PRATICHE DI PACE

Nonostante i muri

La nonviolenza si pratica coltivando piccoli gesti ma nel cuore dei conflitti. Come quello tra Israele e Palestina. L’esperienza di un gruppo religioso americano che sfida le guerre.
Gianni Novelli

Molti sono impressionati dall’ispirazione religiosa e missionaria che sostiene tanta presenza militare statunitense soprattutto nel Medioriente. E se ne sono accorti anche in occasione della rielezione di G.W. Bush alla Casa Bianca. Per queste persone sarebbe stata una grande sorpresa l’incontro con una donna americana, Kim Lamberty. Laureata in teologia e in politiche internazionali, questa donna, dall’aspetto dolce e giovanile, ha scelto di andare in Palestina con l’organizzazione del “Christian Peacemaker Gerusalemme - Volontari Christian Peacemaker Team. Team”, nata nel 1984, nell’ambito della Chiesa mennonita, Quaccheri e Chiesa dei Fratelli per dare ai cristiani la possibilità di “applicare la stessa disciplina e lo stesso sacrificio di se stessi nella costruzione nonviolenta della pace che i militari dedicano a fare la guerra”. In piccoli gruppi, gli adulti si stabiliscono in situazioni di crisi e di conflitti militari testimoniando con azioni nonviolente la possibilità di una convivenza pacifica, anche a costo di gravi sacrifici personali, fino alla vita come è già avvenuto a qualcuno di loro in Iraq.
Attualmente hanno comunità in Iraq, soprattutto in difesa dei diritti dei prigionieri degli americani, in Colombia accanto ai contadini vittime delle violenze di esercito e guerriglia, in Canada tra le popolazioni native minacciate, negli Usa, alla frontiera col Messico, e in Palestina. Kim nella sua ultima presenza in Palestina si è trovata a fianco dei volontari italiani dell’“Operazione Colomba” avviata dalla Comunità Papa Giovanni XXIII.

Come è maturato questo impegno in Palestina?
Ho una lunga storia di convinzioni e di impegno religioso cattolico nella Pax Christi di Washington. Mi sono impegnata pure nel “Catholic Worker”, il movimento di solidarietà sociale fondato da Dorothy Day. Mi sono nutrita dell’ispirazione spirituale di grandi maestri come Thomas Merton, P.Richard Mc Sorry, Daniel e Philipp Berrigan, ecc..

Cristiani e nonviolenti
Christian Peacemaker Teams (CPT) offre un’alternativa organizzata e nonviolenta alla guerra e ad altre forme di conflitto interetnico. CPT fornisce un supporto organizzativo alle persone impegnate ideazione o realizzazione di alternative nonviolente fondate sulla fede, da applicarsi in situazioni in cui il conflitto è una realtà immediata o nei casi in cui esso è sostenuto dalla politica pubblica. CPT sollecita la risposta della Chiesa in merito all’obiezione di coscienza alla guerra e le sensibilità delle istituzioni nella formazione nonviolenta.
Per maggiori informazioni: http://www.cpt.org
Dopo l’inizio della guerra degli Stati Uniti nell’Iraq ho sentito che dovevo andare in Medio Oriente e dedicare tutta la mia vita alla costruzione della pace attraverso la nonviolenza. Sono andata prima a Hebron, in Cisgiordania, dove c’è una comunità di “Christian Peacemaker Team” di una decina di persone. La violenza nel centro della città vecchia è altissima. La Tomba dei Patriarchi è aspramente contesa tra Ebrei e Palestinesi, benché un accordo provvisorio divida lo spazio della moschea dalla sinagoga. L’accesso è continuamente controllato da centinaia di soldati israeliani. I giorni della preghiera (il venerdì per i Palestinesi e il sabato per gli Ebrei) con la nostra sola presenza garantiamo il rispetto dei diritti umani.
La città era un fiorente centro commerciale ormai chiuso dall’esercito. Tutta la popolazione del centro, nel quale si sono installati quattrocento coloni ebrei e soldati israeliani, è stata espulsa. I controlli e le umiliazioni per la popolazione palestinese, soprattutto per i giovani, sono inenarrabili. Accompagniamo a scuola i bambini e li riprendiamo al ritorno. Anche loro sono vittime e protagonisti di violenze verbali o di lanci di sassi contro l’esercito che risponde con i gas lacrimogeni e con lunghi arresti.

Poi hai lasciato Hebron?
Nel settembre scorso sono andata a At-Tuwani, più a sud, un piccolo villaggio di 150 abitanti. Qui i membri del CPT lavorano insieme ai volontari dell’“Operazione Colomba”, dell’Ong israeliana Ta’ayush, l’associazione israeliana “Rabbini per i diritti umani”, le donne in nero e altri. Accompagniamo gli abitanti, vittime di quotidiane violenze da parte dei coloni che si sono insediati vicino al villaggio nel 1992. La nostra presenza serve a monitorare il rispetto dei diritti umani, a far conoscere con rapporti sistematici quanto avviene e ad accompagnare le persone agli ambulatori, agli uffici pubblici e soprattutto alle scuole.

