NONVIOLENZA

Il comandamento concreto

La pace come un comandamento concreto. Non come esortazione. Dinanzi alla minaccia nazista occorreva di più. Il percorso di una fede che s’incarna nella nonviolenza e sceglie il martirio della congiura.
Alberto Conci

Dietrich Bonhoeffer visse con un’intensità straordinaria il problema della pace e il dramma della violenza. Non solo perché appartenne a un’epoca segnata

Attendere inattivi e stare ottusamente alla finestra non sono atteggiamenti cristiani. I cristiani sono chiamati ad agire e a compatire non primariamente dalle esperienze che fanno sulla propria pelle, ma da quelle che fanno i fratelli, per amore dei quali Cristo ha sofferto.
dai grandi conflitti mondiali e dall’avvento dei totalitarismi; e non solo perché il suo pensiero teologico si formò in un ambiente accademico in cui pochi (dalla filosofia, alla teologia, al diritto...) presero le distanze dal regime nazionalsocialista; ma soprattutto perché la riflessione sulla pace e sulla violenza divenne ben presto per lui uno dei criteri di riferimento fondamentali per stabilire le priorità per l’azione responsabile alla luce del Vangelo.

Un solo altare
Già nel 1933 Bonhoeffer fu uno dei pochi che prese le distanze dalla politica del Führer. Hitler non aveva trascurato la ricerca di consensi nelle Chiese tedesche. La politica del concordato con la Chiesa cattolica e l’aperto appoggio della Chiesa protestante, che si concretizzò nella formazione dei Deutsche Christen (i “cristiani tedeschi”), condussero all’apparente appiattimento delle Chiese sulle posizioni di Hitler, anche se non si deve dimenticare il ruolo giocato dal cristianesimo tedesco – tanto in alcuni circoli cattolici quanto nella piccola Chiesa confessante – nelle file della resistenza. Nella prima predica dopo l’avvento al potere di Hitler, richiamando la figura biblica di Gedeone, Bonhoeffer affermava: “Nella Chiesa abbiamo un solo altare e questo è l’altare dell’altissimo, dell’unico, del Signore, al quale soltanto è dovuto onore e adorazione, il creatore, davanti al quale ogni creatura deve genuflettersi, davanti al quale l’uomo più forte non è altro che polvere. Non abbiamo altri altari per onorare gli uomini. […] Chi pretende per sé un altare, o vuol costruirne uno per un altro Dietrich Bonhoeffer. uomo, schernisce Dio e Dio non si lascia schernire. Essere nella Chiesa significa avere il coraggio di essere soli con Dio in quanto Signore, significa non essere servi degli uomini, ma di Dio. E per questo ci vuole coraggio”. Sono parole che assumono un valore che va ben al di là del contesto storico in cui vennero pronunciate: il credente non deve ubbidienza incondizionata a nessuna autorità che si costituisca come assoluta. Per il cristiano non c’è nessuno spazio per l’idolatria di un uomo…

Resistenti disarmati
In tal modo Bonhoeffer superava quel lealismo acritico nei confronti dello Stato che aveva caratterizzato gran parte della riflessione teologica a lui precedente e a lui contemporanea. La sottomissione del credente alla Parola di Dio diviene così fonte di libertà nei confronti del potere politico che, come tutte le realtà umane, deve essere sottoposto al vaglio critico di quella Parola. Una Parola che, afferma Bonhoeffer, può chiedermi la scelta della nonviolenza assoluta: “Qui si pone la domanda decisiva: Gedeone, se tu credi seriamente in Dio, tuo Signore, anche qui, in presenza del tremendo pericolo nemico, allora rimanda indietro le masse del tuo esercito. Tu non ne hai bisogno, se Dio è con te; è lui che vince, non il tuo esercito”.
Non è difficile riconoscere qui la forte impressione esercitata su Bonhoeffer dal progetto nonviolento di Gandhi, che egli in quegli anni aveva tentato più volte di incontrare. In questa prospettiva una Chiesa che faccia affidamento sulla propria potenza o sul calcolo politico appare a Bonhoeffer come una Chiesa che si allontana, tradendolo, dall’atteggiamento di fede nuda che la

