CONCILIO

Problemi di morale

Innovatore nella morale sociale, rigido in quella privata. Chiuso in quella sessuale. L’eredità di Woityla e le sfide di papa Benedetto.
Giannino Piana

Tra le questioni sul tappeto nell’agenda della Chiesa, che papa Benedetto XVI non potrà non affrontare, un posto di primo piano occupano quelle di ordine etico riguardanti il campo della vita sia pubblica che privata. Si tratta di questioni nuove e vecchie, che rivestono un carattere di particolare urgenza e presentano (talora) aspetti di grande delicatezza e di estrema complessità. È sufficiente richiamare qui l’attenzione sugli interrogativi posti dall’uso di tecnologie sempre più sofisticate nei settori dell’economia, dell’informazione e della medicina o sull’emergere (in modo sempre più acuto) di tematiche (in verità non nuove, ma la cui maggiore rilevanza è oggi dovuta all’affermarsi di una più viva coscienza dei diritti personali) quali il ricorso alla contraccezione, la pastorale dei divorziati risposati e delle persone omosessuali, il giudizio sulle famiglie di fatto e sui loro diritti, ecc.
Nell’ambito della vita pubblica l’importanza dell’etica è oggi largamente riconosciuta. La globalizzazione, sviluppatasi in questi anni con un ritmo sempre più accelerato, ha reso drammaticamente manifeste (contribuendo a inasprirle) le contraddizioni del mondo in cui viviamo, accentuando il divario tra Nord e Sud, non solo a livello economico-sociale, ma anche politico e culturale, e accrescendo lo stato di ingiustizia, che è la ragione principale dei conflitti bellici attualmente in corso. Il sistema di informazione (e di comunicazione) egemonizzato dall’Occidente veicola (mediante l’utilizzo di strumenti di grande incidenza) una cultura (!) standardizzata – quella americana – con una forte spinta all’omologazione, e perciò con un costante attentato alle culture deboli (e alle subculture), attentato che è all’origine di un vero e proprio scontro di civiltà. L’adozione, infine, di tecnologie sempre più sofisticate e pervasive in campo biomedico – in questo caso il confine tra etica privata ed etica pubblica tende a scomparire – mentre apre, da un lato, nuove chances per la vita dell’uomo – è sufficiente ricordare qui la possibilità di debellare malattie in passato letali – porta, dall’altro, con sé pesanti minacce non solo per il bene del singolo o della famiglia umana, ma anche per quello della specie e delle generazioni future. Gli interrogativi che, in proposito, affiorano rivestono una portata sempre più ampia e sollecitano un atteggiamento di grande vigilanza e di serio discernimento morale.

L’eredità del passato
Papa Giovanni Paolo II non ha mancato di affrontare, con una certa linearità (se si esclude la preclusione nei confronti della teologia della liberazione) le

