Latina

Argentina: Il lombrico e la Monsanto

Nel paese più devastato dagli organismi geneticamente modificati nascono le prime esperienze di produzione agricola pulita. Ce la raccontano gli indios che vivono al confine con la Bolivia
5 dicembre 2004
Giorgio Salvetti
Fonte: Il Manifesto

JUJUY (ARGENTINA)
Cosa fanno gli argentini per non essere seppelliti dallo sterco di 55 milioni di vacche, 34 milioni di capre, 16 milioni di pecore e 3 milioni di cavalli? Il surplus di escrementi è solo una delle difficoltà da affrontare per restare a galla dopo il disastroso rovescio del sistema economico del 2001. Una soluzione possibile, non solo per smaltire la cacca, si chiama agricoltura biologica. Una strada da pionieri che si scontra con gli interessi delle multinazionali straniere del biotech e dell'agrochimico: l'Argentina è una delle loro principali terre di conquista. Ne sa qualcosa el turco Samir Kintar, proprietario di un mattatoio di medie dimensioni (250 capi macellati alla settimana) nella provincia di Jujuy, profondo norte, confine con la Bolivia, una delle zone più povere del paese. Il turco è un tipo scaltro, la sua è stata una vita di alti e bassi, tra crisi personali e le tante crisi del suo paese d'adozione. Abituato a cadere e rialzarsi. Nei suoi primi cinquant'anni ha fatto lo studente contestatore, ha lavorato alla manutenzione dei ponti delle ferrovie ma poi lo stato le ha tutte vendute, allora si è messo a fondere ferro per macchine da pesca da vendere in Cile, ma la svalutazione della moneta nazionale l'ha fatto fallire. A questo punto è arrivato nel paesino di Perico, una delle tante città tur-bo (abitate da immigrati turchi e boliviani) di Jujuy. Quasi ovvio buttarsi nel mercato della carne. Gli affari hanno ripreso a funzionare, mucca dopo mucca ma ogni capo fatto a pezzi fuori dal mattatoio sono cresciute montagne di sterco mescolato a sangue; le scaricava nel fiume, o in un campo vicino. Ma più la sua nuova attività cresceva, suscitando il disappunto dei macelli vicini, più arrivavano grattacapi: multe per inquinamento dell'ambiente e mancanza di rispetto delle norme igieniche. «Un classico - sbuffa Samir Kantir - tanti proprietari di mattatoio, specie di quelli non troppo grandi, vengono assillati per lo smaltimento di sangue e sterco, come se i grandi proprietari facessero tutto in regola...».

Dalla cacca all'humus

E così, il nostro uomo d'affari, non proprio sensibile all'ecologia, incontra un altro tipico personaggio dell'Argentina post 2001, Jorge el tiburon Juarez, uno studente di biologia che non sapeva come sbarcare il lunario ma con un'idea fissa in testa: la lombricoltura. Nasce così la società Proyajo, el turco ci mette i soldi, il terreno, lo sterco e il sangue di mucca, el tiburon ci mette i lombrichi. Sono loro che trasformano la cacca in humus, che poi lui trasporta sulla puna, l'enorme distesa dell'altipiano andino che dalla quebrada di Huamuaca, la grande valle che fu cammino storico degli Incas, si protende verso la Bolivia. Lassù, poveri agricoltori indigeni, dimenticati dallo stato argentino, usano l'humus per fertilizzare coltivazioni biologiche di scalogno, molto ben pagato nei mercati di Buenos Aires per il consumo e per l'esportazione. «E' solo il secondo anno che coltiviamo - spiega el Tiburon - siamo in attesa di vendere il primo raccolto consistente, ma l'idea funziona e stiamo già facendo esperimenti anche per la cooperativa del tabacco di Jujuy, uno dei più importanti produttori agricoli della provincia. Tentiamo di collegare mercato dell'allevamento e mercato agricolo e di unire gli interessi di produttori, ambiente e comunità indigene. Certo dobbiamo fare tutto da soli. In Europa la lombricoltura è molto conosciuta e praticata e c'è un mercato crescente per l'agricoltura biologica. Qui, per anni mi hanno dato del pazzo e ancora oggi o ci ostacolano o ci aiutano, ma solo per ripulirsi l'immagine: tutto bene, finché restiamo piccoli e non facciamo troppo sul serio».