Di nome Dietrich
Bonhoeffer nacque a Breslavia nel febbraio del 1906. Studiò teologia a Tubinga e a Berlino, dove conseguì la libera docenza con R. Seeberg. Pastore luterano, fu vicario a
Barcellona della comunità tedesca nel 1929 e passò un anno negli Stati Uniti all’Union Theological Seminary di New York. Lì conobbe un giovane teologo francese, Jean Lassere, che fu estremamente importante per la sua conversione alla radicalità evangelica. Alla fine del 1933 si recò a Londra, dove seguì due comunità tedesche. Fu in quegli anni che tentò più volte di realizzare il sogno di incontrare Gandhi, con cui ebbe un rapporto epistolare. Nel 1935 assunse la direzione del seminario clandestino della i>Bekennende Kirche a Finkenwalde, sul Mare del Nord. Nel 1939 gli venne offerto un impiego in America, ma pochi giorni dopo aver raggiunto gli Stati Uniti decise di tornare per partecipare al destino del proprio popolo. Entrò allora nel gruppo della congiura contro Hitler che si era raccolto attorno all’Ammiraglio Canaris, di cui facevano parte anche il fratello Klaus e il cognato Hans von Dohnani. Arrestato nella primavera del 1943, dopo il Putsch del 20 luglio 1944 vide aggravarsi la propria posizione e venne sottoposto a un più severo regime carcerario. Verrà impiccato, a pochi giorni dalla fine della guerra, nel campo di concentramento di Flossenbürg, all’alba del 9 aprile 1945.
dovrebbe contraddistinguere.
A partire da qui, Bonhoeffer parla della pace come di un “comandamento concreto”.
Il tema, emerso anche nella conferenza ecumenica di Cernohorskè Kùpele, era cruciale perché si trattava (e si tratta oggi) della possibilità della Chiesa di pronunciare una parola definitiva sulla pace o sulla guerra. La pace rappresenta una sfida assolutamente inaggirabile: “Nel caso in cui si decida una guerra la Chiesa non deve essere soltanto capace di dire che in effetti non ci dovrebbe essere nessuna guerra, [...] ma dovrebbe essere in grado di dire concretamente ‘Va’ o ‘Non andare’ in questa guerra”.
E per Bonhoeffer è chiaro che nell’attuale situazione storica il comandamento concreto non può che essere quello del rifiuto della guerra. Nel 1934 affermava nella conferenza ecumenica di Fanö: “Come viene la pace? Con un sistema di trattati politici? Con l'investimento di capitali internazionali nei vari Paesi? Cioè con le grandi banche, con il denaro? O con un armamento pacifico universale, allo scopo di garantire la sicurezza, la pace? No, con tutto questo no senz'altro, per il motivo che c'è una confusione generale di pace con sicurezza. Non c'è modo di giungere alla pace per la via della sicurezza. Poiché per la pace si deve arrischiare, è una grande temerarietà, e non si può mai stare sul sicuro. Pace è il contrario di sicurezza. Cercare sicurezza significa avere diffidenze, e queste generano a loro volta guerra. Cercare sicurezza significa volersi proteggere. Pace significa affidarsi totalmente al comando di Dio, non volere sicurezza, ma nella fede e nell'obbedienza porre in mano a Dio onnipotente la storia dei popoli e non volerne disporre a proprio arbitrio”.
Qualche anno dopo, in uno dei suoi libri più famosi scritto nel seminario clandestino di Finkenwalde nel 1937, Sequela, il teologo di Berlino individuerà il fondamento della pace nel discorso della montagna e nel comandamento dell’amore per i nemici. Sta qui “lo straordinario” della vita cristiana: “Nel Nuovo Testamento il nemico è sempre colui che nutre inimicizia per me. Gesù non ammette nemmeno la possibilità che ci sia qualcuno verso il quale il discepolo possa nutrire inimicizia. Ma al nemico spetta ciò che spetta al fratello, l’amore del discepolo di Gesù”.
La radicalità nonviolenta del cristiano si fonda nella pretesa più estrema del Vangelo di Gesù, l’amore per i nemici e la richiesta di Gesù che i discepoli preghino per i loro nemici.
Proprio a causa di questa fondazione cristologica della nonviolenza cristiana, egli ritiene che la pace non vada confusa con l’assoluto. Essa può avere un’urgenza assoluta, ma per Bonhoeffer rimane sottoposta al giudizio e alla manifestazione di Dio.

