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Da "clandestini" a "migranti in cerca di occupazione"

Per una politica non-emergenziale che, anziché reagire etichettando gli immigrati con termini dispregiativi, cerchi di agevolare l'ingresso di donne e uomini
"qualificati" e non destinati, nei paesi di arrivo, ad un inevitabile sfruttamento.
25 febbraio 2004
Alessandro Fiorini

Quante volte si sente parlare, sui media piuttosto che per la strada, di “assalto di clandestini” di “emergenza sulle nostre coste”, di “situazione insostenibile nei centri di accoglienza”?
Dove si dirige, in questi casi, lo sguardo?
Le migrazioni di massa di questi anni (e secondo ragionevoli previsioni di quelli futuri prossimi) cominciano ad interessarci nel momento in cui approdano sulle “nostre” coste, da quando diventano un problema “per noi”.
Quante volte ci si scaglia, politici, imprenditori e gente comune, contro gli sbarchi o lo scarso controllo delle frontiere e si getta la croce addosso al “clandestino”, già in partenza identificato con un criminale.
Ma, viene da chiedersi, sono percorribili, o addirittura conosciute, le vie legali per entrare in Italia, da parte del cittadino iracheno, piuttosto che somalo, nel momento in cui questi decide o è, più spesso, costretto a lasciare la propria terra?

È facile, oltre che funzionale alle politiche dei governi occidentali, prendersela con i “clandestini”, o gli “irregolari”, come se fossero queste persone a creare uno stato di continua tensione e a costituire un pericolo per la popolazione residente.
È più difficile ammettere davanti all'opinione pubblica l'inevitabilità delle migrazioni e discutere politiche immigratorie che partano da questo dato di fatto inoppugnabile. Quello che è, poi, ancor più difficile da ammettere è che molte, troppe, situazioni di disagio che, in larga parte del pianeta, danno vita a massicci movimenti migratori sono anche conseguenza di interventi "occidentali" in zone del mondo un tempo ritenute lontane e, oggi, così terribilmente vicine con il loro carico di disperazione.
L’illogica e frettolosa diffusione del sistema economico capitalista, l’appoggio alle corrotte élite al potere di paesi del Terzo e Quarto Mondo, gli interventi militari dissennati, tutti questi fattori, tra gli altri, contribuiscono a creare (e mantenere) condizioni di vita insostenibili e, quindi, migrazioni di massa.

Si può, stando così le cose, pensare di bloccare i movimenti di milioni di persone solo irrigidendo i controlli alle frontiere? O aumentando la severità nel comminare le espulsioni?
Sarebbe irrealistico credere di riuscire a diminuire drasticamente i flussi in questa maniera, senza contare che (sono le più importanti associazioni di industriali a ricordarlo costantemente) dall’ingresso di nuovi lavoratori non si può in alcun modo prescindere.
Lo scopo di una politica efficace in tema di immigrazione non può essere quello (ingenuo, oltre che ingiusto) di bloccare gli ingressi alzando muri alle frontiere, o di demonizzare i “clandestini”, in modo che fungano da capri espiatori e da parafulmini per le manchevolezze dei governi
Una volta presa coscienza del fatto che le migrazioni sono strutturali al sistema economico capitalista e ai principi della globalizzazione, sarebbe opportuno, invece, abbandonare quest’ottica emergenziale, che vede nelle migrazioni una piaga e nei migranti un pericolo, e lavorare nel senso opposto, cercando di confrontarsi razionalmente con il fenomeno e di creare i presupposti perché, fin dai paesi di origine, nasca una classe lavoratrice sufficientemente preparata, le cui capacità possano essere valorizzate, e che non sia destinata ad essere inevitabilmente sfruttata nei ricchi paesi occidentali.

Alessandro Fiorini

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