Non è difficile credergli. Gli esperimenti ecofriendly che in Italia ogni giorno conquistano nuove fette di mercato, in Argentina diventano imprese avventurose. Chi ci prova è costretto a fare i conti con il rapporto inquinato tra governo, grandi produttori agricoli e multinazionali straniere. L'Argentina - 13,9 milioni di ettari coltivati con organismi geneticamente modificati (21% della produzione mondiale) - è il secondo produttore mondiale di prodotti transgenici. Prima della crisi del 2001, gli ettari destinati alla coltivazione biologica erano appena 238mila. Nelle sterminate pianure, per centinaia di chilometri, ore e ore di pullman, si vedono solo enormi silos e grandi cartelli pubblicitari di Monsanto e Syngenta (130 milioni di dollari di fatturato solo in Argentina). Gli aerei che volano raso terra spruzzano tonnellate di erbicida: eccolo, è il famigerato Roundup di Monsanto, che ha fatto di tutto per inondare l'Argentina con il suo erbicida. Promozioni comprese. Adesso «regala» 100 ettari «disinfettati» ai suoi clienti affezionati, perché Monsanto Pase lo que pase està de tu lado (succeda quel che succeda sta dalla tua parte). E' così vero che Monsanto sta addirittura minacciando di boicottare le esportazioni di tutti i prodotti agricoli argentini. Cosa è successo? Dopo aver permesso che per anni circolassero migliaia di tonnellate di semi transgenici truchos (non coperti da brevetto) pur di propagare a tappe forzate il contagio da ogm su tutto il territorio, ora batte cassa e pretende di farsi pagare i «diritti d'autore». Nel balletto tra istituzioni e multinazionali, il segretario nazionale dell'agricoltura argentina, Miguel Campos, ha già pronto un piano davvero geniale: una tassa su tutte le vendite agricole (dallo 0,35% allo 0,95%) per costituire un Fondo de Compensacion Tecnologica. Lo stato poi devolverà il malloppo direttamente alle casse di Monsanto, altrimenti la multinazionale minaccia governo e agricoltori di far scattare l'embargo.

L'epopea transgenica in Argentina è cominciata nel 1996, in piena era Menem, e adesso sembra impossibile fare marcia indietro. In pochi anni l'economia e l'ecosistema dell'intero paese sono stati sconvolti. Gli agricoltori sono stati spinti a triplicare la produzione di soia, naturalmente ogm: 30 milioni di tonnellate l'anno che fanno dell'Argentina il terzo produttore mondiale per un giro da 10 miliardi di dollari che frutta allo stato 2 preziosissimi miliardi di dollari di tasse sulle esportazioni. Anche l'esecutivo del presidente Kirchner, che pur si batte con energia contro la prepotenza del Fmi, sa che i miglioramenti dell'economia nazionale sono dovuti anche al boom della soia gm e dunque resta poco margine di manovra fino a quando il governo sarà costretto a operare sotto il ricatto delle multinazionali. Eppure, in Argentina è sempre più chiaro che si tratta di un sistema agroalimentare drogato che ha illuso molti ma è destinato a scoppiare. L'espandersi di enormi monoculture e l'abuso di prodotti chimici aumenta ogni giorno di più la resistenza dei parassiti agli erbicidi. L'Inta (Instituto Nacional de Agropecuaria) dispensa disperati consigli per combattere le epidemie delle piante. L'ultima calamità si chiama la roya asiatica, un fungo che sta falcidiando le coltivazioni di soia, una questione che in Argentina è di vitale importanza e che riempie i giornali. Ma il consiglio è sempre lo stesso: dosi maggiori di prodotti chimici, con inestimabili danni all'ambiente e alla salute di animali e uomini.

