture. Non avremo mai strutture di pace senza uomini di pace, persone pacifiche. Troppo spesso, in passato, ci si è illusi che a garantire un mondo di pace bastassero dei meccanismi e dei processi strutturali senza più bisogno di uomini pacifici. Quale è la principale risorsa per la pace? Certamente le intese internazionali, il prevalere del diritto e della legge, gli organismi e le agenzie che operano per essa sono tutte risorse importanti, e tuttavia secondarie e indirette. Cause strumentali, potremmo dire, perché la principale risorsa sono gli uomini di pace, i pacifici.

L’uomo di pace semina la pace attorno a sé, da lui essa si diffonde in cerchi concentrici alle persone vicine, all’ambiente di lavoro e via via a tutte le relazioni in cui egli è impegnato, alla società. L’uomo di pace è pacifico sempre, in ogni occasione della vita, in quanto la pace appartiene al suo essere, è un habitus che egli non dismette. Gli atteggiamenti di pace gli vengono spontanei ed egli vive con grande serenità una moralità della pace tale che la lotta e la guerra non trovano nemmeno udienza al suo cospetto.

Pacifista è, invece, chi si mobilita per la pace e ne fa un progetto sociale e politico. Il pacifismo è una cosa buona ma può anche degenerare. Esso trae tutti i propri frutti positivi solo se è portato avanti da uomini di pace. Si può dire che l’autentico pacifismo dipende dall’essere pacifici. Il pacifismo senza protagonisti pacifici rischia addirittura di tradire lo scopo della pace. Può diventare una ideologia, manichea nei suoi giudizi e perfino intollerante, insensibile alla complessità delle situazioni, alle responsabilità in gioco, ai tempi che talvolta sono richiesti perché una prospettiva maturi progressivamente. Questo pacifismo non si accontenta di testimoniare, vuole convincere, acquisire consenso, tradursi in proposta vincente e, quindi, anche di potere. Si tratta di aspettative e di processi legittimi che possono però adoperare, per raggiungere i risultati, la violenza delle parole e degli atteggiamenti, l’esclusione e il facile giudizio, la scelta di parte assolutizzata come l’unica espressione di un autentico pacifismo. Il pacifismo è utile perché diffonde una passione per la pace e crea occasioni di educazione vicendevole all’ideale della pace, ma ha bisogno di essere continuamente emendato, ricondotto alle sue ragioni più profonde, ossia alla pace che alberga nei cuori degli uomini pacifici. A ben rileggere la storia del pacifismo, ci si accorge, in effetti, che esso ha avuto tanto più successo quanto più è riuscito a incarnarsi in uomini pacifici. È riuscito a mobilitare le coscienze e a ottenere anche concreti risultati politici proprio in quanto i suoi protagonisti hanno saputo guidare il movimento pacifista mediante le loro qualità di uomini pacifici, liberi e disponibili al richiamo della pace.

Il pacifismo nel senso ora descritto non va confuso con la testimonianza profetica per la pace, di cui parlerò più avanti. Il Concilio Vaticano II elogia “coloro che, rinunciando all’azione violenta nel rivendicare i diritti, ricorrono a mezzi di difesa che sono alla portata anche dei più deboli, purché ciò si possa fare senza lesione dei diritti e dei doveri degli altri o della comunità” (Gs, 78). Nella chiesa è sempre esistito un atteggiamento decisivo e audace che punta esclusivamente all’utilizzo di forme di difesa non violenta e si assume il compito di una testimonianza profetica della pace e della comunione del Regno. Chi compie tali scelte viene spesso chiamato “pacifista”, ma io preferirei definirlo “testimone profetico della pace”, in quanto egli si ispira immediatamente alle parole di Cristo e non si pone nell’ottica del movimento politico cui la parola “pacifismo” allude. Il testimone profetico della pace è piuttosto affine al pacifico di cui si è detto in precedenza, solo vi aggiunge una chiara testimonianza esterna, disposto a pagarne le conseguenze.

