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La costruzione sociale della devianza degli immigrati: binomio da sfatare

La presente nota intende contribuire un spunto per riflettere rispetto ai meccanismi che alimentano il processo di criminalizzazione degli immigrati; fattori che certamente non favoriscano ai soggetti interessati una sana integrazione a livello socio-economico locale.
5 febbraio 2006
Hamid Barole Abdu

Molte ricerca sociologiche e criminologiche sottolineano l’importanza dell’influenza dei meccanismi di costruzione e di interazione sociale nella formazione della devianza. Questo approccio è stato utilizzato anche per lo studio della devianza degli immigrati approfondito in Italia dalle ricerche dell’ISMU (ISMU – Iniziative e lo Studio sulla Multietnicità).

Gli attori che partecipano alla costruzione sociale della devianza dell’immigrato sono molteplici: oltre ovviamente agli immigrati stessi, si trovano principalmente le forze di polizia, l’amministrazione della giustizia e in particolare i magistrati, gli operatori e gli assistenti sociali e infine, per ultimi, ma non per importanza, i mass-media.
La costruzione sociale della devianza dell’immigrato ha il suo inizio nella stigmatizzazione posta dalla società sullo straniero che diviene sia la causa che l’effetto della sua emarginazione. La crisi del Welfare state e il ricompattarsi dei legami sociali basati sulla solidarietà familiare rende difficile l’immigrazione e tendenzialmente la respinge.
L’impiego dei migranti in lavori rifiutati dai nativi è un esempio dell’inizio di questo processo. La barriera discriminante che impedisce agli stranieri di inserirsi in un contesto occupazionale normale li conduce verso quei settori dell’economia sommersa stigmatizzati ed emarginati. L’occupazione in questi settori alimenta il processo di discriminazione e chiude il circolo vizioso.

La costruzione sociale della devianza degli stranieri è anche il prodotto delle situazioni sempre più frequenti di disgregazione sociale. Le crisi che ne sono il prodotto producono nella popolazione locale sentimenti di chiusura e “panico identitario”. Lo straniero “è sempre stato il bersaglio privilegiato di conflitti e tensioni che sono prodotti all’interno di una società, ma che è assai più semplice attribuire ad una causa perturbatrice esterna”. In questo modo l’immigrato diventa il capro espiatorio di tutte le situazioni di malessere sociale.

Un contributo rilevante all’analisi della devianza dell’immigrato proviene dalla teoria criminologica della privazione relativa. Secondo questa teoria i comportamenti criminali sarebbero la risultante della percezione di una condizione di inferiorità da parte di un gruppo etnico, in un contesto sociale che assume come valore dominante l’eguaglianza delle opportunità. “La frustrazione si sviluppa in seguito a questo processo di valutazione, poiché (alcuni) individui giungono a credere che vi sia poco o nulla da fare per migliorare la loro posizione relativa, ed è da questa frustrazione che può sorgere la violenza o altro comportamento criminale”.
La propensione alla delinquenza è alimentata anche dalle subculture criminali che si formano all’interno dei gruppi di immigrati. Queste possono avere origine sia nel paese di partenza, sia formarsi nel paese di destinazione, sostenute dal processo di privazione relativa.

Il sorgere della delinquenza si collegherebbe pertanto al fallimento dell’integrazione sociale degli immigrati e alla loro conseguente collocazione nei segmenti più bassi del mercato del lavoro.
La crisi del Welfare state alimenta questo processo. Il fallimento delle politiche sociali statali costringe i cittadini a sopportare direttamente un sempre maggior costo dei servizi sociali e sempre di più i cittadini sono meno disposti a dividere i benefici del sistema con persone esterne al gruppo parentale. Il legame familiare tradizionale tende così a prevalere di nuovo su quello creato dal Welfare state. La rinascita del localismo e dell’etnocentrismo in Europa è anche dovuta al rifiuto dei più di sostenere i costi aggiuntivi che si ritengono causati dalla presenza di immigrati, considerati come sfruttatori dei servizi statali e per questo in competizione con i nativi. “La presenza dell’immigrato incrementa le ansie paranoidi del gruppo ospitante” che vede il nuovo arrivato come un “intruso che cerca di privare i nativi dei legittimi diritti a godere dei vantaggi del loro lavoro, delle loro conquiste e dei loro beni”.

La conseguenza sono le politiche di controllo serrato dell’immigrazione, e, se si considera che restano invariati i fattori di spinta, il prodotto inevitabile di questa miscela è l’immigrazione clandestina.
L’atteggiamento sociale di rifiuto crea un circolo vizioso che impedisce l’integrazione anche degli immigrati legali. L’assenza di legami familiari, di protezione legislativa, di garanzie statali e di risorse economiche favorisce l’inserimento dell’immigrato nell’economia illegale. Nascono così nuove aree urbane disorganizzate socialmente, costituite da individui potenzialmente devianti e prive del controllo di comunità di vicinato o di istituzioni locali (famiglie, imprese, associazioni).
La mancata integrazione sociale e soprattutto economica sembra essere quindi profondamente collegata alla devianza degli immigrati. Dove avviene l’integrazione, la propensione a delinquere è contenuta.

Il livello di integrazione sociale dell’immigrato è determinato principalmente dai seguenti fattori:
- lunghezza della permanenza
- utilizzazione dei servizi sociali
- pagamento di imposte e previdenza sociale
- tipo di impiego (se esiste)
- condizioni di alloggio
- situazione familiare nel paese ospitante
- grado di educazione
- livello di ricchezza personale
- seriousness of illegality
- status socioeconomico originario

L’influenza della componente culturale delle etnie è fondamentale nella scelta di alcuni reati. L’utilizzo delle droghe leggere non è vietato in alcune fedi religiose e spesso sono usate nelle celebrazioni rituali da parte di alcune comunità etniche come i “rasta” giamaicani, oppure l’uso del chat nei paesi del Corno d’Africa o nello Yemen.

Il fenomeno criminale in generale è sempre connesso a forme di “etichettamento”. Tuttavia un filone della ricerca in materia di migrazione e criminalità considera come la formazione di sottoculture da immigrati e l’eventuale devianza collegata possa assumere una funzione positiva nella struttura sociale moderna. La crescente frammentazione sociale delle società post-industriali è andata disgregando le forme tradizionali di autoidentificazione. Questa situazione crea quella condizione di anomia che caratterizza le culture che vivono ai margini della società, cioè quella immigrata e quella criminale. Queste culture svolgono una funzione di unione e di creazione di un senso di solidarietà che accomuna gruppi che si vedrebbero normalmente contrapposti da interessi diversi.
In conclusione, le condizioni di privazione a cui sono sottoposti gli immigrati e il processo di costruzione sociale della devianza interagiscono nella produzione della criminalità: da una parte il fallimento dell’integrazione spinge gli stranieri a concentrarsi in quelle aree occupazionali e urbane che sono etichettate negativamente dal senso comune, dall’altra questa stessa stigmatizzazione impedisce il processo di integrazione dando luogo ad un processo autorigenerativo.

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