Raccontaci la vita quotidiana nel villaggio…
Il villaggio è costituito da cinque famiglie patriarcali che vivono lì da tempo immemorabile. Vivono della pastorizia e della coltivazione degli ulivi. Avevano due pozzi per l’acqua da bere e gliene hanno avvelenato uno. I coloni spaventano con grossi cani le pecore. Sradicano gli alberi di ulivo. Nella regione ci sono altri sei villaggi analoghi. I coloni si scatenano con particolare violenza in questi ultimi mesi per eliminare gli ostacoli al muro che annetterebbe le terre definitivamente a Israele. Già due di questi Gerusalemme. villaggi sono stati abbandonati.
Ad At-Tuwani hanno deciso di resistere in modo nonviolento. Hanno chiamato i volontari internazionali per scoraggiare intimidazioni e violenze dei coloni. Hanno capito che, se ci sono le infrastrutture, non li possono cacciar via. Due anni fa si sono costruiti una scuola senza il consenso dell’autorità israeliana. Poi quando è arrivato l’ordine di abbatterla sono ricorsi al tribunale con successo. Da tutta la regione un centinaio di bambini palestinesi vanno a questa scuola, nonostante continue minacce. Dopo vane richieste hanno cominciato a costruirsi anche un ambulatorio. Una fondazione europea ha fornito loro i mezzi e la disponibilità di personale medico.
Da settembre avevo l’incarico di accompagnare a scuola di At-Tuwani i bambini di un piccolo villaggio, Tuba. Erano cinque bambini dai sette agli undici anni e noi due volontari. Da Tuba dovevamo percorrere otto chilometri; per passare lontano dai coloni seguivamo sentieri periferici, mettendoci due ore per andare e due per tornare. Il 21 settembre, al terzo giorno di scuola, poco dopo avviato il cammino, un gruppo di coloni vestiti di nero, con il volto mascherato da fazzoletti neri e catene in mano, ci ha aggrediti. I bambini terrorizzati sono scappati verso casa. I coloni hanno inseguito me e l’altro volontario, Chris. Ci hanno raggiunti e gettati per terra. Ci hanno percosso con le catene. Ci hanno preso a calci. Mi hanno rotto un braccio,

Vittime
Numero di vittime dall’inizio della seconda Intifada (28 settembre 2000). Dati aggiornati alle ore 16,00 del 6 aprile 2005. Tra le vittime palestinesi sono inclusi i kamikaze, mentre non sono conteggiate le persone accusate di collaborazionismo e uccise da altri Palestinesi.

Palestinesi: 3685
Israeliani: 986
Altre vittime: 74
Totale: 4745

Fonte: Internazionale n.585 dell’8/14 aprile 2005.
ferito la testa, il volto e le gambe. A Chris hanno rotto delle costole e lesionato un polmone. Non potevamo alzarci da terra. Chris con il telefono cellulare ha chiamato gli altri del gruppo che sono venuti in aiuto. Hanno chiamato la polizia che si è fatta viva solo dopo mezz’ora. Prima erano venute le guardie private della colonia, senza che nessun le avesse chiamate. Non ci hanno dato nessun soccorso. Ci dissero che era colpa nostra se eravamo stati assaliti, perché avevamo rotto l’equilibrio tra i coloni e i Palestinesi. Poi venne la polizia e l’esercito senza svolgere alcuna indagine. Ancora soffro varie conseguenze dell’aggressione. Il Consolato americano ha protestato e ha costretto la polizia a fare indagini, ma finora non è stato arrestato nessuno. Non posso lamentarmi avendo visto come violenze di questo tipo avvengono impunemente in continuazione ai Palestinesi.

Secondo te, in episodi come questo, l’opinione pubblica e le azioni di pace della gente in altre parti del mondo influenzano, in qualche modo positivamente, la situazione drammatica in cui versano i Palestinesi?
La cosa buona di tutto questo è che c’è stata tanta attenzione della stampa sul mio caso negli Stati Uniti, in Canada e in Inghilterra e così la gente di At-Tuwani ha ottenuto tutto ciò che voleva. Ora possono costruire le case senza ostacoli dell’esercito. L’autorità israeliana ha promesso che porterà l’acqua e l’elettricità. I bambini vanno a scuola con una scorta militare. È ridicolo: ci sono cinque bambini e tre jeep di soldati. I coloni continuano comunque a farsi vivi con insulti e minacce. Il progetto del muro resta comunque incombente perché con le sue arbitrarie deviazioni toglie agli abitanti di questi villaggi la terra da coltivare e prepara l’annessione definitiva a Israele. È vitale per i Palestinesi che sia interrotto questo sciagurato progetto di costruzione del muro tanto caro ai coloni ma pure al governo Sharon e al ministero della Difesa che lo sta imponendo con le armi.

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