Cile : Il guardiano della memoria
costruito sulle rovine di una miniera di salnitro. Si è costruito qui la sua
casa, per raccontare il passato
Per arrivare a Chacabuco bisogna camminare per un bel pezzo; si scende dalla
corriera nel mezzo del deserto, esattamente all'altezza di Carmen Alto,
sulla strada che porta a Calama, per poi incamminarsi sotto i raggi del sole
che colpiscono senza pietà in questa zona arida del Cile. A esser sinceri,
niente del paesaggio inviterebbe il viaggiatore a fermarsi in questo punto
della mappa, a meno che non abbia interesse a scoprire qualcuna delle
cosiddette "città fantasma del salnitro" disseminate nella regione, adesso
abitate solo dalla polvere e dal vento del deserto. Di Chacabuco, punto
quasi invisibile sulla mappa, non parla nessuno. Nessuno menziona mai questo
posto che fino a 70 anni or sono ospitava una delle miniere di salnitro più
importanti del mondo, e se ci si mette a chiedere alla stazione di Atacama
come arrivarci, molti non sanno rispondere nemmeno indicando un punto
immaginario all'orizzonte, Nella storia di questa città, estesa per 62
ettari e circondata da muraglie, s'è passati dalla costruzione, a inizi del
Novecento, all'abbandono, come un Titanic in un mare di sabbia e sale,
quando l'estrazione del salnitro smise d'essere un buon affare per le
società straniere; poi venne la riconversione in campo di concentramento
della dittatura cilena, a partire dal settembre 1973. Sebbene già tra gli
anni Quaranta'40 e i Settanta il sito fosse utilizzato sporadicamente
dall'esercito cileno per le esercitazioni militari, solo con l'avvento al
potere di Pinochet venne l'idea di trasformare questa città abbandonata in
un campo di concentramento per prigionieri politici. Costruita nel cuore del
deserto di Atacama, a decine di chilometri da qualsiasi segno d vita, per
chi entrava a Chacabuco l'unica certezza era che se fosse riuscito a
scappare ed arrivare al cancello d'uscita, solo un miracolo avrebbe permesso
di sopravvivere alla fuga da questa prigione circondata da sabbia e cielo
sterminati.
Testimonianza della barbarie
Chacabuco potrebbe essere un nome come tanti nella lunga lista dei campi di
concentramento sparsi dalla dittatura nell'angusta mappa cilena, se non
fosse per un dato sorprendente: in questa città abbandonata, lontana dalle
strade principali, attanagliata dal caldo torrido di giorno e dal gelo di
notte, vive solo una persona, Roberto Zaldivar, un ex detenuto sopravvissuto
agli orrori del campo che ha scelto, quando venne restaurata la democrazia,
di venire a vivere tra le stesse pareti dove un tempo era stato recluso con
la forza insieme con centinaia di altri militanti politici. Così ha deciso
di costruire la sua casa proprio a fianco dell'ingresso a Chacabuco, a lato
della cancellata che dava accesso al campo, in una stanza illuminata dalla
luce abbacinante del deserto. In due precarie sale attigue ha allestito il
museo improvvisato che testimonia la storia di questo posto.
Il "reperto" più importante si trova su di una parete: una grande mappa
della miniera di salnitro che gli serve per mostrare ai visitatori
occasionali arrivati fin qui, com'era strutturata questa macchina di
reclusione e morte per chi è passato sotto, tra il novembre `73 e l'aprile
`75. In totale, più di 2.500 persone, "delle quali il 12% minorenne",
precisa Zaldivar, per marcare il carattere brutale del sistema repressivo
cileno. In due umili gallerie dalle pareti spoglie come il terreno del
deserto d'Atacama, Roberto ha raggruppato foto e documenti che parlano della
storia del posto, spezzoni di diari personali, lettere degli ex detenuti,
messi insieme alla rinfusa con oggetti che rimandano alla vecchia miniera di
salnitro, destinati a formare insieme una originale sintassi che spiega e
abbina la dura vita dei minatori sfruttati del salnitro, con le miserie
della vita dei prigionieri politici degli anni Settanta.
"Vivevamo in case piccole d'argilla, in camerate in cui mancava la luce
elettrica. Tra queste pareti molti impazzirono e molti morirono, nel nulla
del deserto. Per sopravvivere ci vedevamo obbligati a inventare, a
immaginare, altrimenti si correva il rischio di soccombere alla violenza dei
carcerieri", ripete guardando un punto indefinito nella parete in cui sono
impressi i nomi di alcuni detenuti passati di qui, tracciati con la punta
dei chiodi. "La maggior parte di quelli che vengono qui chiede di vedere i
resti della vecchia miniera, ma mai immaginerebbero di trovare le rovine del
più grande campo di concentramento allestito in Cile", aggiunge. Dopo una
pausa, accenna con la testa a un posto oltre le finestre della sala. "Lì,
dove si vedono quegli enormi ferri ritorti, si trova la vecchia piazza
principale della miniera, e poco oltre il teatro che negli anni Venti
serviva per l'intrattenimento dei lavoratori. Cerchi al centrodella piazza,
troverà un albero differente dagli altri 3 rimasti lì". Difatti, al centro
della piazza devastata dal passare del tempo, rimangono in piedi tre alberi
secchi, uno dei quali sapientemente lavorato da un artista molto paziente,
che è riuscito a dargli la forma di un corpo scavato dalla sofferenza e un
viso simile a quello del quadro "Il grido" di Edward Munch. "L'opera è di un
ex prigioniero di Chacabuco che ha terminato qui i suoi giorni,
suicidandosi. Quest'albero secco è una delle poche tracce visibili del fatto
che questo posto è stato occupato dalla morte".
