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Il provvedimento sulla cittadinanza introduce elementi innovativi ma rischia di introdurre forme pervasive di subalternità
17 settembre 2006
Stefano Galieni
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)

Tempo fa i conduttori di una nota trasmissione televisiva sottoposero, alcuni personaggi molto noti nel “palazzo” a domande di cultura generale. Uno dimostrò di ignorare il numero delle regioni italiane, uno, l’anno di unificazione del Regno, un altro ancora tentennava nel ricostruire la fine della Seconda guerra mondiale. Quasi in contemporanea, nella pausa di una assemblea dedicata ai temi dell’immigrazione, Mohammed cittadino pachistano da 5 anni residente in Italia, operaio in fabbrica e sindacalista, si ritrovò a commentare amaramente: «Io i volantini li do anche ai miei colleghi italiani, ma che ci posso fare se questi parlano solo il dialetto?».
Due esempi, solo apparentemente paradossali, di come, alcuni vincoli, a cui sarà sottomessa la possibilità di ottenere la cittadinanza italiana per i cittadini immigrati, non tengono conto.

Il Ddl approvato dal Consiglio dei Ministri il 4 agosto scorso, e che sarà sottoposto all’esame del Parlamento, si compone di 5 articoli. Si rompe con l’antiquato sistema dello ius sanguinis ( la cittadinanza per chi ha almeno un genitore italiano) verso l’introduzione di elementi di ius soli (la cittadinanza legata alla residenza). Si mantengono però elementi di subalternità e di discrezionalità nella concessione di tali diritti. Diventerà “italiano” - se il testo sarà approvato senza modifiche - il bambino nato in Italia da genitori immigrati di cui almeno 1 regolarmente residente da 5 anni e il genitore dovrà poter dimostrare di percepire un reddito annuo non inferiore all’assegno sociale (per il 2006 4.9962,23 annui). Un diciottenne sprovvisto di tali requisiti, e oggi a rischio di espulsione, potrà avere invece la cittadinanza dimostrando di aver risieduto in Italia da almeno 5 anni, completato un ciclo scolastico o frequentato un corso di formazione professionale, o aver lavorato regolarmente per almeno 1 anno. Chi risiede in Italia “regolarmente” da almeno 5 anni potrà chiedere la cittadinanza per naturalizzazione, ma permangono i requisiti di reddito e la decisione spetterà al Ministero dell’Interno e non più al Presidente della Repubblica.

I nuovi cittadini dovranno prestare giuramento, altrimenti il decreto sarà privo di effetto. Tutti i percorsi che porteranno all’acquisizione della cittadinanza saranno sottoposti a verifiche.

Fino ad ora chi si sposava con un cittadino o una cittadina italiani doveva attendere 6 mesi per ottenere la cittadinanza, ora aspetterà 2 anni, non avrà la residenza e potrà avere il passaporto tre anni dopo il matrimonio, diritto che però si perde in caso di scioglimento o separazione. » proprio il caso di dire: "Finché morte non vi separi".

Ma, per tornare agli aneddoti iniziali, vale la pena soffermarsi sulle ambiguità dell’articolo 5 che impone per la concessione della cittadinanza: "la verifica della reale integrazione sociale e linguistica dello straniero nel territorio dello Stato". Cosa significa? Probabilmente un test, come per altri paesi europei. Conoscenza della lingua e della prima parte della Costituzione (diritti, doveri e regole per la civile convivenza) secondo indiscrezioni. Saranno molti, a destra come nel centro sinistra a pretendere requisiti mai richiesti ai cittadini italiani. Prevarrà l’esempio britannico (superamento del 3° livello degli esami Esol: English for speakers of other languages), o la ricetta più restrittiva che si va configurando in Germania? E se da recenti dichiarazioni del ministro Amato sembra prevalere il pragmatismo, lasciano perplessi le dichiarazioni si un sociologo molto ascoltato in area governativa, il professor Marzio Barbagli che chiede la conoscenza dell’italiano, di elementi di base della “nostra storia” e della “nostra cultura”. Avere presente la Costituzione e le leggi di base, essere coscienti ad esempio che “da noi” la poligamia è illegale. L’esperto cita l’esempio statunitense anche per quanto riguarda l’apprendimento della lingua, omettendo di dire che negli States per ottenere documenti come la patente di guida, l’esame si può fare nella lingua che si preferisce. Basta dimostrare di saper guidare. Preoccupa comunque come non sia ancora modificato un approccio differenziato fra italiani e immigrati. Si chiede ai lavoratori italiani flessibilità e agli immigrati un lavoro stabile per ottenere il permesso di soggiorno. Non ci si cura della cubatura degli alloggi in cui si vive se si è italiani ma si pretendono precisi standard per gli immigrati. Differenti sono le condizioni che vivono, immigrati e italiani detenuti e differenti le modalità di ottenimento di semplici documenti. Ma l’introduzione comunque positiva delle norme per la cittadinanza rischia di introdurre una nuova e più pervasiva forma di subalternità. Sotto il termine apparentemente neutrale di “integrazione” emerge un meccanismo per cui si chiede agli uomini e alle donne migranti di essere ancora più italiani dei già italiani per poter diventare italiani. Una forma nuova di assimilazione, utilizzando il crinale scivoloso della cultura. Quando, in fase di realizzazione del programma dell’Unione si parlò del diritto di voto, si raggiunse un accordo comune: i processi di acquisizione della lingua e della cultura del paese ospitante dovevano divenire una opportunità e non un vincolo per chi arrivava in Italia. Si pensava soprattutto a chi, per orari e condizioni di vita, non aveva il tempo materiale per appropriarsi di strumenti di emancipazione. Si parlava di elaborare modelli sull’esempio di quelle che erano le 150 ore e che permisero a tante e tanti analfabeti di divenire un po’ più cittadini.

Sarebbe utile tornare a questi principi.

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