Quando la carità è casta
C’è stato un tempo (neanche tanto lontano) in cui la vita e la virtù cristiana pareva si giocassero prevalentemente (se non quasi esclusivamente) sulla castità: il famoso de sexto: il sesto comandamento che prevaleva su tutti. Non la carità teneva il primo posto, non le virtù teologali infuse nel battesimo, bensì la castità, anzi un certo concetto di castità indotto da determinati condizionamenti culturali.
Oggi, per fortuna, non è più così. Al che si potrebbe obiettare che la parola di Dio (fonte della moralità) non cambia. Ma, se non cambia la Parola, cambiano le parole nelle quali il Verbo eterno s’incarna e si cala nella storia. Cambia l’ascolto di quell’immutabile parola: ascolto che cresce col crescere della fede e il lievitare della storia. E perciò cambia la morale, intesa come capacità d’intendere la Parola immutabile, di cui muta la nostra percezione. Oggi potremmo dire che non esiste una gerarchia di virtù, bensì (lo suggerisce Paolo) una virtù sola – la carità – che si diversifica a seconda dell’ambito in cui viene a cadere la sua manifestazione. Per cui avremmo una carità paziente, una carità prudente, forte e così via. E una carità casta.
Nell’orizzonte di questa unificazione scompaiono le enfasi e i privilegi di cui avevamo circondato la nostra virtù-principe che principe più non è. E s’impone la ricerca della sua origine: una con l’origine della sessualità di cui è la norma regolatrice. E la troviamo nelle prime pagine della Genesi dove, a proposito degli umani, si dice che Dio “maschio e femmina li creò, a propria immagine li creò”. L’immagine di Dio è quindi la creatura sessuata, da cui la grande dignità del sesso, che il suo costante involgarimento non riesce a cancellare.
Ma gli attentati al valore della sessualità possono essere anche pii e religiosi. Ogni qualvolta impostiamo la morale su regole, norme e divieti attinenti alla sessualità ne mettiamo in forse la dignità e il valore, ed escludiamo espressioni che – di diritto o di fatto – fanno parte della nostra società. Pensiamo agli omosessuali, transessuali, lesbiche, coppie di fatto, divorziati, risposati… Non ha niente da dire la nostra fede e la nostra morale, o ha soltanto da esprimere divieti e minacciare castighi?
È urgente porsi il problema perché, a tutt’oggi, non abbiamo una moralità adeguata alle domande che il mondo ci presenta. Ad esempio: se l’esercizio della sessualità è un diritto, come se ne può inibire la manifestazione propria, tipica e adeguata al mondo degli omosessuali, transessuali e via dicendo? E quelle che chiamano devianze non sono forse diverse e legittime forme di sessualità?
Come si vede poniamo domande più che proporre (e, tanto meno, imporre) risposte. Forse, a proposito della sessualità, questo è il momento dei sospetti, delle perplessità, degli interrogativi, non delle certezze. E se una certezza c’è, essa consiste nella chiara coscienza del valore del sesso e della necessità del suo retto esercizio, perfino per coloro (presbiteri e religiosi) che al sesso sembrano rinunciare, ma non rinunciando al loro essere sessuati e a una sessualità più vasta dell’ambito puramente genitale.
L’etica che ci attende e di cui non sappiamo ancora prevedere le norme, è comunque un’etica non di chiusure e divieti, come quella che abbiamo alle spalle, ma di valorizzazione, di espressione e di esercizio che, insieme alla sessualità, promuova la dignità della persona che, alla sessualità, è strettamente connessa.
Adriana Zarri
tematiche sociali e politiche, attribuendo grande rilievo alla promozione dei diritti umani, alla costruzione della solidarietà tra i popoli e al perseguimento della pace. Meno duttili si sono, invece, rivelate le posizioni assunte (non solo dal Pontefice ma anche dalle Congregazioni romane) a proposito di tematiche come la bioetica, la sessualità e la famiglia. In questi ambiti le prospettive dottrinali innovative aperte dal Vaticano II – si pensi soltanto al richiamo al primato della coscienza, alla centralità assegnata alla “persona” (e non alla “natura”) nella valutazione dell’agire e al concetto di “paternità responsabile” – non hanno soltanto subìto una battuta di arresto, ma sono state drasticamente ridimensionate (e qualche volta persino rinnegate).
L’eredità del pontificato wojtyliano è pertanto, a questo livello, difficile, non solo per la rigidità delle posizioni assunte, ma anche per l’inasprirsi delle tensioni in un momento storico in cui emerge una più viva (e giustificata) consapevolezza della necessità di rifiutare concezioni tabuistiche del passato (la rivoluzione sessuale rappresenta, al riguardo, un punto di non ritorno) e una più profonda coscienza dell’esigenza di rispettare le scelte soggettive in nome dell’attenzione ai diritti di libertà e alla dignità di ogni persona umana.