Come se non bastasse, la soia pretende sempre nuovi terreni: deforestazioni massicce specialmente nelle province di Salta e Jujuy, dove si concentra la parte argentina degli alberi della yunga, il secondo polmone forestale del latinoamerica dopo l'Amazzonia con centinaia di animali rari in via di estinzione, come il giaguaro. Vestiti da giaguaro, con pelle finta, in agosto gli attivisti di Greenpeace Argentina sono entrati nella yunga per fermare le ruspe pronte a sradicare gli alberi. «E' una gara contro il tempo - spiega Emiliano Ezcurra, della campagna sulla biodiveristà - ogni giorno si distrugge una porzione di selva grande come un campo di calcio». Ancora più gravi i danni sociali. La soia gm è completamente assente dalle abitudini alimentari degli argentini, è totalmente destinata alle esportazioni e alla mangimistica, impoverisce le coltivazioni consumate dal popolo argentino, che in alcune aree del paese è alla fame. Nell'affare della soia si sono buttati spregiudicati imprenditori cittadini in cerca di facili guadagni, sono quasi tutti di Buenos Aires, scorrazzano per i campi con gippone e telefonino. Comprano per quattro soldi le terre dei piccoli contadini, che scacciati, a volte con la forza, vanno a ingrossare il popolo dei disperati urbani e suburbani. «Ci hanno costretto a lasciare la nostra terra minacciandoci con armi da fuoco», dichiara Ramon Ferreyra, ex-contadino sui monti del Gran Chaco. In pochi anni le piccole e medie imprese agricole sono diminuite del 30%.

A dicembre la raccolta

Pur sapendo che questa è la storia della sua terra, il biologo con la fissa dei lombrichi - El Tiburon - prende ostinatamente la sua camionetta e sale alla puna per controllare il suo scalogno bio: «Manca poco al verdetto finale, a dicembre si raccoglie». Vuole far firmare la richiesta di un finanziamento statale per le piccole imprese ai suoi coltivatori indios Humauaca. C'è pure il garante: è el turco Samir Kintar, quello del mattatoio, l'imprenditore riconvertito bio per smaltire lo sterco di mucca, un vero uomo d'affari. A quota 2461 metri, a pochi chilometri dai resti archeologici di Tilcara, all'ombra dei cactus e sotto un cielo troppo azzurro, la famiglia india Manì osserva lentamente lo scalogno crescere. «Dovete firmare queste carte per ricevere finanziamenti», si infiamma Jorge. Il vecchio Manì, cappello calato sugli occhi, il sorriso rinsecchito dal vento e dal sole, nutre una sana diffidenza per il bianco che porta carte da firmare: «Io prima voglio un cavallo». Il figlio, detto il gordo Manì, è più moderno: «Va bene che siamo indio ma anche noi dobbiamo investire in tecnologia, ci pensiamo».

A 30 chilometri dal confine con la Bolivia, Carrizzalillo, un paesino fantasma. Invece ci vive Leonardo, 32 anni, mani nere di terra e foglie di coca sempre in bocca. Oltre allo scalogno (bio), coltiva il grano arricchito, il quinua (chicchi molto di moda in Italia, le signore ipersalutiste per portarsene a casa una sacchetto a Milano pagano quello che Leonardo guadagna in un mese). Lui, invece, lassù alleva anche cincillà e si è appena procurato in Perù semi di quivica. Cos'è? «Meglio del quinua, anche questo coltivavamo prima che arrivaste voi bianchi, ora proviamo a vendervelo caro». Suggestivo ma troppo fuori dal mondo e dal mercato per far marciare un paese enorme come l'Argentina. Forse. Certo però è che l'agricoltura argentina se non vuole scoppiare dovrà pur cambiare direzione. E se non bastano le malattie delle piante, i disastri ambientali e sociali, il niet dell'Europa agli ogm, forse solo i cinesi potranno essere più convincenti di Monsanto&Co. Da poche settimane anche la Cina infatti comincia a chiudere le porte. Sempre più derrate di partite di soia ogm argentina infatti vengono bloccate alla frontiera perché - dicono i cinesi - «non sono di buona qualità». In agosto il Centro Nazionale di Informazione su Semi e Olii cinese ha innalzato gli standard per i prodotti agroalimentari di importazione. Una sciagura: la Cina è il primo importatore di prodotti alimentari e di mangimi transgenici argentini, a cominciare dall'olio di soia. Da solo rappresenta un mercato da 543.537 tonnellate.

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