Senza dubbio, Roberto Zaldivar ha ragione, visto che il resto bisogna
immaginarselo oscultando le pareti che facevano parte del presidio, alla
ricerca di una traccia lasciata intatta dal passaggio del tempo, dal vento o
dai graffiti tracciati a punta di pietra. Roberto attraversa con me la città
prigione, girando per le rovine. Si ferma ad osservare i resti dei
macchinari ossidati risalenti all'epoca di splendore della miniera, che
senza volerlo disegnano forme tenebrose al centro di questo paesaggio
desolato. "Il campo di Chacabuco ha funzionato a pieno ritmo per quasi due
anni e ha cominciato a svuotarsi quando molti detenuti vennero trasportati
nei campi di Ritoque, Melinka, Pisagua eValparaiso. Oppure non facevano
altro che buttarli a mare al largo della costa di Antofagasta, a soli 100 km
da qui. Quando venne smantellato, i militari pensarono a minare i dintorni
per scoraggiare chi avesse in mente di visitarlo, o chiunque ne avesse
sentito parlare dai racconti dei sopravvissuti. La loro idea era lasciare
che Chacabuco venisse divorato dal deserto e dal passare del tempo, ma
adesso ci sono io. Non ci sono riusciti", dice.
Senza paura di nulla
Mentre Roberto Zaldivar pronuncia questa frase prende una sigaretta e se la
accende, tira il fumo e chiude gli occhi come a cercare di recuperare
immagini racchiuse nella memoria. "Mi ricordo che quando Pinochet era già
stato destituito, nel 1991 , vennero qui un giorno un gruppo di soldati
interessati a conoscere la storia economica delle miniere e del nostro
paese. Dato che io sono l'unico abitante del luogo, il comandante della
truppa mi chiese di raccontare ai soldati la mia testimonianza della storia
della miniera, credendo che avrei parlato del salnitro, dei vecchi tempi
della società "Anglo Lautaro". Invece io ho replicato con la mia storia, del
campo di prigionia, dei prigionieri rinchiusi come bestie nelle baracche,
della fame e del freddo della notte, delle torture. Il silenzio dei soldati
mentre ascoltavano i miei racconti era atroce, ma nessuno osava chiedermi di
tacere. Nemmeno il comandante".
Roberto può raccontare decine di storie come questa. "Qui è venuta gente da
tutto il mondo per intervistarmi, da Londra la Bbc, la tv spagnola, anche
loro si sono accorti della mia esistenza. Credo d'essere al mondo l'unico
sopravvissuto a un campo di concentramento che sia rimasto a vivere nello
stesso posto dove era stato detenuto. Chi viene qui non manca mai di
chiedermi perché ho preso questa decisione, perché non lascio una volta per
tutte questo posto ostile e me ne vado a Santiago o Valparaiso. A tutti do
la stessa risposta: se me ne vado di qui, se lascio questo posto, la memoria
del luogo scomparirà. Se abbandono il campo, chi ne racconterà la storia?".
La geografia delle atrocità
"I campi sono qualcosa di atroce - dice con voce sorda - non importano le
loro dimensioni, la quantità di prigionieri detenuti o la matrice ideologica
di chi li ha costruiti. Rappresentano il prodotto più abominevole della
creazione umana, e quello che succede al loro interno è quasi inenarrabile.
Lotto perché Chacabuco rimanga nella memoria collettiva. Non voglio che lo
divori l'oblio, voglio che sia conosciuto come si conosce la storia di
Auschwitz o dell'Esma in Argentina".
La sera cala sul deserto di Atacama e la luce disegna strane figure sul
suolo di Chacabuco. Tra un'ora la temperatura scenderà a zero gradi. Roberto
Zaldivar mi accompagna con gentilezza al cancello d'ingresso, lo stesso da
cui sono entrato a mezzogiorno. Fa alzare una sbarra militare, si toglie il
berrettino con la visiera e mi indica la direzione da tenere per arrivare al
primo villaggio prima che faccia notte. Il rifugio più vicino è a un paio di
chilometri, un posto chiamato Oasis. "Digli che ti manda Roberto Zaldivar,
quello di Chacabuco, mi conoscono". Un abbraccio segna l'addio. Avanzo in
direzione del deserto e quando sono abbastanza lontano mi volto per vedere
per l'ultima volta Chacabuco. Vedo che Roberto Zaldivar è ancora lì, nello
stesso posto dove ci siamo salutati, con le mani sulle sbarre del cancello,
ad osservare la mia avanzata nella notte che cala sul deserto di Atacama. Lo
vedo alzare la mano e gli restituisco il saluto alzando la mia. Allora gira
su se stesso e torna con passo lento all'interno del campo, con la speranza
- così m'immagino io - che il prossimo mattino porti la promessa di un nuovo
viaggiatore a cui possa confermare con la sua presenza che in questo posto
ancora rimangono motivi a sufficienza per continuare a vivere con dignità.
*
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