Ragioni di una chiusura
L’atteggiamento di netta chiusura di Giovanni Paolo II su questioni come la contraccezione, i divorziati risposati, le famiglie di fatto e l’omosessualità (maggiore problematicità rivestono le questioni della bioetica) vanno fatte risalire, oltre che alla sua formazione culturale e teologica, alla visione da lui coltivata della sessualità.
Nessun Pontefice – almeno nell’ambito della modernità – ha mai esaltato con tanta forza il corpo, il rapporto sessuale e l’eros come Papa Wojtyla; ma proprio questa mitizzazione, che finisce per misconoscere peraltro le ambivalenze proprie dei vissuti quotidiani (nei quali emergono ombre e luci, stati di grazia e momenti di fatica), è la ragione dell’estrema rigidità con cui il Papa giudica, sul piano etico, i comportamenti: tutto ciò che non corrisponde al livello ideale è infatti radicalmente respinto come moralmente inaccettabile.
A questa motivazione di ordine antropologico, legata (almeno in parte) alla complessa personalità del Pontefice – Giovanni Paolo II è stato un Papa postmoderno nei comportamenti (è questa la ragione principale dell’attrazione suscitata nel mondo giovanile) e premoderno nell’impostazione dottrinale; in ogni caso tendenzialmente estraneo alla modernità – si deve aggiungere una motivazione di natura più strettamente teologica, la persistenza cioè, nel suo approccio ai temi etici, di un accentuato dualismo tra la rigidità delle affermazioni di principio, in cui vengono ribadite senza alcuna mediazione le posizioni del passato, e l’indulgenza sul piano pastorale (dives in misericordia!), con la scappatoia del ricorso al sacramento della penitenza.

Per un nuovo approccio
Ambedue le motivazioni, oltre a risultare oggi incomprensibili ai più, appaiono inaccettabili anche sul versante dell’etica cristiana. La tensione all’ideale costituisce senza dubbio un aspetto irrinunciabile della morale evangelica, contrassegnata da un forte radicalismo. Ma l’etica non può limitarsi a fare propria tale prospettiva; deve sapersi confrontare con la realtà, riconoscendone i limiti connaturali e ricercando forme di mediazione che tendano al perseguimento del “bene possibile” (talora persino del “male minore”) nella concretezza delle situazioni. La vera compromissione con la complessità dei problemi reali (e dei nodi critici che ad essi fanno capo) non implica rinuncia ai valori (o ai principi); comporta l’assunzione di un atteggiamento di grande duttilità tendente a dare vita a indicazioni normative che individuino, di volta in volta, il livello della possibile incarnazione dei valori.
Il modello che va pertanto adottato, se si vogliono affrontare debitamente le questioni segnalate, è quello di un’etica della responsabilità, che sappia misurarsi realisticamente con le conseguenze delle azioni (e delle motivazioni che le giustificano), non dimenticando la precarietà dell’esperienza umana, che ha per il credente il suo ultimo fondamento nella dimensione creaturale. La condizione perché questo modello venga correttamente attivato è l’assunzione di un atteggiamento di profondo rispetto nei confronti delle persone e delle relazioni che tra esse si instaurano, con l’attenzione perciò a non invadere il campo delle coscienze, bensì a riconoscere la varietà e ricchezza delle opzioni soggettive, anche di quelle oggettivamente in contrasto con gli orientamenti della dottrina morale della Chiesa.
Il verificarsi di tale condizione e la rivisitazione del modello morale nella linea indicata sono i presupposti a partire dai quali è possibile affrontare in modo nuovo le questioni segnalate, senza incorrere in tentazioni relativiste, ma evitando nel contempo inutili irrigidimenti che, oltre a provocare l’allontanamento di molti dalla Chiesa, non sembrano corrispondere alle indicazioni della più genuina tradizione evangelica. La speranza è che Papa Benedetto XVI, il cui rigore teologico è fuori discussione, si muova in questa direzione, accogliendo le domande e soddisfacendo le attese di uomini e donne che cercano, con cuore sincero, il volto liberante di Dio.

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