Nell’ultimo decennio del millennio scorso e in questi primi anni del presente la Chiesa e il Papa Giovanni Paolo II hanno levato fortemente la propria voce contro la guerra, ma, come è stato giustamente osservato, “il Papa non può essere qualificato come pacifista” (A. Riccardi, Governo carismatico. 25 anni di pontificato, Mondatori, 2003, p 165). Innanzitutto perché egli ha sempre reso onore a chi ha offerto la propria vita per la salvezza della patria; secondariamente perché non ha mai condannato a senso unico le guerre, ma sempre e solo “la” guerra, ed è stato, spesso, l’unico a rammentare alla coscienza dell’umanità anche tante guerre “dimenticate”; in terzo luogo perché è stato tra i primi a ipotizzare anche forme adeguate di intervento umanitario e di interposizione (cfr Messaggio pace 2000). Ma soprattutto Giovanni Paolo II non può essere annoverato tra i pacifisti per via di quella sapienza del realismo cristiano secondo cui l’unico modo di servire la pace è di non impossessarsene, ma di lasciarsi, invece, da essa conquistare. Nel pacifismo militante c’è, in fondo, una volontà di possedere la pace e di imporla. Non c’è dubbio che essa debba anche essere posta e, entro certi limiti, imposta, ma è altrettanto vero che la pace deve germinare e crescere. La si può coltivare, produrla è difficile. La sapienza del realismo cristiano sa bene che la pace è un dono di Dio prima che una conquista umana, sa anche che la pace piena non è cosa di questo mondo e, quindi, con pazienza, spinge a lasciarsi conquistare dalla pace piuttosto che a conquistarla. Non si diventa “operatori di pace” se non ci si è resi capaci di accogliere la pace dentro di sé.

Eccoci, così, al pacificatore. Egli trae alimento dal suo essere un uomo di pace per collegarsi ad altri uomini di pace e, come tale, inserirsi dentro le situazioni storiche di conflitto per portare parole, atteggiamenti e soluzioni di pace. Se quello del pacifico è un modo di essere e il pacifismo un processo, quella pacificatrice è un’azione. Quanto il pacifismo può essere utopistico e astratto, tanto l’azione pacificatrice è concreta e realistica. Quanto il pacifismo semplifica, giudica e talvolta condanna, tanto l’azione pacificatrice vuole invece capire la complessità, aiutare a crescere, proporre soluzioni migliorative, convertire alla pace convertendosi ad essa. Il pacificatore entra nei conflitti della storia e si fa lievito. Se il pacifismo è guidato spesso dall’ideologia e percorre un progetto politico, il pacificatore, “operatore di pace”, è guidato prima di tutto dall’amore, perché, come scriveva Agostino, “avere la pace significa amare”. In questo senso, davanti ai molteplici conflitti verificatisi durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, e specialmente in occasione della guerra in Iraq, il Santo Padre ha più volte invitato ad essere uomini di pace e a farsi pacificatori. Proprio lui, infatti, stabilì una netta distinzione fra “pacifismo” e “apostolato della pace” (cfr A. Riccardi, Governo carismatico, p 166). Per essere seminatori di pace (cfr Gc. 3,18) occorre essere personalmente pacifici: “Vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi” (2Cor 13,11; cfr anche Rom 12,18; 1Ts 5,13).

La distinzione fra i 3 termini – pacifico, pacifista, pacificatore – trova alimento nel primato della pace intesa come dono di Dio rispetto alla pace concepita come conquista dell’uomo. Senza la distinzione di questi due livelli complementari non si capirebbe mai perché i primi pacificatori sono gli uomini di preghiera. Né si capirebbero le due grandi iniziative di preghiera proposte da Giovanni Paolo II e attuate ad Assisi nel 1986 e nel 2002. La pace è prima di tutto un dono di Dio: “Vi lascio la mia pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14,27). La consapevolezza che gli uomini da soli non sanno darsela pone in crisi il pacifismo ideologico e apre lo spazio per i pacifici e i pacificatori.

Nel discorso del 1987 al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Giovanni Paolo II immaginava una probabile domanda alla quale subito dava risposta. Ecco la domanda: “Alcuni diplomatici si chiederanno forse: come può la preghiera per la pace promuovere la pace?”. Ed ecco la risposta: “Il fatto è che la pace è innanzitutto un dono di Dio”.

C’è bisogno di uomini pacifici e pacificatori perché la pace non sarà mai solo un frutto di funzionamenti strutturali o di meccanismi giuridici e politici. Una pace “impersonale”, frutto di logiche indipendenti dalla persona, è una contraddizione in termini. Nelle pagine precedenti non si è inteso altro che profilare, in alcune delle sue linee essenziali, la prospettiva – concettuale, spirituale e relazionale – di una umanità “pacifica e pacificatrice”.

Note

Il testo è tratto dal libro del card Renato Raffaele Martino (presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace), “Pace e Guerra”, ed Cantagalli 2005.

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    Il testo è tratto dal libro del card Renato Raffaele Martino (presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace), “Pace e Guerra”, ed Cantagalli 2005.
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