Congiura o martirio?
La scelta della congiura, che implicava di fatto l’accettazione della violenza, può sembrare dunque incoerente o urtante. È curioso il destino di Bonhoeffer: la partecipazione alla congiura e il suo martirio hanno costituito per molti l’esempio evidente della fedeltà al Vangelo. Ma a uno sguardo meno frettoloso non è difficile cogliere come proprio la scelta della congiura rappresenti uno dei problemi chiave della sua teologia e della sua esistenza.
Va detto subito che la congiura non nasce dal misconoscimento delle acquisizioni sulla pace, ma da un loro approfondimento. A condurre Bonhoeffer sulla strada della congiura è la consapevolezza di non poter rimanere fuori dalla tragedia della Germania e la convinzione che Hitler avrebbe trascinato il popolo tedesco e il mondo intero in un vortice inarrestabile di violenza. La violenza non può essere considerata in questo quadro come una scelta obbligata, ma piuttosto come un’ultima ratio, un caso limite.

La pace internazionale non è una realtà del Vangelo, non è un pezzo del regno di Dio, ma è un comandamento del Dio adirato, un ordine della conservazione del mondo in vista del Cristo. Perciò [...] non è nemmeno una condizione ideale assoluta, ma un ordine finalizzato a qualcos'altro e non valido in sé. Certo l'instaurazione di un tale ordine di conservazione può avere un'urgenza assoluta, e tuttavia non per se stesso, ma solo in funzione dello scopo cui tende, cioè in funzione dell'ascolto della rivelazione.
Indicherei almeno quattro criteri per interpretare questa scelta. Il primo può essere indicato nella consapevolezza del silenzio della Chiesa. Tale silenzio, così duramente criticato da Bonhoeffer già all’inizio degli anni Trenta, appare al teologo assolutamente inaccettabile dopo dieci anni di regime, ed è tanto più grave perché ha fatto da schermo ad atrocità terribili e non ha fermato gli ingranaggi del regime di Hitler. Per questo la Chiesa deve confessare, dice Bonhoeffer, “la propria pusillanimità, i propri cedimenti, le proprie pericolose concessioni. Essa è rimasta muta dove avrebbe dovuto gridare”. E deve confessare “di aver assistito in silenzio alla spoliazione e allo sfruttamento dei poveri, all’arricchimento e alla corruzione dei potenti. La chiesa confessa di aver desiderato la sicurezza, la tranquillità, la pace, il possesso, l’onore a cui non aveva diritto e di aver così stimolato anziché frenato la cupidigia degli uomini”.
Ciò che è in gioco è la responsabilità degli uomini, e in particolare dei cristiani, di fronte alla spoliazione e alla violenza sulle vittime.
Il secondo criterio è l’assunzione di responsabilità, che non può essere mai confusa né con la ricerca del proprio tornaconto, né con la difesa della propria “purezza”: non si è responsabili senza sporcarsi le mani. Scrive Bonhoeffer nel Natale del 1942: “Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in questo affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene? Solo da questa domanda, storicamente responsabile, possono nascere soluzioni feconde, anche se provvisoriamente molto mortificanti. In una parola: è molto più facile affrontare una questione mantenendosi sul piano dei principi che in atteggiamento di concreta responsabilità”. Alla radice dell’assunzione di responsabilità rimangono la parola di Dio e le esigenze delle vittime.
Il terzo criterio è l’assunzione di colpa. L’etica della responsabilità non è un’etica nella quale il fine (l’eliminazione del tiranno) giustifichi i mezzi. L’assunzione di un metodo violento mantiene per Bonhoeffer tutta la sua carica di drammatica colpevolezza. La struttura dell’azione responsabile comporta come essenziale la disponibilità a prendere su di sé la colpa e comporta la libertà: “Chi si assume responsabilmente una colpa – e nessuna persona responsabile può evitare di farlo – attribuisce a se stesso e a nessun altro tale colpa, paga per essa e ne risponde. Non lo fa confidando empiamente e spavaldamente nel proprio potere, bensì nella consapevolezza di essere costretto a questa libertà e di doversi rimettere in essa totalmente alla grazia”.
L’ultimo criterio può essere forse ritrovato nella consapevolezza che nelle situazioni di disumanità non si può evitare di interrogarsi sul successo del bene. Un problema questo che divenne sempre più acuto con il procedere della guerra e delle persecuzioni agli Ebrei, e del quale, sempre nel Natale 1942, scriveva: “È certamente falso che il successo giustifichi anche l’azione cattiva e i mezzi riprovevoli; ma non è d’altra parte possibile considerare il successo come qualcosa di assolutamente neutrale dal punto di vista etico”. Occorre evitare di porsi unicamente il problema della purezza delle proprie posizioni, per chiedersi quali siano le azioni che oggi – liberamente, responsabilmente, assumendocene la colpa, per il bene delle vittime – possiamo mettere in atto.
Chissà che non sia anche questa, a sessant’anni dalla morte, l’eredità di Dietrich Bonhoeffer.

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